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Brani
tratti da
"FolleMente"
I
Primo
giorno.
Venerdì 6 maggio 2016.
Ore: 20.23
- Vi ammazzo,
bastardi!
È un coltello da cucina, non troppo affilato. Ma può fare
un buon lavoro, se piantato nel fegato.
- Cazzo facciamo? - mi sussurra Fabio sottovoce.
Non rispondo. Non ancora.
Cammina verso di noi. Si ferma e torna indietro. Il corridoio è
lungo una quindicina di metri. Buio. La poca luce arriva dalluscita
di sicurezza. Lui è tra noi e luscita.
- Nulla - rispondo.
- Cerchiamo di prenderglielo - insiste.
Nessuno tinsegna cosa fare in questi casi.
Ma non ci vuole un genio per capire che Antonio non sta per niente bene.
Uno psichiatra direbbe: schizofrenia atipica, crisi psicomotoria con agiti
aggressivi. Non sa da che parte è girato e vuole infilarti un coltello
su per il culo, dico invece io.
Fabio è molto più alto di me. Quasi un metro e novanta di
uomo. Capelli lunghi e sottili. Lineamenti nordici e lo sguardo da vecchio
ragazzo. È il miglior collega si possa sperare di avere, in queste
occasioni. Ed è un amico.
Antonio, invece, ha diciassette anni, pesa centotrenta chili ed è
matto come un cavallo. La maggior parte delle volte mi adora, ma non oggi.
- Ascolta, Alex, dobbiamo fare qualcosa. Se esce qualche ragazzo dalle
stanze
- Aspettiamo ancora.
Il gigante non molla.
Lo sguardo non è dei migliori. Pupille dilatate. Passo lento ma
costante. Coltello in mano. Quattro giri avanti e indietro. E noi lì.
Immobili. Due statue di cera.
Dovrei staccare alle ventuno, ma da come si mettono le cose non ne sono
più tanto sicuro. Ho in programma unuscita con Sabrina e
adesso non ho neppure il tempo di farmi una doccia.
- Siete dei fottuti bastardi. Vi ammazzo.
Dopo aver pronunciato queste parole nella nostra direzione, Antonio appoggia
il coltello sulla mensola della finestra.
- Aspettami qui - si rivolge alla lama, come se potesse rispondergli -
vado a pisciare e torno.
Raccolgo velocemente larma. Quello stronzo, con cui gioco tutti
i giorni a pallone, con cui mangio, guardo la tv e gioco allXbox,
ha nascosto un coltello in camera per farci la pelle, o per spaventarci.
Poco importa. Quello stronzo, al quale normalmente voglio anche un po
di bene, mi ha rovinato la serata.
- Ma come
Come facevi a sapere che lo mollava?
- Non lo sapevo.
- Sei un maledetto figlio di puttana, lo sai?
Gli scappa un sorriso. Ma non è finita.
Antonio torna e, non trovando il coltello, ci viene addosso come un treno
in corsa. Non me lo aspetto e faccio lunica cosa che mi passa per
la testa. Mi abbasso e con i miei sessantacinque chili lo carico alle
ginocchia. Lui cade, ma per poco. Si rialza e il suo pugno è sopra
di me. Un martello che mi frana sulla testa.
In quellistante unombra alle sue spalle. È Fabio che
lo placca da dietro, impedendogli di colpirmi. Lo butta a terra. E io
mi ci corico sopra.
Gli afferro le braccia. Mentre lui lo blocca da dietro. Un panino umano
con più di un quintale di carne nel mezzo. Lo teniamo, cercando
di non rendere la cosa più difficile di quanto già lo sia.
- Tranquillo, Antonio, adesso passa - mi esce dalle labbra. Ma vorrei
riempire di pugni quel faccione.
Diciassette minuti. Tanto dura. Diciassette minuti sono una piccola battaglia.
Sono uneternità, se i muscoli sono tesi e la testa è
impegnata a controllare un bestione che ti vuole strappare la pelle daddosso.
- Mi spiace
Mi spiace
- alla fine farfuglia, piangendo come
un bambino, che ha la sensazione di averla fatta grossa. Tentando di morsicarmi
un braccio.
Ed entra il medico di guardia: Carola Freddi, una dottoressa di trentadue
anni che si porta addosso un corpo che è unopera darte.
E dei capelli scuri come la notte.
- Ha bisogno di un sedativo? - la sua voce nelle mie orecchie.
- Vedi tu
- rispondo. E il tono non è di quelli gentili.
Serata iniziata male.
Non coglie la provocazione. Dice qualcosa allinfermiera, che tira
fuori dalla tracolla una boccettina e compie quel rituale vecchio come
il mondo: conta le gocce.
- Alessandro. Per favore
- la dottoressa non si avvicina troppo.
Fabio ammorbidisce la presa, ma non molla. Alzo la testa di Antonio, che
prende le gocce senza opporsi.
Una decina di minuti e lo lasciamo. Dopo qualche bestemmia nella mia direzione,
si corica sul divano.
- No, Antonio, non qui - gli dico.
Tra un vaffanculo e un mi spiace sindirizza verso la propria stanza.
Lo seguo.
- Me ne occupo io.
- Non mi sembra il caso, è ancora in stato
- interviene la
dottoressa.
Ma le mostro le spalle. Indico a Fabio di non muoversi e lo accompagno
a letto. Da solo.
Spengo le luci. Avvicino la sedia.
- Ora dormi Anto, è tutto passato.
Cerca di rialzarsi, ma spingo la mia mano sulla sua fronte. Non se lo
aspetta e per mia fortuna non insiste.
- Non sei arrabbiato? - singhiozza.
Il mio sguardo si perde nelloscurità.
- Sono stanco. Ne parliamo domani. Adesso fai silenzio e chiudi gli occhi.
Dopo poco più di dieci minuti si addormenta.
Esco senza fare rumore e trovo Fabio che mi aspetta nel corridoio.
- Sei ancora qui?
- Certo. Anche se vuoi fare leroe, ti copro le spalle.
Verbalizziamo
laccaduto e cerchiamo la dottoressa. La troviamo con loperatore
notturno alla macchinetta del caffè, fuseaux attillati e una maglietta
che scende sotto il culo. Ce la mette tutta a nascondere la propria femminilità.
Non ci riesce un granché.
- Come sta?
- Dorme. Questa notte non dovrebbe creare problemi.
Fabio si avvicina, mette una moneta e pigia il tasto del the caldo. Poi
guarda il culo della dottoressa.
- Noi andremmo. Se a lei sta bene - le dice.
Ci accenna un sì. Poi però aggiunge nella mia direzione:
- Non so proprio come fate a fare questo lavoro.
- Forse siamo solo diversamente matti - rispondo col sorriso.
Ha i capelli raccolti. Un ricciolo nero è sfuggito e scende sulla
fronte.
- Sei la metà di lui, poteva
Insomma, poteva davvero farti
male.
- Non con lui - do una pacca sulle spalle a Fabio, che sembra rispondere
con un suono sordo, come fosse marmo.
- Sei entrato da solo in stanza. Non mi sembra un granché come
procedura, a dieci minuti da una crisi e con ancora il ragazzo agitato
- insiste.
- Cosa vuoi dire?
- Non mi va di sottolineare i ruoli, ma sono il medico responsabile e
se ti chiedo di non entrare da solo con un paziente che ritengo ancora
pericoloso
Passo il registro della notte al notturno.
- Fai una segnalazione al direttore sanitario.
- Non è questo che voglio dire. Ma non capisco perché ti
metti in queste situazioni.
- Intendi vi mettete.
Allontana lo sguardo.
- Mi spiace - aggiungo - parlerei volentieri delle mie tendenze autolesioniste,
ma non sei la mia psicoterapeuta personale.
Fabio si avvicina.
- Lo scusi, dottoressa - sorride - è stata una giornata pesante.
Silenzio tra noi, mentre scendiamo le scale. La mia schiena è a
pezzi.
- Una birra?
- Non posso. Mi aspetta Sabrina. Le ho promesso di uscire, se non è
stanca.
Mi blocca il braccio.
- Un attimo - si siede sul marciapiede - è stata dura questa volta.
- Sì. Se non ci fossi stato tu
- lo seguo.
- Non dovrei dirlo, ma non ti avrebbe toccato. Piuttosto mi beccavo una
sospensione, ma non ti avrebbe toccato.
- Mi stavo dimenticando che queste cose capitano.
- Sei stato a casa tanto, è normale.
- Forse troppo.
Mi guarda negli occhi: - La troviamo una sera per fare due parole con
calma?
- Mi stai diventando sentimentale? - gli sferro una spallata.
- Ma smettila
Sorrido: - Domani sera, se sei libero.
- A te non capita mai di aver paura? - chiede allimprovviso.
- Anche la paura è impegnativa. Diciamo che non me ne frega più
molto.
- In che senso?
- Le persone. I ruoli. Le donne. Be, quelle sì, minteressano.
Ma non ho molto tempo per pensarci.
- Certo: - interrompe - Sabrina.
- Sabrina, sì.
Si accende una sigaretta.
- Dovresti uscire con altre.
- E tu dovresti smettere di fumare.
- Sii serio...
- Magari con la dottoressa dal bel culo? Guarda che si notava che non
le staccavi gli occhi di dosso. Sei proprio un bel tipo
Siamo nel
bel mezzo di un casino e tu lì a esaminarle le chiappe.
Osserva il cielo scuro.
- Perché no? Abbiamo una vita sola, dopotutto.
- Su questo non cè dubbio.
- Belin, se lhai fatta incazzare.
- Anche su questo non cè dubbio.
Si avvicina: - Forse sei davvero rientrato al lavoro troppo presto. Ho
avuto la sensazione che non timportasse di farti male.
- Le cose cambiano. E anche le persone.
Mi abbraccia, non lha mai fatto. Lamicizia è una delle
poche scelte che una persona compie liberamente nella vita. I genitori
non li scegli, non i figli o i fratelli e spesso neppure le donne.
È finito un altro giorno di ordinaria follia.
Imbocco il
casello di Genova ovest. Lautostrada da Genova a Sestri è
deserta. Accelero. Sulla destra il mare in lontananza è illuminato
dalla luna. La mia mano sul pomello del cambio e lo sguardo nelloscurità
che mi si offre di fronte. Su una strada che non è più di
semplice asfalto.
Mezzora dopo sono a casa. Cerco di aprire la porta senza far rumore.
Sabrina è davanti alla tv. Mi ha aspettato.
- Sono ancora sveglia, hai visto? Tanto domani non cè scuola.
- Sì, amore. Lo immaginavo.
Spegne la tv. Mi indica di stare lì, fermo a un metro dallentrata.
Poi inizia a correre nella mia direzione. Salta. Si aggrappa alle spalle
e mi bacia, sferrando involontariamente una ginocchiata sulle palle. Ma
va bene così.
- Dove mi porti?
- Al Baciollo, piccola. Oggi è sabato e ho voglia di un waffel
caldo con gelato di fichi e noci.
Sorride.
- E la panna? Posso prendere la panna?
Guardo mia madre, che nel frattempo mi si avvicina e accenno un sì.
È strano vedere mia figlia di otto anni sorridere. Non ricordavo
sapesse ancora farlo. Splende di luce propria in un mondo che per un attimo
sembra avere quasi un senso.
I baci di
mia madre e di mia figlia, sulla guancia, hanno la stessa leggerezza.
II
Secondo
giorno.
Sabato 7 maggio.
Ore: 8.51
Facile riconoscere
i passi di mia madre, timidi e leggeri.
- Alex, sveglia.
- Non ora, ma.
- Mi spiace, ma non credo abbiano voglia di aspettare.
- Chi?
- La Polizia.
Che cazzo di ora per presentarsi.
- Sistemati.
Rispondo con una smorfia.
- O almeno fai un tentativo.
Il bagno è a pochi metri: acqua fredda e saliva calda, lo specchio
e il mio muso.
E di nuovo la porta che si apre.
- Vestiti, per favore.
I pantaloni della tuta finiscono ai piedi.
- Devo?
Non risponde. E io faccio il mio dovere.
- La piccola dorme?
- Sì. Avete fatto tardi ieri sera.
- Siamo stati bene. Da tempo non la vedevo così.
Mia madre esce dalla stanza, con gli occhi lucidi.
Sono in due.
Uno piccolo e robusto, laltro alto e ancora più robusto.
Uno che supera di poco i quaranta, laltro con la faccia da bambino,
ma di quei bambini strafottenti, che vorresti prendere a schiaffi appena
aprono bocca.
I primi uomini che entrano in casa da non ricordo quanto, a parte Fabio.
- Buon giorno, signor Vinci, si ricorda di me? - è il più
basso che parla.
Mimo un no.
- Sono il Commissario Giacoboni, ci siamo parlati il giorno dellincidente.
Mimo un sì.
- Dovremmo farle alcune domande.
- Prego.
- Se fosse così gentile da seguirci in caserma. Può venire
con noi o prendere la sua vettura.
Sprofondo sul divano. Il più giovane urta con la testa il lampadario
che scende al centro della sala.
- No.
Si guardano.
- Mi spiace, ma è la procedura. Non ci costringa a tornare con
un mandato. Se non ha nulla da nascondere, qual è il problema?
Allungo le gambe: - Forse mi sono spiegato male. Risponderò a tutte
le vostre domande, ma non oltrepasso quella porta.
- Senta - interviene il giovane - forse non ha capito. Noi siamo
Ma il Commissario lo stoppa.
- Posso comprendere la sua situazione. So quello che le è accaduto,
ma ci sono delle regole.
Mia madre entra con la moka in mano e io non faccio in tempo a rispondere
che non sono le mie regole.
Aroma di caffè. Un sorriso non cercato sulle labbra di tutti.
- La prego, Commissario. Si sieda. Un caffè?
- Signora, lei ci mette in difficoltà.
Occupiamo il tavolo. Mia madre è riuscita laddove nessun uomo avrebbe
potuto.
Poi se ne va.
- Non è la procedura usuale, ma nessuno ci impedisce di fare due
parole informali.
Adagia il berretto sul tavolo. Barba di un paio di giorni, scura, capelli
che simbiancano e occhi di un vecchio ragazzo. Porta la fede al
dito.
- Lei ha figli, Commissario?
Non abbassa gli occhi.
- Una bambina.
Se ne devono andare prima che Sabrina si svegli.
- Cosa vuole sapere?
Il più giovane sta al proprio posto.
- Stanotte è morto Lorenzo Dettis.
Il caffè è amaro, come lo sono tutte le notti da un anno
a questa parte. Ne assaporo ogni sfumatura.
- Il ragazzo - continua - che ha
- So perfettamente chi è.
Pausa tra i miei pensieri. Pausa tra me e quei due messaggeri di buone
notizie.
- Dopo quello che è accaduto
Può comprendere la nostra
presenza.
Mi sfugge un sorriso:
- È chiaro.
- Non sembra particolarmente dispiaciuto - sintromette il giovane.
- Perché non lo sono.
Il Commissario sussurra qualcosa allorecchio del collega, poi rivolge
di nuovo a me: - Non è strano che lei non sia dispiaciuto. Lo è
che non sia sorpreso.
Il mio sguardo si perde sul fondo della tazzina.
- La vuole sentire una storia? - chiedo.
- Se ci può aiutare a far luce su questa faccenda.
- Ha mai sentito parlare di Nemesi?
Muove il capo.
- È il nome di una dea greca. Molti credono, erroneamente, che
si tratti della dea della vendetta. Non è così, è
la dea della giustizia distributiva.
- Si occupava di ripristinare lordine naturale delle cose - continuo
- a ogni azione rispondeva con una reazione che andasse a riequilibrare
la bilancia. In pratica, faceva giustizia.
- E questo cosa centra?
- Non sono sorpreso di ciò che è successo. Non perché
io ne sappia più di voi, ma perché credo che, in qualche
modo, tutti paghiamo per le nostre azioni.
- Sta dicendo che una dea greca è scesa a Sestri senza che ce ne
accorgessimo?
- Tutto può succedere, Commissario.
- Lei mi sta solo confermando che, oltre ad avere il movente perfetto
per aver ucciso Lorenzo Dettis, pensa anche sia giusto ciò che
gli è accaduto. Mi creda, non sta migliorando la sua posizione.
- Non sapevo neppure che fosse stato ucciso. Lei mi ha detto solo che
è morto.
- Adesso però finiamola - il tono perde linflessione compassionevole
- è trascorso un anno, un anno oggi precisamente, dallincidente.
Non può essere un caso. Aveva un ottimo motivo per farlo.
- Ma non lho fatto. Non ho ucciso quel pezzo di merda, anche se
avrei voluto averne la forza - il mio corpo si muove da solo e in un attimo
mi ritrovo in piedi a pochi centimetri da loro.
- Adesso si calmi. Il Commissario, visto la sua situazione, è stato
fin troppo gentile. Quando è successo lincidente ho controllato
personalmente ed era solo un ragazzo, un bravo ragazzo appena laureato,
che ha fatto un errore, un gravissimo errore, certo. Ma con neppure alcol
nel sangue.
Mi allontano dal tavolo, dalla verità, da un giovane stronzo e
da un Commissario con la pietà negli occhi.
- Andate a fare in culo.
Poliziotto bravo e poliziotto cattivo è un cliché dei telefilm
americani e in questo momento non me ne fotte nulla di far parte di questo
spettacolo.
- Potrei arrestarla per offesa a un pubblico ufficiale, ma non lo farò
- la voce del Commissario abbassa i toni - capisco bene che sia sconvolto.
Ora però ci lasci fare il nostro lavoro.
- Sconvolto - ripeto, osservandomi la punta delle dita - le parole a volte
non bastano.
- Chiunque, nella sua situazione, sarebbe distrutto. Io stesso non so
come avrei reagito.
Gambe che tremano. Le mie.
- Sono stanco, Commissario. Mia figlia può svegliarsi da un momento
allaltro e non voglio che vi trovi qui, cosa vuole sapere ancora?
- Semplicemente dovera questa notte.
Guardo la porta della camera da letto.
- Risponda, per cortesia. Non è ancora un interrogatorio ufficiale,
ma potrebbe diventarlo.
- Dormivo. O almeno ci provavo. Mimbottisco di farmaci per riuscirci.
- Qualcuno può confermare che non è uscito? - chiede il
giovane gigante.
- Mia madre. Sa, ho il dubbio che trascorra le notti a controllarmi.
- E prima, cosa ha fatto?
- Solita giornata di ordinaria follia al lavoro. Fine turno alle ventuno
e gelato nel carruggio con mia figlia. Sono tornato verso le ventitré.
Le basta?
- È rientrato da un mese al lavoro, alla clinica Il Maniero,
nelle vicinanze di Genova, e ha chiesto di continuare il suo lavoro in
un reparto di primo intervento. Il più pericoloso, per un educatore
- risponde.
- Vedo che avete controllato.
- Arriviamo ora da lì. È nostro compito. E poi la clinica
è una nostra vecchia conoscenza. Anche se lei ci lavora da troppo
poco per saperlo.
- Né minteressa. È solo lavoro.
Mi alzo e mincammino verso il letto, che intravedo dalla fessura
della porta.
- Addio.
- Mi spiace, signor Vinci. Mi spiace davvero, ma è un arrivederci,
non abbiamo finito.
Mi volto.
- Torneremo col mandato.
- Sapete dove trovarmi.
Percorro pochi metri, poi: - Comè morto?
- Sono informazioni confidenziali, le posso dire che è stato ucciso.
Fisso negli occhi due fantocci di un teatro assurdo.
- Spero abbia sofferto.
Mia madre entra un secondo troppo presto. Deve aver spiato la conversazione
e ora la sento in lontananza. Sussurra ai poliziotti che non avrei potuto
fare del male a una mosca, che dopo lincidente sono stato a letto
per mesi, che tutti i giorni prendo delle medicine, che ora esco solo
per andare al lavoro e per mia figlia. Che mi osserva respirare tutte
le notti, questa compresa, come faceva quando ero bambino.
Non ho più pensato a lei. Il dolore assoluto ti fa diventare egoista.
- Mi spiace, ma - bisbiglio sottovoce a me stesso - e non raggiungo
più la mia camera, ma quella di Sabrina.
Mi corico accanto. Lei si gira, si avvinghia al braccio e stringe.
- Posso stare un po qui?
- Certo, papà. Ma è già mattina?
- Più o meno.
- Tra quanto mi posso alzare?
- Ancora cinque minuti.
- Ti manca, papà?
Da morire, amore, da morire, non le dico.
- Va tutto bene, piccola, siamo insieme.
La intuisco piangere, la intuisco soffrire, la intuisco morire un poco.
E io non posso nulla.
Esistono
terre di mezzo, dove i ricordi prendono la forma di creature fantastiche,
che non possono essere controllate. Visi di angeli sfigurati, che invadono
ogni antro della mente. È una prigionia senza sbarre.
(...)
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