i quaderni di Cico
 
 

 

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... e di Lucio Figini, leggi anche gli altri romanzi della trilogia, La discendenza dell'acqua,
Ariel (delitto a Sestri Levante) oltreché FolleMente e Michelangelo il giostraio (e le donne)

titolo: "Sopravvivere a un angelo"
collana
i quaderni di Cico
autore Lucio Figini
ISBN 978-88- 97424-58-1
€ 12,00 - pp.156 - © 2012 - In copertina, progetto grafico e illustrazione originale di Andrea Tarli - BadTripProduçao (www.badtrip.it) - Art director, Emidio Giovannozzi (www.emidiogiovannozzi.it).


Nell'imponenza dei grattacieli e sotto la Fortezza, simbolo di un potere corrotto ed egoista, Milano è la Città. Una bolla di universo fatta di uomini che vivono come topi e angeli che controllano un mondo ormai decaduto.

 

Francesco si risveglia su una strada di cemento e polvere. È nudo. Ha fame. Una ragazza spigolosa e un bambino dai capelli biondo cenere lo prendono e lo portano nella loro tana.

 

 

leggi l'intervista a tutto campo di Giuseppe Iannozzi a Lucio Figini

 

 

Francesco non può sapere cosa lo aspetta. In un microcosmo che vive di regole non scritte, avrà accanto una donna gelida e tagliente come una lama, pronta a tutto per un figlio non suo, un ragazzo cresciuto troppo presto e una bambina che così prepotentemente gli ricorda la sua ex vita.
Nel formarsi di una nuova, strana e quanto mai reale famiglia, violenza e carezze, vita e morte. Una inusuale appassionata storia d'amore e un grande mistero. Dove finiscono le persone rapite? Chi sono gli angeli? Perché Francesco è il più vecchio tra i cittadini? E perché si ritrova sempre nei posti sbagliati al momento giusto?

 

Una sorta di eroe noir, scassato e a tratti psicotico, che si muove di notte, con determinata follia, in una Milano nebbiosa, calda e umida.
Le sue armi sono un'assoluta volontà di sopravvivere, intelligenza intuitiva e due rompighiaccio dalle lame affilate...

 

 

 

Brano tratto da "Sopravvivere a un angelo"

Prologo

Buio e silenzio in ciò che rimane
del mondo che conoscevo.

I

Apri gli occhi.
Prima o poi dovrai rispondere alla maledetta domanda che ti frulla nel cervello. Apri gli occhi, Francesco. E guarda.
Fin tanto che tengo serrate le palpebre posso essere ovunque, in un bosco dell’entroterra ligure o nel mio appartamento in città. Rumori di zampette che si muovono veloci, forse topi, di gambe leggere e frenetiche, di sassi calpestati e crepitio di fuochi in lontananza. Odori di fogna, cemento, cenere, di marcio e sudore dolce.
Dove cazzo sono?
Non sento dolore, non provo nulla. Mi accarezzo il viso e non trovo l’umidità che caratterizza il sangue. Le guance sono lisce, niente barba. E soprattutto niente fori di pallottole. Il costato è intatto, respiro a pieni polmoni un’aria pesante e fastidiosa. Penso ad Ariel e al rumore dei suoi passi leggeri in lontananza.
Non ha senso. Nudo e coricato su una superficie fredda e solida, forse cemento.
Poco meno di un attimo fa mi hanno sparato, distrutto anima e corpo, trapassato il costato e fracassato la testa. Eppure non ho ferite. Eppure non sono morto. Nessun dolore e soprattutto nessun indizio che mi porti a pensare di essere dove dovrei essere: sdraiato per terra di fronte ad un frantoio della Liguria o in ospedale.
- Non avvicinarti, forse è uno di loro - la voce di un bambino.
- Un angelo? Impossibile, guarda il suo aspetto. Deve essere un nuovo venuto - una femmina questa volta.
- È troppo vecchio per essere uno dei nuovi.
- Dobbiamo rischiare.
Provo a muovermi. Non ci riesco.
Qualcuno mi sta legando con fare esperto, qualcosa di colloso preme improvvisamente le palpebre e si unisce dietro la nuca. Mi trascinano.
- Dove mi portate? - provo a dire.
Nessuna risposta.
Il tragitto non è lungo, ma difficoltoso. Mi tirano dalle gambe, fregandosene del resto del corpo. Le mani sono bloccate all’altezza della pancia, cerco di tenere la testa alzata, ma non sempre evito di sbattere contro qualcosa d’indefinito e doloroso. La strada è butterata e io ne seguo ogni increspatura con la schiena.
- Se è uno di loro siamo fottuti.
- Te l’ho detto: ci serve. È un uomo e non se ne vedono da un po’. Se li sono presi tutti.
- Sei tu che decidi. Ma se solo…
- In tal caso me ne occupo io. Tienilo legato per ora - è ancora la voce della ragazza.
Ora che vorrei spalancarli, questi diavolo di occhi, non posso. Si apre una porta, aroma di pane caldo misto a puzza di concime. Calore secco e strepitio di legna bruciata. Fumo e polvere invadono le narici. Sto zitto e cerco di comprendere il mio nuovo mondo.
- Chi sei? - mi chiede.
Non rispondo, non subito.
- Chi sei? - insiste colpendomi la faccia.
Non mi viene da rispondere, non ancora.
- Vuoi giocare? Allora gioca. Abbiamo tutto il tempo di questo stramaledetto mondo. E credimi, significa un’eternità.
Piccole mani mi sollevano. La schiena è in fiamme. Mi buttano su una sedia e uno schiaffo mi ricorda di essere vivo.
- Senti. Quello che ci dirai potrebbe salvarti la vita, se la vogliamo chiamare così. Fare il duro non ti conviene.
Faccio un cenno.
- Come ti chiami?
- Francesco.
- Bene, Francesco. Vedo che iniziamo a capirci. E cosa ci facevi vicino alla nostra tana?
- Tana?
- Rifugio, tana, casa. Chiamala come vuoi.
- Non lo so. Ed è tutto quello che so.
Un altro schiaffo. Questa femmina colpisce forte.
- Cazzo, te l’ho detto. Picchia pure quanto ti pare, non ho la più pallida idea di dove io sia.
- Non farti fregare, Luna, è uno di loro. Sta mentendo.
- Se vuoi che ti creda, prova a essere più convincente. Come si chiama questo luogo?
Sono sfinito. Vorrei chiederle di lasciarmi un po’ di tempo per raccogliere i pensieri. Dopo lo scontro che ho avuto dovrei essere morto o all’ospedale e invece non sono neppure ferito.
- È un angelo, te l’ho detto. È un trucco, tra poco chiamerà gli altri e ci prenderanno. Aspettiamo la notte e trasciniamo il corpo lontano dal nostro quartiere.
- Allora?... - incalza la ragazza - dobbiamo davvero liberarci di te?
- Fate come volete. Io non so nulla. Ricordo solo che ero in fin di vita. Devo essere svenuto e mi sono ritrovato qui senza vestiti e con due... pazzi - (almeno spero non siano più di due).
- Mi avete bendato e legato - continuo - e non so neppure se è giorno o notte.
- Com’è che ti eri ferito?
- Uccidendo mio padre. Ho ucciso mio padre, sì... - questo lo ricordo.
- Ehi, non si può dire che tu fossi un essere umano modello.
- Non potete capire, mi stavo solo difendendo.
Silenzio attorno a me. Sento la ragazza e il bimbo allontanarsi. Non comprendo le loro parole. Forse la mia risposta è così assurda da poter sembrare vera.
- Hai fame?
- Tanta.
- Già. I nuovi venuti ne hanno sempre.
- Tieni - preme pane secco contro le mie labbra.
- Se mi liberi le mani sarebbe più facile.
- Per ora mi sento più sicura a imboccarti.
Con uno scatto deciso strappa il nastro adesivo dagli occhi, martoriandomi le sopracciglia.
Potrei aprire gli occhi finalmente. Dovrei. Non mi riesce.
- Ehi, ci sei?
Bella domanda.
- Guardami in faccia - sento stringere il mento con le dita, mi obbliga ad alzare il viso. Un respiro caldo mi raggiunge la guancia.
Apro gli occhi e vedo i suoi, marroni e intensi. È vicinissima e non ha paura.
Le labbra sono serrate, sottili e fredde.
- Forse dovrei chiederti scusa, ma viviamo in tempi difficili. Te ne accorgerai.
Ha lineamenti spigolosi, guance cotte dal sole e capelli castano chiaro, lunghi e raccolti. Sotto l’occhio destro, sopra lo zigomo, porta una piccola cicatrice a forma di mezzaluna, o un tatuaggio, non si capisce. È magra, piccoli seni e gambe toniche sotto jeans attillati. Può avere fra i venticinque e i trenta. Lo sguardo è tagliente, come di chi abbia vissuto più esperienze di quante un essere umano debba vivere.
Si muove velocemente. Mi porta dell’acqua in un bicchiere di plastica.
Pane raffermo e acqua: il primo pasto in quel luogo alieno. Ciò che hanno chiamato tana è una casa costruita in legno e cemento, poco arredata. Un tavolo in un angolo, con due sedie, una vecchia stufa, una piccola cucina in alluminio, nessun quadro ai muri e una sola finestra. Spesse tende di colore rosso evitano alla luce di entrare. Un mobile finto legno e un divano mi rammentano le case moderne delle riviste di arredamento.
Lampade a olio illuminano la stanza e anneriscono il soffitto. Nel complesso, una casa caotica. Pezzi disomogenei di arredamento, moderno, classico e rustico si confondono senza senso.
Il bambino è in piedi vicino alla finestra, crea un breve spiraglio attraverso la tenda e guarda fuori. È biondo cenere, i capelli sono lunghi, ma in ordine, porta un paio di pantaloni marroni troppo grandi e una maglietta nera. Avrà dieci anni, magro da far impressione. Non parla. Il suo osservare attraverso la finestra m’inquieta.
- Bene, Francesco, diciamo che potremmo crederti. Dovevamo fare la nostra parte per essere sicuri che non fossi un’esca - mi lancia una coperta, che va a infilarsi tra le mie gambe. Mi ero scordato di esser nudo.
- Sembri un pulcino appena uscito dall’uovo, come tutti i nuovi venuti. Hai divorato il pane in un secondo, anche questo ne è la prova. Sono sempre affamati quando arrivano.
- Chi siete? Dove mi trovo?
- La prima domanda è semplice: io mi chiamo Luna e lui è Gabriel. Per la seconda, già è più complicato: diciamo che questa è la nostra tana, o casa, come l’avresti chiamata dall’altra parte.
- L’altra parte?
- Sì, da dove sei venuto.
Parole senza senso.
- Questa è La Città - continua.
- Non capisco.
- La Città, tutti la chiamano così.
Cerco di raccogliere le forze.
- Devi scusarci, dovevamo essere sicuri che non ti avessero mandato loro - sorride senza convinzione.
- Loro chi?
- Gli angeli. Hanno più o meno la tua età, sempre che siano uomini, vestiti in tuniche bianche, si muovono in coppia o in gruppo. Evitali con tutte le tue forze.
- Perché?
- Nessuno ama parlarne e io non faccio eccezione - il suo sguardo mi convince a non insistere.
Dove sono finito? Una ragazza sconosciuta mi ha rapito, legato, picchiato e mi sta raccontando una storia assurda. Sono più pazzo di quel che credevo.
Eppure nessuno potrebbe essere più tranquillo di quella ragazza, mentre racconta di angeli e nuovi venuti.
La cosa più sconvolgente è l’assenza di ferite sul mio corpo, anche se non ho avuto ancora l’occasione di controllare in uno specchio. Ricordo perfettamente che mi hanno sparato, di essere stato colpito alle tempie da un oggetto, di aver visto i miei capelli umidi di sangue. Eppure io sono lo stesso di allora, quando ero… come lo hanno chiamato quel luogo? Dall’altra parte.
Ho sempre quarant’anni, alto, magro e dal pessimo carattere. I capelli sono lunghi e sempre sul biondo, lo sguardo ancora pieno di meraviglia.
Dovrei essere morto e invece ho fame.
- Liberami.
- Non ancora, scapperesti fuori e non posso permetterlo.
- Sono prigioniero?
- Ti stiamo salvando, anche se non te ne rendi conto.
- Bel modo per salvare un uomo.
- Senti, non affaticarti, la vita nella Città non è facile, lo capirai poco a poco, se sopravvivi. Ora riposa.
Riposare. Certo, come no. Con le mani e le gambe legate e la schiena in fiamme, seduto su una sedia.
Nel frattempo, tra le molte domande alle quali non trovo risposta, una mi assilla: per quale motivo, questa ragazza di nome Luna mi avrebbe salvato?
Ha tutta l’aria di una femmina che non fa nulla per nulla.

(...)


 

Lucio Figini nasce l'8 febbraio del '71, laureato come Educatore professionale, sposato con Claudia e padre della splendida Giada, lavora da diciassette anni in ambito psichiatrico e come Formatore.
Ha pubblicato: "Essere sotto le parole", (poesie giovanili, Montedit, 2001), "Autobiografia di uno sconosciuto", (romanzo, Arduino Sacco Editore, 2009), "La fiaba della Buonanotte" (romanzo breve, Giallomania, 2013 e Youcanprint, 2014).
Per Cicorivolta, ha pubblicato i romanzi: "La discendenza dell'acqua" (2011), "Sopravvivere a un angelo" (2012), "Ariel (delitto a Sestri Levante)" (2013), "FolleMente" (2014), "Michelangelo il giostraio (e le donne)" (2015), "Il rumore di una lacrima (Le inusuali indagini dell'educatore Leonida)" (2016).

I suoi romanzi non seguono un genere specifico, ma in essi si raccolgono, contaminandosi, generi quali noir, giallo psicologico, mistery, fantasy, amore.

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