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titolo: "Il tesoro del Crociato"

collana:
Ciconauti
autore: Cesare Gianotti
ISBN 978-88-32124-49-1
€ 18,00 - pp.252 - © 2023 - in copertina,illustrazione originale e progetto grafico di Javier Guado.


Il romanzo riprende e conclude le vicende narrate ne "Il Crociato - La spada e l'usbergo". Mantenendo la stessa struttura, descrive a capitoli alterni gli eventi che vedono protagonisti, nel secolo XXI°, il giornalista Thierry Vidal, il suo collega Mansur Kouadiò, l'avvocato Alphonse Djallò e l'ex maggiore Mamadù Cissò; mentre, nel secolo XIII°, ancora una volta il cavaliere Cedric de la Riviere, divenuto principe di Ousmane, e il principe Yacubu Bello.


(continua)

 
 



(segue)

Un antico manoscritto parzialmente bruciato rinvenuto a Timbuctù mette Thierry Vidal sulle tracce del tesoro appartenuto al cavaliere de la Riviere e mai ritrovato. In una regione del Sahara a cavallo fra Mali, Algeria e Mauritania dove imperversano le varie fazioni dei fondamentalisti islamici di Al Qaida, Thierry e i suoi amici, lasciata Timbuktù, si avventurano alla ricerca del tesoro fronteggiando enormi e a volte drammatiche difficoltà.
Il duplice piano narrativo si sviluppa, nel XIII° secolo, attraverso la spedizione condotta dal sultano del Marocco contro l'Impero del Mali per impossessarsi delle miniere di sale nella sperduta località desertica di Taghaza e con le fasi della sua eroica difesa ad opera dell'esercito del Mali guidato dal principe Bello e da Cedric.

A fare da sfondo alla narrazione è ancora una volta il deserto, con le sue insidie, i suoi spettacolari tramonti e le sue lande desolate.


 
 

 

 


Brano tratto da: "
Il tesoro del Crociato"

PROLOGO

Precedute dal signore del Marocco, il sultano Abu Yusuf Ya'kub ibn Abd al-Haqq, imponente sul suo cavallo bianco e avvolto in un mantello di tessuto damascato azzurro impreziosito da intricati ricami d'oro, le milizie marocchine sfilavano lentamente sotto l'elegante arco a sesto acuto sovrastante la porta meridionale della città di Sigjlmassa. Per l'occasione, erano stati spalancati entrambi i battenti in legno massiccio decorati con grosse borchie di bronzo, uno dei quali restava abitualmente chiuso.
Una folla plaudente le aveva accompagnate lungo tutto il percorso, dalla piazza principale dove si ergeva la grande moschea recentemente imbiancata a calce, sino alle massicce mura di pietra color ocra dove si apriva la grande porta meridionale, e ora le salutava con alte grida di gioia e ripetute invocazioni ad Allah il grande per una sicura vittoria. Erano accompagnate dal suono acuto, simile a un ululato prolungato, della "zaghrouta", emesso dalle donne nascoste dietro le "mashrabiye", i caratteristici graticci in legno alle finestre.
Quando anche l'ultimo dei dromedari adibiti al trasporto delle salmerie ebbe varcato la porta, le guardie si precipitarono a richiuderne i battenti, mentre gli abitanti della città facevano lentamente ritorno alle loro incombenze.
La spedizione contro la città di Taghaza, nel lontano impero del Mali, era cominciata.

Non era la prima volta che i regnanti del Marocco lanciavano una spedizione militare contro quella remota località desertica, piccola per dimensioni ma importante crocevia per il commercio del sale, ubicata a metà strada fra i paesi dell'Africa settentrionale e quelli meridionali dell'impero del Mali. Il prezioso minerale di cui abbondava il suo sottosuolo, da secoli strategico per l'economia dell'impero assieme all'oro, all'argento, all'avorio e al rame, veniva estratto in forma di lastre rettangolari che, legate a coppie e caricate a due a due sul dorso dei dromedari, prendevano la strada dei mercati settentrionali di Sijilmassa, nell'entroterra del Marocco, e di Orano, sulle coste algerine del Mediterraneo, con interminabili carovane che percorrevano le pericolose piste che attraversavano il deserto. Ma anche quella dei mercati meridionali adagiati lungo le rive del grande fiume, primo fra tutti quello di Timbuktù, antico insediamento e già famoso centro religioso ai margini del deserto.
Due erano le carovaniere principali che dall'impero si dirigevano verso il settentrione. La prima puntava, attraverso il grande deserto denominato Erg Chech, verso l'oasi di Adrar, nell'Algeria meridionale, e la seconda, più defilata, si dirigeva verso occidente, per raggiunger le oasi del Marocco meridionale. Presentavano entrambe notevoli rischi, dovuti alla precarietà dei rari punti d'acqua e alla presenza di estesi cordoni di dune che, ripetendosi quasi all'infinito, costringevano le carovane a frequenti cambi di direzione. Per non parlare poi delle temperature, che anche nei periodi invernali potevano a volte arroventare l'aria, rendendola soffocante.
Per questi motivi, di carovane non ne venivano organizzate più di un paio all'anno, affidate a guide esperte e al comando di un capo carovana, generalmente un commerciante di riconosciuta serietà, in rappresentanza degli interessi di tutti i proprietari delle merci, consorziati fra loro per ridurre i rischi. Una volta raggiunti i mercati e vendute le merci, le carovane rientravano cariche di altri prodotti, questa volte provenienti dalla penisola iberica, da quella italica e dal medio oriente.
Sul fiorente commercio del sale, ma anche della polvere d'oro, dell'argento, del rame e, non ultimo, quello degli schiavi, avevano da tempo gettato gli occhi i sultani del Marocco, desiderosi di controllarne i mercati carovanieri, fra cui, appunto, Taghaza, ben sapendo che avrebbero così potuto imporre ai commercianti i loro dazi e ricavarne grandi vantaggi economici con pochi sforzi. Ma, ogni qual volta avevano provato a impossessarsi di Taghaza, erano sempre stati respinti con gravi perdite dagli uomini di Mansa Uali, re di un vasto regno che si estendeva dalle coste del grande mare, a occidente, sino alla regione orientale di Gao, il cui esercito, negli anni, aveva raggiunto un invidiabile livello di organizzazione ed efficienza.
Era l'impero del Mali.
Purtroppo, con la sua morte, si era scatenata una lotta per la conquista del potere fra i due più alti dignitari di corte, lotta che aveva sensibilmente indebolito la forza militare dell'impero, lasciandone sguarniti i posti di frontiera a guardia dei confini. Proprio di questo intendeva ora approfittare il sultano del Marocco, ritenendo maturi i tempi per una definitiva conquista della piccola città mineraria.


CAPITOLO PRIMO
VALLE DELLA DRÀA
(MAROCCO MERIDIONALE)
OTTOBRE 1283


Sotto un sole che cominciava a far sentire i suoi fastidiosi effetti, la colonna avanzava a passo lento percorrendo la carovaniera che conduceva verso le regioni meridionali attraversate dal fiume Dràa, la cui fertile valle era costellata di piccoli villaggi agricoli, in ognuno dei quali il sultano Abu Yousuf intendeva reclutare un certo numero di uomini destinati a ingrossare le fila delle sue truppe. Dietro il sultano, che indossava un vistoso turbante di seta azzurra che ben si accompagnava al mantello di identico colore, cavalcavano i generali nei loro abiti dai colori decisamente meno appariscenti. Pochi i cavalieri, perché la spedizione prevedeva l'attraversamento di vaste distese sabbiose che sarebbero risultate d'impaccio per gli zoccoli di quei quadrupedi adatti a terreni meno soffici. Nutrite, invece, le truppe a dorso di dromedario, armate di scimitarra, pugnale e arco. E non mancavano quelle a piedi, destinate a ingrossarsi nel corso della prima parte del viaggio, anch'esse ben armate. Chiudevano la lunga colonna le salmerie, costituite da un folto gruppo di dromedari per il trasporto delle vettovaglie, al momento in gran parte scarichi. Solo più avanti, con la requisizione nei vari villaggi delle derrate alimentari necessarie a uomini e animali, sarebbero stati caricati di tutto punto prima di affrontare il deserto.
Il sultano arrestò il cavallo e alzò un braccio. A lui si affiancò subito uno dei generali che, raccolto un suo ordine, tornò indietro e indirizzò un comando verso la truppa. Un cavaliere, uscito dai ranghi, si avvicinò lentamente e lo raggiunse. Pur indossando anch'esso mantello e turbante, non portava addosso alcuna arma e il suo aspetto tradiva l'appartenenza a una razza diversa. La sua pelle era infatti di una tonalità decisamente chiara, ben diversa da quella leggermente olivastra dei berberi che costituivano la quasi totalità degli abitanti del regno. Anche la capigliatura, di un caldo color castano, contrastava con quella nerastra e riccioluta dei berberi, che i cristiani della vicina penisola iberica e dell'Andalusia in particolare, erano soliti chiamare "mori".
Si trattava senza dubbio di uno straniero….

(…)


CAPITOLO SECONDO
TIMBUKTU (MALI)
LUGLIO 2012


Due ombre furtive, nel cuore di una notte senza luna, sgusciarono da una stretta porta che si affacciava sul vicolo sabbioso che separava due fra i più antichi quartieri della città. I due uomini, tenendosi al riparo del muro di una bassa costruzione, si diressero verso la vicina piazza sulla quale si affacciava l'antica moschea e da dove sembrava provenire un tenue e intermittente chiarore. Giunti alla fine del muro si fermarono, poi il primo si sporse con cautela oltre l'angolo per controllare la piazza.
Proprio davanti al portone spalancato della moschea di Sidi Yahia, edificata nel XV secolo, ardeva un imponente falò le cui fiamme si innalzavano irregolarmente, alimentate da una catasta di libri ammucchiati alla rinfusa. L'uomo gettò uno sguardo tutt'attorno e, sinceratosi che non ci fosse nessuno, abbandonò l'ombra protettrice e si precipitò verso il rogo seguito dal compagno. Entrambi portavano sulle spalle due ampi zaini vuoti che scaricarono presso la catasta ardente, poi, inginocchiatisi, si misero a gettare manciate di sabbia che raccoglievano a piene mani da terra, nel tentativo di spegnere le fiamme. In breve riuscirono a domare il rogo; cominciarono allora a riempire gli zaini con i libri non ancora aggrediti dal fuoco.
Si trattava di antichi manoscritti provenienti dal livello inferiore della moschea, che ospitava una delle numerose e antiche biblioteche sparse in tutti i luoghi di culto della città.

I manoscritti di Timbuktù, conosciuti in tutto il mondo, ormai da diversi anni erano stati dichiarati dall'UNESCO Patrimonio dell'Umanità. Sul loro numero i dati erano incerti, non essendone mai stato fatto un vero censimento. Si parlava di circa settecentomila testi, molti ridotti in condizioni pietose dall'usura dei secoli e dalla pessima conservazione, e altri addirittura a un ammasso di fogli sciolti, rosicchiati dagli insetti e dai topi. Di essi, circa ventimila erano stati catalogati e conservati nei sotterranei del moderno Istituto di Studi Islamici, di recente realizzazione, che prendeva il nome da Ahmed Baba, famoso studioso e scrittore islamico contemporaneo di Shakespeare, ma moltissimi altri erano sparsi un po' ovunque; sia nelle moschee della città che nelle abitazioni di privati cittadini, le cui famiglie discendevano da coloro che, nel medioevo, avevano ricoperto importanti cariche amministrative e politiche e che, per amore del sapere, si erano creati le loro biblioteche personali. Ma anche nelle case di gente di modeste condizioni, venutane in possesso nel corso dei secoli, e, si mormorava, addirittura conservati in nascondigli sotterranei fuori città, in pieno deserto, della cui ubicazione erano in pochi a esserne a conoscenza.

(…)

I due uomini avevano quasi riempito i loro zaini quando un rumore di passi provenienti da una strada laterale li fece sussultare. Raccolsero il loro carico e si affrettarono all'interno della moschea, proprio mentre altri due uomini sbucavano nella piazza. Calzavano semplici sandali di plastica trasparente e indossavano una lunga camicia che gli scendeva alle caviglie, dal colore ormai indefinibile, ma che una volta doveva essere stata bianca. A tracolla portavano un kalashnikov e una borsa di tela piena di caricatori. Si avvicinarono al rogo, ormai quasi spento, e si guardarono perplessi. Dalla sabbia che ricopriva i manoscritti ormai inceneriti capirono che qualcuno era stato lì. Gettarono uno sguardo attorno, poi si precipitarono verso l'ingresso della moschea.

Appena varcata la porta, i due uomini con lo zaino si erano trovati avvolti da un buio totale. La notte era priva di luna e dalle poche e strette finestre che si aprivano in alto, distribuite sui lati più lunghi di quell'ambiente rettangolare che costituiva il corpo principale della moschea, sembrava non penetrare alcuna luce. Questa era stata la loro prima impressione, mentre a tentoni cercavano di avanzare. Ma, dopo pochi secondi, i loro occhi avevano cominciato a scorgere delle ombre. In realtà l'ambiente non era completamente buio; infatti dall'alto pioveva una debolissima luce azzurra, il poco che riusciva a filtrare all'interno del chiarore prodotto dalla volta celeste, animata da una moltitudine di stelle luccicanti. Ombre immobili, verticali, che si materializzavano all'improvviso davanti a loro, ostacolandoli nei movimenti. Erano le numerose colonne che sostenevano il soffitto e che ora riuscivano a distinguere abbastanza bene. Si liberarono degli zaini, nascondendoli dietro una di esse, proprio mentre i due uomini armati facevano il loro ingresso e, a loro volta, si fermavano sorpresi dal buio.
I due fuggitivi, intanto, muovendosi rapidamente e cercando di non far rumore nel calpestare le stuoie che ricoprivano il pavimento di terra battuta, si dirigevano verso il fondo, dove gli era parso di scorgere una scala che scendeva. La raggiunsero nel momento in cui i loro inseguitori, superato il primo momento di disorientamento, abituatisi a loro volta al buio, cominciavano ad avanzare, senza sapere però dove dirigersi. Si muovevano a caso attorno alle colonne, con precauzione per non andare a sbattere, sinché non raggiunsero anche loro il fondo del vasto ambiente e scorsero la scala. Gli altri, intanto, erano già giunti in fondo ai gradini che immettevano in una stanza dal soffitto basso, totalmente immersa nel buio. Nulla del debole chiarore dell'ambiente superiore riusciva più a penetrare in quel sotterraneo. Capirono di essere finiti in uno dei locali che costituivano la biblioteca quando, muovendosi a tentoni, urtarono contro uno scaffale di legno su cui erano appoggiati alcuni volumi. L'urto ne fece cadere uno, che piombò al suolo con un rumore che, per quanto attutito dal pavimento di semplice terra battuta, ai due, in preda a grande agitazione, parve spaventoso.
Si immobilizzarono, col cuore che gli martellava in petto.
A quel rumore gli inseguitori, che avevano già iniziato a scendere i primi gradini, si arrestarono a loro volta, imbracciarono i kalashnikov e fecero scattare la sicura con un suono secco, amplificato dai muri di quell'ambiente angusto.
Uno dei fuggitivi afferrò il compagno per un braccio e mormorò, in un soffio: "Non muoverti!".
Gli altri, intanto, giunti in fondo alla scala dove regnava un buio totale, non si accorsero a loro volta della scaffalatura appoggiata al muro e, maldestramente, la fecero cadere. Si udi un urlo, non di paura, ma per incuterla, lanciato dal fuggitivo che aveva appena sussurrato all'amico di non muoversi, a cui seguì un tramestio come di due corpi in lotta fra loro, poi un grido che si strozzò in un lamento, accompagnato da una raffica di kalashnikov i cui proiettili andarono a colpire il soffitto in tutte le direzioni. Per una frazione di secondo gli spari illuminarono l'ambiente. Il primo fuggitivo, quello che aveva ricevuto l'ordine di non muoversi, scorse, a pochi centimetri dal suo, il volto stravolto di uno dei due inseguitori, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, mentre da uno squarcio della gola il sangue sprizzava a fiotti. Dietro di lui intravide l'amico che stringeva in una mano un coltello insanguinato, mentre con l'altra gli immobilizzava la testa. L'uomo appena sgozzato imbracciava ancora l'arma da cui era partita la raffica. Come ultima cosa intravide, presso la scala, il secondo inseguitore, quello che aveva fatto cadere la scaffalatura, nell'attimo in cui, sorpreso dalla raffica, si voltava verso i due avvinghiati, impugnando l'arma. Poi fu di nuovo buio.
Allora si buttò bocconi al suolo, mentre udì, vicinissimo, un tonfo sordo e contemporaneamente il kalashnikov che aveva appena sparato, non più trattenuto dall'uomo sgozzato piombato a terra, gli cadde sulla testa. In preda al terrore lo afferrò, proprio mentre un'altra raffica squarciava il silenzio. Udì i proiettili sibilare sopra la testa e colpire, sbriciolandola, la scaffalatura più vicina a lui prima di penetrare nel soffitto. Ci fu un altro lampo, ma, per l'infelice posizione in cui si era venuto a trovare, non riuscì ad approfittarne. Prontamente si rotolò su un fianco e, urlando per farsi coraggio, lasciò partire a sua volta una raffica nella direzione in cui, in base a quanto intravisto in precedenza, riteneva doversi trovare l'uomo che aveva appena sparato. Continuò a sparare alla cieca, sempre nella stessa direzione, finché non esaurì l'intero caricatore. A ogni raffica un lampo illuminava la scena e così riuscì a distinguere, in un frenetico alternarsi di luce e buio, il corpo dell'uomo a cui aveva sparato incastrato in una scaffalatura contro cui era stato scaraventato dalla violenza dei proiettili, crivellato di colpi e con la testa quasi staccata dal corpo, ridotta a un irriconoscibile ammasso sanguinolento. A terra, vicino a lui, giaceva il corpo coperto di sangue dell'altro inseguitore e, nascosto sotto di lui, intravide l'amico che l'aveva sgozzato e che l'aveva utilizzato come scudo protettivo. Scoppiò a piangere, incapace di rialzarsi.
"E' tutto finito" disse l'amico, liberandosi del morto e mettendosi in piedi. Poi lo prese per le spalle e lo costrinse a rialzarsi.
"E' tutto finito" ripeté, "alzati, dobbiamo andarcene prima che arrivi qualcuno".
Ma l'altro, ancora sotto shock, non accennava a muoversi e l'amico dovette afferrarlo per le spalle e guidarlo, al buio, verso i primi gradini della scala. Quando furono di sopra recuperarono i loro zaini e uscirono all'aperto, essendosi sincerati che fuori tutto fosse tranquillo. Dopo il buio del sotterraneo la piazza parve loro luminosissima; per questo si infilarono subito in un oscuro vicolo laterale.

(…)


 


Cesare Gianotti
, nato a Ivrea nel 1940, dal 1946 al 1970 ha vissuto in Libia. Laureato in Scienze Geologiche, rientrato dalla Libia, ha trascorso per lavoro sedici anni nell'Africa sub-sahariana, di cui quattro in Costa d'Avorio e dodici in Nigeria. Vive quasi sempre a Minorca (Baleari-Spagna). Ha pubblicato "Il Crociato - La spada e l'usbergo" (prima edizione, Albatros 2011). Da Cicorivolta Edizioni ha pubblicato i romanzi: Una storia siciliana (d’altri tempi)” (2013), “Prima di morire”(2015), "Calma piatta a Flamingos' Bay", "Il Crociato - La spada e l'usbergo" (seconda edizione, 2023).