i quaderni di Cico
 
 

 

 

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titolo: "FolleMente"
collana
i quaderni di Cico
autore Lucio Figini
ISBN 978-88-97424-11-6
€ 12,00 - pp.166 - © 2014 - in copertina, “Psyko-Puzzle”, progetto grafico e illustrazione originale by Andrea Tarli.


Essere svegliato dalla Polizia alle 8:30 del mattino non è il massimo. Essere poi accusato di omicidio non migliora certo la giornata. È ciò che accade ad Alessandro il 7 maggio del 2016. Educatore professionale, abituato a giornate di ordinaria follia, padre di una bimba di 8 anni di nome Sabrina, Alessandro è un depresso semialcolizzato e ha un pessimo rapporto con le donne.

L’omicidio di cui si tratta è accaduto la sera precedente l’anniversario del fatto più significativo della sua vita, e per questo motivo lui è il principale sospettato. L’unico modo che ha per uscire da questa assurda storia è iniziare una propria impacciata e schizofrenica indagine. Ad accompagnarlo, l’amico Fabio e Maia, sorella della vittima e pittrice dal pessimo carattere.

Il tutto si snoda e si dipana nell’affascinante
cittadina ligure di Sestri Levante.

 
 

leggi qui l'intervista di Giuseppe Iannozzi (alias Iannozzi Giuseppe) all’autore

 
 
 
 
 

 

Vi sono uomini che esprimono,
con splendente umiltà,
la consapevolezza di essere
un po' meno di un dio,
ma poco più di un animale.
In essi i ricordi lasciano nel cuore
l'eco di promesse mancate...

____________________________________

FOLLEMENTE è un noir. Un giallo psicologico.
Un elogio alla follia. Una storia d'amore.

 

... e di Lucio Figini, leggi anche gli altri precedenti romanzi della trilogia, La discendenza dell'acqua,
Sopravvivere a un angelo e Ariel (delitto a Sestri Levante) oltreché Michelangelo il giostraio (e le donne)

 

 

leggi l'intervista a tutto campo di Giuseppe Iannozzi a Lucio Figini

 
 
 

 

Brani tratti da "FolleMente"

I

Primo giorno.
Venerdì 6 maggio 2016.
Ore: 20.23

- Vi ammazzo, bastardi!
È un coltello da cucina, non troppo affilato. Ma può fare un buon lavoro, se piantato nel fegato.
- Cazzo facciamo? - mi sussurra Fabio sottovoce.
Non rispondo. Non ancora.
Cammina verso di noi. Si ferma e torna indietro. Il corridoio è lungo una quindicina di metri. Buio. La poca luce arriva dall’uscita di sicurezza. Lui è tra noi e l’uscita.
- Nulla - rispondo.
- Cerchiamo di prenderglielo - insiste.
Nessuno t’insegna cosa fare in questi casi.
Ma non ci vuole un genio per capire che Antonio non sta per niente bene. Uno psichiatra direbbe: schizofrenia atipica, crisi psicomotoria con agiti aggressivi. Non sa da che parte è girato e vuole infilarti un coltello su per il culo, dico invece io.
Fabio è molto più alto di me. Quasi un metro e novanta di uomo. Capelli lunghi e sottili. Lineamenti nordici e lo sguardo da vecchio ragazzo. È il miglior collega si possa sperare di avere, in queste occasioni. Ed è un amico.
Antonio, invece, ha diciassette anni, pesa centotrenta chili ed è matto come un cavallo. La maggior parte delle volte mi adora, ma non oggi.
- Ascolta, Alex, dobbiamo fare qualcosa. Se esce qualche ragazzo dalle stanze…
- Aspettiamo ancora.
Il gigante non molla.
Lo sguardo non è dei migliori. Pupille dilatate. Passo lento ma costante. Coltello in mano. Quattro giri avanti e indietro. E noi lì. Immobili. Due statue di cera.
Dovrei staccare alle ventuno, ma da come si mettono le cose non ne sono più tanto sicuro. Ho in programma un’uscita con Sabrina e adesso non ho neppure il tempo di farmi una doccia.
- Siete dei fottuti bastardi. Vi ammazzo.
Dopo aver pronunciato queste parole nella nostra direzione, Antonio appoggia il coltello sulla mensola della finestra.
- Aspettami qui - si rivolge alla lama, come se potesse rispondergli - vado a pisciare e torno.
Raccolgo velocemente l’arma. Quello stronzo, con cui gioco tutti i giorni a pallone, con cui mangio, guardo la tv e gioco all’Xbox, ha nascosto un coltello in camera per farci la pelle, o per spaventarci. Poco importa. Quello stronzo, al quale normalmente voglio anche un po’ di bene, mi ha rovinato la serata.
- Ma come… Come facevi a sapere che lo mollava?
- Non lo sapevo.
- Sei un maledetto figlio di puttana, lo sai?
Gli scappa un sorriso. Ma non è finita.
Antonio torna e, non trovando il coltello, ci viene addosso come un treno in corsa. Non me lo aspetto e faccio l’unica cosa che mi passa per la testa. Mi abbasso e con i miei sessantacinque chili lo carico alle ginocchia. Lui cade, ma per poco. Si rialza e il suo pugno è sopra di me. Un martello che mi frana sulla testa.
In quell’istante un’ombra alle sue spalle. È Fabio che lo placca da dietro, impedendogli di colpirmi. Lo butta a terra. E io mi ci corico sopra.
Gli afferro le braccia. Mentre lui lo blocca da dietro. Un panino umano con più di un quintale di carne nel mezzo. Lo teniamo, cercando di non rendere la cosa più difficile di quanto già lo sia.
- Tranquillo, Antonio, adesso passa - mi esce dalle labbra. Ma vorrei riempire di pugni quel faccione.
Diciassette minuti. Tanto dura. Diciassette minuti sono una piccola battaglia. Sono un’eternità, se i muscoli sono tesi e la testa è impegnata a controllare un bestione che ti vuole strappare la pelle d’addosso.
- Mi spiace… Mi spiace… - alla fine farfuglia, piangendo come un bambino, che ha la sensazione di averla fatta grossa. Tentando di morsicarmi un braccio.
Ed entra il medico di guardia: Carola Freddi, una dottoressa di trentadue anni che si porta addosso un corpo che è un’opera d’arte. E dei capelli scuri come la notte.
- Ha bisogno di un sedativo? - la sua voce nelle mie orecchie.
- Vedi tu… - rispondo. E il tono non è di quelli gentili.
Serata iniziata male.
Non coglie la provocazione. Dice qualcosa all’infermiera, che tira fuori dalla tracolla una boccettina e compie quel rituale vecchio come il mondo: conta le gocce.
- Alessandro. Per favore… - la dottoressa non si avvicina troppo.
Fabio ammorbidisce la presa, ma non molla. Alzo la testa di Antonio, che prende le gocce senza opporsi.
Una decina di minuti e lo lasciamo. Dopo qualche bestemmia nella mia direzione, si corica sul divano.
- No, Antonio, non qui - gli dico.
Tra un vaffanculo e un mi spiace s’indirizza verso la propria stanza. Lo seguo.
- Me ne occupo io.
- Non mi sembra il caso, è ancora in stato… - interviene la dottoressa.
Ma le mostro le spalle. Indico a Fabio di non muoversi e lo accompagno a letto. Da solo.
Spengo le luci. Avvicino la sedia.
- Ora dormi Anto’, è tutto passato.
Cerca di rialzarsi, ma spingo la mia mano sulla sua fronte. Non se lo aspetta e per mia fortuna non insiste.
- Non sei arrabbiato? - singhiozza.
Il mio sguardo si perde nell’oscurità.
- Sono stanco. Ne parliamo domani. Adesso fai silenzio e chiudi gli occhi.
Dopo poco più di dieci minuti si addormenta.
Esco senza fare rumore e trovo Fabio che mi aspetta nel corridoio.
- Sei ancora qui?
- Certo. Anche se vuoi fare l’eroe, ti copro le spalle.

Verbalizziamo l’accaduto e cerchiamo la dottoressa. La troviamo con l’operatore notturno alla macchinetta del caffè, fuseaux attillati e una maglietta che scende sotto il culo. Ce la mette tutta a nascondere la propria femminilità. Non ci riesce un granché.
- Come sta?
- Dorme. Questa notte non dovrebbe creare problemi.
Fabio si avvicina, mette una moneta e pigia il tasto del the caldo. Poi guarda il culo della dottoressa.
- Noi andremmo. Se a lei sta bene - le dice.
Ci accenna un sì. Poi però aggiunge nella mia direzione: - Non so proprio come fate a fare questo lavoro.
- Forse siamo solo diversamente matti - rispondo col sorriso.
Ha i capelli raccolti. Un ricciolo nero è sfuggito e scende sulla fronte.
- Sei la metà di lui, poteva… Insomma, poteva davvero farti male.
- Non con lui - do una pacca sulle spalle a Fabio, che sembra rispondere con un suono sordo, come fosse marmo.
- Sei entrato da solo in stanza. Non mi sembra un granché come procedura, a dieci minuti da una crisi e con ancora il ragazzo agitato - insiste.
- Cosa vuoi dire?
- Non mi va di sottolineare i ruoli, ma sono il medico responsabile e se ti chiedo di non entrare da solo con un paziente che ritengo ancora pericoloso…
Passo il registro della notte al notturno.
- Fai una segnalazione al direttore sanitario.
- Non è questo che voglio dire. Ma non capisco perché ti metti in queste situazioni.
- Intendi vi mettete.
Allontana lo sguardo.
- Mi spiace - aggiungo - parlerei volentieri delle mie tendenze autolesioniste, ma non sei la mia psicoterapeuta personale.
Fabio si avvicina.
- Lo scusi, dottoressa - sorride - è stata una giornata pesante.
Silenzio tra noi, mentre scendiamo le scale. La mia schiena è a pezzi.
- Una birra?
- Non posso. Mi aspetta Sabrina. Le ho promesso di uscire, se non è stanca.
Mi blocca il braccio.
- Un attimo - si siede sul marciapiede - è stata dura questa volta.
- Sì. Se non ci fossi stato tu… - lo seguo.
- Non dovrei dirlo, ma non ti avrebbe toccato. Piuttosto mi beccavo una sospensione, ma non ti avrebbe toccato.
- Mi stavo dimenticando che queste cose capitano.
- Sei stato a casa tanto, è normale.
- Forse troppo.
Mi guarda negli occhi: - La troviamo una sera per fare due parole con calma?
- Mi stai diventando sentimentale? - gli sferro una spallata.
- Ma smettila…
Sorrido: - Domani sera, se sei libero.
- A te non capita mai di aver paura? - chiede all’improvviso.
- Anche la paura è impegnativa. Diciamo che non me ne frega più molto.
- In che senso?
- Le persone. I ruoli. Le donne. Be’, quelle sì, m’interessano. Ma non ho molto tempo per pensarci.
- Certo: - interrompe - Sabrina.
- Sabrina, sì.
Si accende una sigaretta.
- Dovresti uscire con altre.
- E tu dovresti smettere di fumare.
- Sii serio...
- Magari con la dottoressa dal bel culo? Guarda che si notava che non le staccavi gli occhi di dosso. Sei proprio un bel tipo… Siamo nel bel mezzo di un casino e tu lì a esaminarle le chiappe.
Osserva il cielo scuro.
- Perché no? Abbiamo una vita sola, dopotutto.
- Su questo non c’è dubbio.
- Belin, se l’hai fatta incazzare.
- Anche su questo non c’è dubbio.
Si avvicina: - Forse sei davvero rientrato al lavoro troppo presto. Ho avuto la sensazione che non t’importasse di farti male.
- Le cose cambiano. E anche le persone.
Mi abbraccia, non l’ha mai fatto. L’amicizia è una delle poche scelte che una persona compie liberamente nella vita. I genitori non li scegli, non i figli o i fratelli e spesso neppure le donne.
È finito un altro giorno di ordinaria follia.

Imbocco il casello di Genova ovest. L’autostrada da Genova a Sestri è deserta. Accelero. Sulla destra il mare in lontananza è illuminato dalla luna. La mia mano sul pomello del cambio e lo sguardo nell’oscurità che mi si offre di fronte. Su una strada che non è più di semplice asfalto.
Mezz’ora dopo sono a casa. Cerco di aprire la porta senza far rumore. Sabrina è davanti alla tv. Mi ha aspettato.
- Sono ancora sveglia, hai visto? Tanto domani non c’è scuola.
- Sì, amore. Lo immaginavo.
Spegne la tv. Mi indica di stare lì, fermo a un metro dall’entrata. Poi inizia a correre nella mia direzione. Salta. Si aggrappa alle spalle e mi bacia, sferrando involontariamente una ginocchiata sulle palle. Ma va bene così.
- Dove mi porti?
- Al Baciollo, piccola. Oggi è sabato e ho voglia di un waffel caldo con gelato di fichi e noci.
Sorride.
- E la panna? Posso prendere la panna?
Guardo mia madre, che nel frattempo mi si avvicina e accenno un sì.
È strano vedere mia figlia di otto anni sorridere. Non ricordavo sapesse ancora farlo. Splende di luce propria in un mondo che per un attimo sembra avere quasi un senso.

I baci di mia madre e di mia figlia, sulla guancia, hanno la stessa leggerezza.


II

Secondo giorno.
Sabato 7 maggio.
Ore: 8.51

Facile riconoscere i passi di mia madre, timidi e leggeri.
- Alex, sveglia.
- Non ora, ma’.
- Mi spiace, ma non credo abbiano voglia di aspettare.
- Chi?
- La Polizia.
Che cazzo di ora per presentarsi.
- Sistemati.
Rispondo con una smorfia.
- O almeno fai un tentativo.
Il bagno è a pochi metri: acqua fredda e saliva calda, lo specchio e il mio muso.
E di nuovo la porta che si apre.
- Vestiti, per favore.
I pantaloni della tuta finiscono ai piedi.
- Devo?
Non risponde. E io faccio il mio dovere.
- La piccola dorme?
- Sì. Avete fatto tardi ieri sera.
- Siamo stati bene. Da tempo non la vedevo così.
Mia madre esce dalla stanza, con gli occhi lucidi.

Sono in due. Uno piccolo e robusto, l’altro alto e ancora più robusto. Uno che supera di poco i quaranta, l’altro con la faccia da bambino, ma di quei bambini strafottenti, che vorresti prendere a schiaffi appena aprono bocca.
I primi uomini che entrano in casa da non ricordo quanto, a parte Fabio.
- Buon giorno, signor Vinci, si ricorda di me? - è il più basso che parla.
Mimo un no.
- Sono il Commissario Giacoboni, ci siamo parlati il giorno dell’incidente.
Mimo un sì.
- Dovremmo farle alcune domande.
- Prego.
- Se fosse così gentile da seguirci in caserma. Può venire con noi o prendere la sua vettura.
Sprofondo sul divano. Il più giovane urta con la testa il lampadario che scende al centro della sala.
- No.
Si guardano.
- Mi spiace, ma è la procedura. Non ci costringa a tornare con un mandato. Se non ha nulla da nascondere, qual è il problema?
Allungo le gambe: - Forse mi sono spiegato male. Risponderò a tutte le vostre domande, ma non oltrepasso quella porta.
- Senta - interviene il giovane - forse non ha capito. Noi siamo…
Ma il Commissario lo stoppa.
- Posso comprendere la sua situazione. So quello che le è accaduto, ma ci sono delle regole.
Mia madre entra con la moka in mano e io non faccio in tempo a rispondere che non sono le mie regole.
Aroma di caffè. Un sorriso non cercato sulle labbra di tutti.
- La prego, Commissario. Si sieda. Un caffè?
- Signora, lei ci mette in difficoltà.
Occupiamo il tavolo. Mia madre è riuscita laddove nessun uomo avrebbe potuto.
Poi se ne va.
- Non è la procedura usuale, ma nessuno ci impedisce di fare due parole informali.
Adagia il berretto sul tavolo. Barba di un paio di giorni, scura, capelli che s’imbiancano e occhi di un vecchio ragazzo. Porta la fede al dito.
- Lei ha figli, Commissario?
Non abbassa gli occhi.
- Una bambina.
Se ne devono andare prima che Sabrina si svegli.
- Cosa vuole sapere?
Il più giovane sta al proprio posto.
- Stanotte è morto Lorenzo Dettis.
Il caffè è amaro, come lo sono tutte le notti da un anno a questa parte. Ne assaporo ogni sfumatura.
- Il ragazzo - continua - che ha…
- So perfettamente chi è.
Pausa tra i miei pensieri. Pausa tra me e quei due messaggeri di buone notizie.
- Dopo quello che è accaduto… Può comprendere la nostra presenza.
Mi sfugge un sorriso:
- È chiaro.
- Non sembra particolarmente dispiaciuto - s’intromette il giovane.
- Perché non lo sono.
Il Commissario sussurra qualcosa all’orecchio del collega, poi rivolge di nuovo a me: - Non è strano che lei non sia dispiaciuto. Lo è che non sia sorpreso.
Il mio sguardo si perde sul fondo della tazzina.
- La vuole sentire una storia? - chiedo.
- Se ci può aiutare a far luce su questa faccenda.
- Ha mai sentito parlare di Nemesi?
Muove il capo.
- È il nome di una dea greca. Molti credono, erroneamente, che si tratti della dea della vendetta. Non è così, è la dea della giustizia distributiva.
- Si occupava di ripristinare l’ordine naturale delle cose - continuo - a ogni azione rispondeva con una reazione che andasse a riequilibrare la bilancia. In pratica, faceva giustizia.
- E questo cosa c’entra?
- Non sono sorpreso di ciò che è successo. Non perché io ne sappia più di voi, ma perché credo che, in qualche modo, tutti paghiamo per le nostre azioni.
- Sta dicendo che una dea greca è scesa a Sestri senza che ce ne accorgessimo?
- Tutto può succedere, Commissario.
- Lei mi sta solo confermando che, oltre ad avere il movente perfetto per aver ucciso Lorenzo Dettis, pensa anche sia giusto ciò che gli è accaduto. Mi creda, non sta migliorando la sua posizione.
- Non sapevo neppure che fosse stato ucciso. Lei mi ha detto solo che è morto.
- Adesso però finiamola - il tono perde l’inflessione compassionevole - è trascorso un anno, un anno oggi precisamente, dall’incidente. Non può essere un caso. Aveva un ottimo motivo per farlo.
- Ma non l’ho fatto. Non ho ucciso quel pezzo di merda, anche se avrei voluto averne la forza - il mio corpo si muove da solo e in un attimo mi ritrovo in piedi a pochi centimetri da loro.
- Adesso si calmi. Il Commissario, visto la sua situazione, è stato fin troppo gentile. Quando è successo l’incidente ho controllato personalmente ed era solo un ragazzo, un bravo ragazzo appena laureato, che ha fatto un errore, un gravissimo errore, certo. Ma con neppure alcol nel sangue.
Mi allontano dal tavolo, dalla verità, da un giovane stronzo e da un Commissario con la pietà negli occhi.
- Andate a fare in culo.
Poliziotto bravo e poliziotto cattivo è un cliché dei telefilm americani e in questo momento non me ne fotte nulla di far parte di questo spettacolo.
- Potrei arrestarla per offesa a un pubblico ufficiale, ma non lo farò - la voce del Commissario abbassa i toni - capisco bene che sia sconvolto. Ora però ci lasci fare il nostro lavoro.
- Sconvolto - ripeto, osservandomi la punta delle dita - le parole a volte non bastano.
- Chiunque, nella sua situazione, sarebbe distrutto. Io stesso non so come avrei reagito.
Gambe che tremano. Le mie.
- Sono stanco, Commissario. Mia figlia può svegliarsi da un momento all’altro e non voglio che vi trovi qui, cosa vuole sapere ancora?
- Semplicemente dov’era questa notte.
Guardo la porta della camera da letto.
- Risponda, per cortesia. Non è ancora un interrogatorio ufficiale, ma potrebbe diventarlo.
- Dormivo. O almeno ci provavo. M’imbottisco di farmaci per riuscirci.
- Qualcuno può confermare che non è uscito? - chiede il giovane gigante.
- Mia madre. Sa, ho il dubbio che trascorra le notti a controllarmi.
- E prima, cosa ha fatto?
- Solita giornata di ordinaria follia al lavoro. Fine turno alle ventuno e gelato nel carruggio con mia figlia. Sono tornato verso le ventitré. Le basta?
- È rientrato da un mese al lavoro, alla clinica “Il Maniero”, nelle vicinanze di Genova, e ha chiesto di continuare il suo lavoro in un reparto di primo intervento. Il più pericoloso, per un educatore - risponde.
- Vedo che avete controllato.
- Arriviamo ora da lì. È nostro compito. E poi la clinica è una nostra vecchia conoscenza. Anche se lei ci lavora da troppo poco per saperlo.
- Né m’interessa. È solo lavoro.
Mi alzo e m’incammino verso il letto, che intravedo dalla fessura della porta.
- Addio.
- Mi spiace, signor Vinci. Mi spiace davvero, ma è un arrivederci, non abbiamo finito.
Mi volto.
- Torneremo col mandato.
- Sapete dove trovarmi.
Percorro pochi metri, poi: - Com’è morto?
- Sono informazioni confidenziali, le posso dire che è stato ucciso.
Fisso negli occhi due fantocci di un teatro assurdo.
- Spero abbia sofferto.
Mia madre entra un secondo troppo presto. Deve aver spiato la conversazione e ora la sento in lontananza. Sussurra ai poliziotti che non avrei potuto fare del male a una mosca, che dopo l’incidente sono stato a letto per mesi, che tutti i giorni prendo delle medicine, che ora esco solo per andare al lavoro e per mia figlia. Che mi osserva respirare tutte le notti, questa compresa, come faceva quando ero bambino.
Non ho più pensato a lei. Il dolore assoluto ti fa diventare egoista.
- Mi spiace, ma’ - bisbiglio sottovoce a me stesso - e non raggiungo più la mia camera, ma quella di Sabrina.
Mi corico accanto. Lei si gira, si avvinghia al braccio e stringe.
- Posso stare un po’ qui?
- Certo, papà. Ma è già mattina?
- Più o meno.
- Tra quanto mi posso alzare?
- Ancora cinque minuti.
- Ti manca, papà?
Da morire, amore, da morire, non le dico.
- Va tutto bene, piccola, siamo insieme.
La intuisco piangere, la intuisco soffrire, la intuisco morire un poco.
E io non posso nulla.

Esistono terre di mezzo, dove i ricordi prendono la forma di creature fantastiche, che non possono essere controllate. Visi di angeli sfigurati, che invadono ogni antro della mente. È una prigionia senza sbarre.

(...)



 
 

Lucio Figini nasce l'8 febbraio del '71, laureato come Educatore professionale, sposato con Claudia e padre della splendida Giada, lavora da diciassette anni in ambito psichiatrico e come Formatore.
Ha pubblicato: "Essere sotto le parole", (poesie giovanili, Montedit, 2001), "Autobiografia di uno sconosciuto", (romanzo, Arduino Sacco Editore, 2009), "La fiaba della Buonanotte" (romanzo breve, Giallomania, 2013 e Youcanprint, 2014).
Per Cicorivolta, ha pubblicato i romanzi: "La discendenza dell'acqua" (2011), "Sopravvivere a un angelo" (2012), "Ariel (delitto a Sestri Levante)" (2013), "FolleMente" (2014), "Michelangelo il giostraio (e le donne)" (2015), "Il rumore di una lacrima (Le inusuali indagini dell'educatore Leonida)" (2016).

I suoi romanzi non seguono un genere specifico, ma in essi si raccolgono, contaminandosi, generi quali noir, giallo psicologico, mistery, fantasy, amore.


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