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Brano
tratto da: "Prima di morire (Il
castello spagnolo)"
Regno di Napoli - Giugno 1550
Don Diego Mendoza Y Castañeda, Principe di
Oviedo e Marchese di Roccaperduta, attirò a se la giovane cortigiana
cingendole la vita con il braccio sinistro, mentre infilava quello destro
sotto le ampie gonne rimestando con la mano per farsi strada verso linterno
delle cosce.
Poi, fra le risa della ragazza che, gettata indietro la testa, gli offriva
indifesa il candido collo, affondò la bocca fra i turgidi seni
che un corsetto esasperatamente stretto strizzava fuori dallampia
scollatura, lasciandone intravedere i capezzoli rosa.
Nello stesso momento, nel suo appartamento privato al primo piano del
castello, Doña Isabel, giovane consorte del principe, era intenta
a prepararsi per limminente incontro con il suo amante. Si sarebbe
profumata prima il collo, quindi le ascelle, i seni e infine linterno
delle cosce, poi avrebbe indossato un anonimo abito maschile e un cappello
a larga tesa, per passare inosservata una volta abbandonato il castello.
Avrebbe percorso il mezzo miglio che la separava dal cancelletto che si
apriva sul retro dellaustero palazzo cintato da alte mura, lasciato
appositamente socchiuso per lei. Poi, entrata, avrebbe attraversato il
giardino, salito lampia scalinata che conduceva al primo piano dove
si trovavano le stanze private e, finalmente al sicuro, si sarebbe gettata,
vogliosa, fra le braccia dellamante.
Ma quella sera, le cose non si sarebbero svolte nel solito modo.
Celato dietro una pesante tenda, il sicario attendeva, paziente, il momento
per intervenire.
Davanti allo specchio, Doña Isabel, ultimati i preparativi, si
concesse un ultimo colpo di spazzola per sistemare un ricciolo ribelle
e si voltò. Si trovò di fronte un uomo col viso celato dalla
falda di un pesante mantello nero, di cui riuscì solo a distinguere
due occhi torvi che la fissavano. Restò pietrificata, incapace
di muoversi. Ma luomo era ormai entrato in azione; sfilato da sotto
il mantello un lungo e affilato pugnale lo piantò in mezzo al ventre
della donna.
«Prima il bastardo» aveva ordinato il principe, «poi
ladultera.»
E così fu. Doña Isabel tentò di gridare quando avvertì
la gelida lama attraversarle il ventre in cui portava il frutto del suo
peccato, ma dalla bocca non le uscì alcun suono. Sbarrò
gli occhi mentre luomo, estratta rapidamente la lama, la affondava
in mezzo al petto spaccandole il cuore. Emise un debole sospiro mentre
scivolava lentamente al suolo.
Il sicario passò allora a eseguire lultimo degli ordini ricevuti;
afferrò la donna per i capelli e, con rapidi e precisi movimenti
del pugnale, le spiccò la testa dal busto. Poi la gettò,
insieme al corpo, in un sacco che si era portato dietro, se lo caricò
in spalla e uscì dalla stanza inoltrandosi nel corridoio semibuio.
Nel
grande salone delle feste il rumore era assordante. Il banchetto aveva
raggiunto il culmine e molti commensali erano già ubriachi. Don
Diego, con un calice colmo di vino in una mano, tentava disperatamente
con laltra di spingere fra le proprie gambe la testa di una ragazza
dai folti capelli neri, anchessa ebbra, mentre baciava il collo
della prima cortigiana che aveva ormai i seni completamente liberi. Scorse
con la coda dellocchio il sicario che si era materializzato da una
porta laterale e gli fece un cenno del capo perché si avvicinasse.
Luomo si portò furtivamente dietro il principe che, voltandosi,
chiese:
«Y entonces?»
La risposta fu un cenno affermativo col capo. Don Diego, allora, estrasse
da una tasca del farsetto di velluto blu una scarsella piena di monete
doro e gliela passò rapidamente, dicendo:
«Muy bien.»
Il sicario, fatto sparire loro, si allontanò in silenzio
e uscì dal salone; doveva completare lopera, poi avrebbe
potuto allontanarsi dalla città. Dopo diverso tempo lasciò
il castello con un fagotto sotto il braccio, saltò sul cavallo
che, legato a un anello di ferro, lo aveva atteso pazientemente fuori
dal portone, e si diresse al passo verso il palazzo dellamante di
Doña Isabel, ingoiato dalloscurità.
In giro non cera anima viva e i colpi cadenzati degli zoccoli sul
selciato, lacerando il silenzio, risuonavano nel buio della notte. Raggiunse
il vicolo che costeggiava il giardino sul retro, lo percorse lentamente
per circa duecento passi, arrestò la cavalcatura, si sollevò
sulle staffe, fece roteare in aria il fagotto che conteneva la testa mozzata
di Doña Isabel e lo lanciò oltre il muro di cinta.
Poi spinse il cavallo al galoppo e si perse nella notte.
.1.
Federico
Valle aprì gli occhi e allungò il braccio destro fuori dalle
lenzuola in direzione del comodino. Mancò il bersaglio e, invece
di spegnere la sveglia, la urtò, facendola cadere. Fu costretto
a rinunciare ai canonici cinque minuti che trascorreva poltrendo sotto
le lenzuola e saltò giù dal letto per raccogliere la sveglia
e interrompere il fastidioso squillo. Erano le sette e un quarto di una
bella giornata di primavera. Si infilò in bagno e vi restò
per una buona mezzora; tornò in camera da letto, si vestì
con cura e alle otto in punto era pronto per recarsi in ufficio.
Federico abitava in un piccolo appartamento in centro, allultimo
piano di uno stabile storico, che si affacciava proprio sulla piazza principale
della città. Vi aveva abitato sin dalla nascita, ereditandolo dalla
madre quando anche lei se ne era andata dopo una lunga malattia, a pochi
anni dalla morte del padre. Non lo avrebbe lasciato per tutto loro
del mondo. Tutti i suoi ricordi, quelli belli come quelli brutti, erano
legati a quei tre locali più servizi di cento metri quadrati che,
per la posizione privilegiata, avevano con gli anni acquistato un notevole
valore.
Scapolo impenitente, Federico, che decisamente piaceva al gentil sesso,
non aveva mai voluto accettare legami, anche se un paio di volte era andato
molto vicino al matrimonio. Si godeva la sua libertà, vivendo nella
città che aveva sempre amato e che solo per pochi anni aveva dovuto
abbandonare quando, terminati gli studi, era stato costretto a trasferirsi
per lavoro in una cittadina sulla costa. Ora, a quarantanni compiuti,
si sentiva veramente in armonia con se stesso, soddisfatto della propria
vita e del proprio lavoro. E soddisfatto soprattutto del proprio fisico
asciutto, simile a quello di un trentenne, del proprio aspetto giovanile,
dei propri capelli castani senza un filo bianco.
Uscì
dallandrone semi-buio e fu investito dalla luce accecante di uno
splendido sole mattutino che inondava già una buona metà
della piazza. Bisognava essere proprio dei coglioni per non approfittare
di una stupenda giornata primaverile, inforcare la Ducati Multistrada
e lanciarla sui rettilinei in cerca di un tranquillo ristorante ai piedi
delle colline o addirittura spingersi oltre le montagne e fermarsi sulla
costa, per una deliziosa e rigenerante zuppa di pesce. Dopotutto era sabato,
e tutti i contratti di lavoro del mondo, per lo meno quello occidentale,
sancivano che il sabato era da considerarsi giorno festivo. Ma ormai aveva
deciso; avrebbe dedicato lintera giornata allufficio per completare
un lavoro divenuto ormai improrogabile.
Questo pensava Federico, mentre con passo rapido voltava a sinistra, inoltrandosi
in una stretta e caratteristica via del centro. La percorse per intero,
costeggiò la chiesa quattrocentesca famosa per la sua splendida
facciata e per conservare nella cripta le spoglie di un santo molto venerato
in città, e si infilò nello stretto vicolo che saliva verso
il grande castello spagnolo, dove si trovavano i suoi uffici.
Laureato in architettura, Federico Valle ricopriva lincarico di
assessore allurbanistica con delega alla tutela dei beni culturali
nella giunta del Comune, la cui sede storica occupava un intero palazzo
cinquecentesco che si affacciava su una piazza, non molto distante da
quella in cui lui abitava. Era un professionista capace e stimato e, proprio
per questo, attraversava indenne i vari consigli che si alternavano nella
gestione del Comune. Nessun sindaco, di qualsiasi fede politica, si sarebbe
mai privato dei suoi servigi.
Giunse nella grande piazza antistante lingresso sopraelevato del
castello e si diresse verso un piccolo bar dangolo. Il giovane dietro
al banco, che lo aveva visto arrivare da lontano, aveva già preparato
una brioche calda su un piattino. Federico fece il suo ingresso nellistante
in cui il barista lasciava cadere unabbondante spolverata di cacao
sulla superficie schiumosa di un cappuccino fumante. Da anni faceva colazione
con cappuccino e brioche in quel piccolo bar, scambiando due chiacchiere
col barista, un giovane di origine tunisina, ma nato in città,
fanatico tifoso della locale squadra di rugbi.
«Comè andata domenica, Lamin?» chiese Federico.
«Male, architetto, male» rispose il giovane, «labbiamo
presa in quel posto. Ma larbitro ci ha penalizzato negandoci due
mete sacrosante.»
Mentre mescolava lentamente il cappuccino per far sciogliere lo zucchero
facendo attenzione a non stravolgere il cuore di cacao, che labile
Lamin aveva depositato sulla superficie, si udì un tintinnio proveniente
da dietro il banco dove si trovavano le tazzine già lavate e impilate
a tre a tre. Federico interruppe la delicata operazione e guardò
sorpreso il barista.
«Ancora una scossa» disse il giovane, «dalle sei di
questa mattina è già la terza.»
«Tranquillo, Lamin, è il solito sciame sismico» replicò
Federico, «dura ormai da tre mesi.»
Ma la nuova scossa gli aveva fatto passare la voglia di chiacchierare;
salutò il barista, entrò nel castello e scese la rampa di
scale che conduceva nel seminterrato. Qui si trovavano alcuni degli uffici
del Comune, che non trovavano spazio nella sede in centro; fra questi
anche quelli di Federico.
Il
castello veniva chiamato spagnolo perché edificato
dagli spagnoli nel sedicesimo secolo, quando tutta la regione faceva parte
del Regno di Napoli e nella capitale partenopea risiedeva un viceré
spagnolo. In realtà, la storia del castello attraversava ben diciassette
secoli, essendo stato edificato su un esteso corpo fortificato militare
di età romana. Risalente alla fine del terzo secolo dopo Cristo,
la costruzione faceva parte di un più ampio sistema difensivo a
protezione dei territori prossimi alla capitale dellimpero, dove
le prime orde barbariche avevano già fatto la loro apparizione.
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