i quaderni di Cico
 
 

 

ordinalo senza spese di spedizione

 

titolo: "Un dentro tanto grande"
collana
i quaderni di Cico
autore: Francesca Boari
ISBN 978-88-99021-61-0
€ 12,00 - pp.112 - © 2016
In copertina, fotografia di Sandra Boccafogli.


Francesca Boari ci offre un nuovo toccante romanzo (dedicato Ai maestri dell’ascolto e del silenzio), scritto in prima persona, a farci riflettere su un tema scottante e di quotidiana attualità: la violenza di genere; metodica, trasversale, peculiare, socialmente radicata.
Una violazione dei diritti umani tra le più estese e variegate: LA VIOLENZA SULLE DONNE.


 
 

Mi piace la leggerezza. Mi piace l’insostenibile. Mi piace l’essere. Tolgo le scarpe. Più libera. Tolgo la sottoveste. Sono io, sempre io. E la pelle? Come posso spostare questa pelle e indossare il mio scheletro?
“Passerà”, dicono i medici. Io non voglio che passi. Io voglio amare e gioire.
“È malata, sono cose lunghe, ci vuole tempo”...
Malata un cazzo. Mi fa orrore la vita che ho scelto. Mi fa orrore un marito che mi picchia e mi tiene prigioniera dentro questa casa enorme che non ho scelto. Mi fa paura mia figlia che non mi vede nemmeno. Non sono ombra per loro, magari lo fossi, sono peso, peso e peso.


 
 

Brano tratto da "Un dentro tanto grande".

(...)

2

Mi sveglio. Sono avvolta nelle ordinarie coperte di indifferenza. Odorano di pulito, bucato, fresco. Le lavo ogni giorno. Il tuo corpo è appoggiato di fianco al mio. Così sembra. Sono sicura che sono sveglia e tu ci sei. Ci sei sempre come la peggiore delle ossessioni. Mi sento minacciata e oppressa dal quel respiro, che cresce dentro me un terrore senza confine e limite. Prima di chiudere gli occhi, la sera, ogni sera, innalzo una preghiera perché si erga a muro a proteggermi da una violenza che traduce in incubo senza via di uscita questa esistenza. Vorrei essere rinchiusa in una cella e uscirne solo quando questa paura cesserà. Uscirne forte della leggerezza che inseguo da sempre, svuotata di te, di quegli occhi che mi paralizzano ogni giorno dentro le lancette dell’orologio che controlli. Mi hai tolto tutto. Ogni forma di relazione, anche con la nostra creatura, la dignità, i vestiti. Naufrago anche in questa giornata senza luce. Le pareti sono rosse, la sottoveste bianca e voi mi guardate come fossi un fantasma, una larva, un niente. Perché?
Questo avete voluto che divenissi. Tu controlli il tempo dell’orologio. Non ti do accesso a quello dell’anima. Le finestre si spalancano. Entra aria pulita dell’afa di ieri e mi sento meglio. Sono sola. Sono niente. Resto immobile. Voi vi preparate ad entrare nella quotidiana ripetizione dei gesti. Io continuo a guardare dalla finestra. Davanti a me un grande albero. Si agitano lievemente le foglie. Attraverso questo fragile movimento la vita che ancora mi resta. La vita che mi chiama, mi scioglie, mi grida dentro. Rivedo mia madre e mio padre. Il loro affetto solido e buono nelle nostre vite di figli. Ho sempre temuto la severità e la intransigenza di papà. Era, tuttavia, un timore reverenziale. Dovuto, necessario. Per me era un modello. Gli voglio bene. Ricordo la casa della mia infanzia e un sorriso tende le mie labbra sigillate ed immobili. I ricordi, il suo studio appassionato e puntuale, la sua aria fiera, i sorrisi, anche se parchi e a volte forzati dalla fatica, a mia madre. Parlava poco. Lavorava sempre. Mi bastava guardare i suoi occhi per capire quando sbagliavo, oppure stavo semplicemente entrando in una direzione che a lui non sembrava giusta.
Non possiamo pretendere che qualcosa cambi se ci ostiniamo a ripercorrere le stesse strade, d’uno asfalto riposto in altri tempi.
Ricordo come il peggiore dei miei incubi lo sguardo inquisitorio di papà quando tradii il mio primo fidanzatino.
“Se non sei in grado di mantenere un impegno, semplicemente non prenderlo”, non aveva aggiunto altro.
Io rimasi immobile. Ebbi una sensazione di sporco, di sudicio intorno a me. Lentamente quella sensazione diventava un tutt’uno con la mia pelle, con il mio corpo. Avevo solo diciannove anni. Decisi che dovevo allontanare quella puzza da me e che avrei dovuto punirmi. Il controllo. Solo attraverso il controllo delle emozioni e dei bisogni potevo diventare come mio padre mi chiedeva di essere. Diventò una sfida. Vivere senza emozione equivale alla morte. Me ne resi conto molto in fretta. Smisi di mangiare, mi rimisi insieme al mio fidanzato silenzioso e complice in questo estremo delirio. Controllare la fame e la sete mi faceva sentire quella forza che non avevo saputo dimostrare nell’affetto. Mi sembrava di potere fare qualunque cosa. Non senti più, non rispondi più. Un processo di graduale e continuo annichilimento. Pesavo quaranta chili. Le mestruazioni cessarono. Non avevo più sangue. La vita l’avevo messa da parte, soffocata dentro un controllo patologico di cui avevo perso ogni coscienza. Non avevo riconosciuto il mio desiderio di morte. Volevo che gli altri, chi io avevo sempre amato, specie mamma e papà, se ne rendessero conto. Un sacrificio assurdo. Non parlavo a nessuno di questa mia lotta. E nessuno si accorgeva che stavo male.
Ero riuscita a rendermi invisibile fisicamente. Il mio cuore si era tuffato in una solitudine nella quale avrei stretto gli anni che sarebbero passati sopra la vita che mi avanzava calpestandola. Ero dentro un mare di disperazione. Il passaggio dall’anoressia nervosa, così l’aveva chiamata il medico dopo la scomparsa delle mestruazioni, alla bulimia era avvenuto solo dopo la nostra furiosa unione. Avevo lasciato quel fidanzato e avevo avuto il coraggio di unirmi a te. Pensavo nella mia angoscia che non riuscivo ancora a de-finire che mi avresti salvata. L’indifferenza degli altri mi aveva gettata ancora di più in questa inconcepibile sfida con la morte. Conoscere e progettare una vita nuova con te, inizialmente, mi aveva illusa di un progetto di rinascita. Ero riuscita ad annullarmi dentro la casa in cui ero nata e cresciuta. Pensavo che entrando in una vita nuova con te avrei potuto rinascere.
Invece ben presto abbiamo dovuto riconoscere le nostre due solitudini, le disperazioni che per ragioni totalmente diverse ci avevano congiunti. Due solitudini per niente complementari, anzi, entrambe distruttive pronte ad annientarsi reciprocamente in una nuova casa di silenzi e assenze. Il giorno in cui ci siamo sposati siamo entrati abbracciati nel solco di una comunità di destino nella quale si sarebbe realizzata la nostra fine.


(...)

 

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Francesca Boari è nata a Ferrara nel 1966.
Educatrice, scrittrice, insegnante di storia e filosofia, ha pubblicato
Il prezzo del riscatto (romanzi brevi, Cicorivolta 2008), “Aldro” (romanzo ispirato alla vicenda giudiziaria e di cronaca sul caso Aldrovandi, Corbo 2009), Piovono sassi dal cielo (romanzo, prima e seconda edizione, Cicorivolta 2013 e 2014), Ragazzi cari vi odio, vi amo (diario epistolare per una nuova grammatica dell’agire, scritto a quattro mani con Andrea Bonvicin, Cicorivolta 2014),Un dentro tanto grande (romanzo, Cicorivolta 2016), "E così sia" (Lettera al padre, Cicorivolta 2018). Ha organizzato eventi e convegni a Ferrara sul tema dell’adolescenza, in collaborazione con la Clinica di psichiatria e l’Università.


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