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Brano tratto da: "Il
Crociato - La spada e l'usbergo"
PROLOGO
Da oltre
venti giorni un finissimo pulviscolo trasportato da un caldo e incessante
vento settentrionale avvolgeva la piccola città mineraria.
La polvere, che durante il giorno oscurava il sole tingendo il cielo di
un giallo spettrale, impediva quasi di distinguere le basse costruzioni
che si allungavano ai lati della carovaniera che collegava le grandi città
dell'Impero con le oasi oltre il deserto. Al tramonto, poi, un lugubre
chiarore purpureo, che sembrava provenire da estesi incendi all'orizzonte,
avvolgeva tutte le cose creando un opprimente senso di angoscia.
Gli abitanti della città, simili a fantasmi, si muovevano furtivi
lungo i muri proteggendosi la bocca con teli di lino avvolti intorno al
capo e cercando di uscire di casa il meno possibile. Di notte, dalle fessure
delle finestre sprangate non filtrava alcuna luce; l'oscurità per
le strade era totale e la città sembrava completamente abbandonata.
Di giorno, i sorveglianti berberi preposti al funzionamento della miniera
impartivano secchi ordini agli schiavi neri che senza sosta salivano e
scendevano le lunghe scale a pioli appoggiate ai bordi di profonde aperture
scavate nel sottosuolo. Sparivano sotto terra per riemergere piegati sotto
il peso di larghe lastre di sale. Le caricavano su lunghi carri che, una
volta pieni, venivano trainati fuori dalle mura e scaricati in un'ampia
radura.
Qui, centinaia di imperturbabili dromedari, ordinatamente accosciati uno
accanto all'altro, attendevano pazientemente di essere caricati. Negli
ultimi giorni, prima che sopraggiungesse improvvisa la tempesta di polvere,
il loro numero era andato continuamente aumentando sino a superare il
migliaio.
Molti altri erano attesi prima che la carovana annuale diretta verso le
coste del grande mare settentrionale si mettesse in marcia. Ogni cinque
giorni venivano nutriti con fieno secco che gli uomini prelevavano da
enormi balle stivate in appositi locali. Lo biascicavano imperturbabili,
senza perdere quell'aria di sufficienza che abitualmente mostravano verso
il mondo circostante.
Mentre le lastre di sale venivano accatastate fuori dalle mura, una parte
del carico, costituito da sacchi colmi di polvere d'oro, veniva custodita
in magazzini fortificati all'interno delle mura, sotto lo stretto controllo
di fidate guardie berbere. Lo stesso per i pani di rame di forma rettangolare,
provenienti anch'essi dalle regioni meridionali dell'Impero, che venivano
conservati in magazzini adiacenti a quelli che custodivano l'oro.
Da diversi giorni la popolazione era in preda a una grande agitazione;
non si avevano più notizie della carovana proveniente dalle fertili
regioni del meridione, quelle che si stendevano lungo le rive del grande
fiume. Si trattava di una importante carovana che ogni due mesi trasportava
le derrate alimentari necessarie alla sopravvivenza degli abitanti; c'era
il timore che, per effetto della polvere che riduceva la visibilità
a pochi passi, potesse smarrire la pista e perdersi nel deserto.
Le scorte di cibo si erano ormai talmente assottigliate da costringere
le autorità a ordinarne il razionamento. Anche l'acqua nei due
pozzi cominciava a scarseggiare, come sempre succedeva all'inizio della
stagione calda, quando il livello della falda si abbassava sensibilmente.
L'acqua era sempre stato un grosso problema per la città e anche
il secondo pozzo scavato di recente, oltre che confermarne la qualità
scadente dovuta all'elevato contenuto in sale, non aveva risolto la cronica
penuria del prezioso liquido.
La piccola città era sorta, alcuni secoli prima, in mezzo al deserto
intorno ai consistenti giacimenti di sale, alimento indispensabile alla
vita di persone e animali. Il prezioso minerale veniva estratto e trasportato
verso i ricchi mercati delle oasi settentrionali e delle città
meridionali per essere venduto a un prezzo molto remunerativo, uguale
e a volte superiore a quello dell'oro. L'abbondanza del minerale era tale
che quasi tutte le costruzioni erano state edificate con blocchi di sale,
prelevato per lo più dai filoni dove il minerale era più
impuro.
Povera d'acqua, la città era anche priva di alberi. Lì non
esisteva un'oasi; lì non c'erano i lussureggianti palmeti in grado
di fornire quei deliziosi frutti che da sempre costituivano un'essenziale
fonte di nutrimento e si prestavano a essere conservati anche per un intero
anno. Lì tutto veniva portato a dorso di dromedario e se una carovana
tardava ad arrivare o veniva soppressa, l'intera popolazione rischiava
di patire la fame.
Per questo esisteva, sin dai tempi della sua fondazione, una procedura
di emergenza messa in piedi dai governanti berberi. Quando le scorte cominciavano
ad assottigliarsi, veniva spedita verso le regioni di approvvigionamento
una staffetta; si spostava su un dromedario veloce e resistente, capace
di percorrere oltre quaranta miglia in un giorno, di camminare per tre
giorni senza sosta e di restare anche una settimana senza dissetarsi.
Con questo sistema la città non era mai rimasta senza viveri, anche
se aveva passato periodi difficili, a volte drammatici, come quando era
stata ripetutamente attaccata dai guerrieri marocchini provenienti da
occidente, che miravano a impadronirsi delle sue ricche miniere.
Finalmente il vento calò d'intensità e nel giro di un paio
di giorni la tempesta si placò lasciando un sottile e impalpabile
strato di polvere su tutte le cose. Ben presto le carovane ripresero ad
arrivare, prima fra tutte quella con i rifornimenti alimentari. Si trattava
di convogli di cento e più animali con carichi d'oro e di rame,
ma non solo. C'erano anche pelli di serpente, di leopardo e di altri animali
selvatici presenti lungo il grande fiume; e poi piume di struzzo e grosse
zanne di elefante.
Nel grande spiazzo fuori le mura il numero degli animali si andò
rapidamente ingrossando. Quando si stimò che tutti i carichi fossero
giunti si cominciò a comporre la carovana. Gli schiavi assemblarono
a due a due le lastre di sale e le caricarono sui dromedari, fissandole
alla sella in modo che il peso venisse equamente distribuito da una parte
e dall'altra. Caricarono in questo modo oltre mille animali.
Poi si passò a caricare i sacchi d'oro e di rame; le pelli vennero
invece raccolte in grosse balle di cotone grossolanamente cucite con fili
di fibre vegetali; due balle per animale. Infine si caricarono le derrate
alimentari e le scorte d'acqua necessarie alla sopravvivenza della carovana
per tutto il tempo richiesto per raggiungere le prime oasi oltre il deserto,
dove sarebbero state ripristinate. Per oltre due mesi avrebbero dovuto
fare affidamento su un solo pozzo d'acqua, oltretutto sfavorevolmente
ubicato lungo la pista perché troppo vicino alla partenza, quando
invece sarebbe stato molto più utile se si fosse trovato a metà
cammino. Alla fine, quando tutti gli animali furono pronti, si contarono
duemila dromedari che vennero affidati a duecento uomini che li avrebbero
condotti attraverso le sabbie del grande Erg.
Come erano soliti fare ormai da molti anni, i proprietari delle merci
avevano affidato la responsabilità della carovana al mercante più
esperto della città, colui che per conto loro le avrebbe vendute
nei vari mercati, sempre più su, sino al porto sul grande mare.
Poi, con il ricavato, avrebbe acquistato altre mercanzie da riportare
indietro e da vendere sui ricchi mercati dell'Impero. Tutti si fidavano
della sua esperienza e della riconosciuta abilità di commerciante.
Se le cose fossero andate nel verso giusto il guadagno sarebbe stato garantito
per tutti. Erano consapevoli dei rischi che le loro merci correvano nell'attraversare
il deserto e per questo si consociavano in modo da suddividerli fra tutti;
ecco perché una simile carovana veniva organizzata una sola volta
all'anno.
All'alba del giorno stabilito un'interminabile fila di animali e uomini
si mise in marcia abbandonando il grande spiazzo fuori le mura. Per la
prima volta mancava il gruppo di schiavi in catene che solitamente apriva
il convoglio; la carovana che avrebbe dovuto portarli dalle lontane regioni
montuose non era arrivata.
Laggiù, ai confini orientali dell'Impero, feroci tribù di
predoni abbandonavano di tanto in tanto le montagne in cui vivevano per
scendere a valle e razziare i villaggi indifesi lungo l'ansa del grande
fiume. Catturavano giovani uomini, donne e ragazzi che venivano affidati,
al pari di qualsiasi altra merce, al capo della carovana per essere rivenduti
sui mercati oltre il deserto.
Uomini e animali si avviarono verso le marcate ondulazioni che si scorgevano
all'orizzonte illuminate dai primi raggi del sole. Le raggiunsero e si
infilarono in una larga valle dal fondo sabbioso, bordata da due lunghi
cordoni di dune dorate che si prolungavano all'infinito.
CAPITOLO
1
AIGUES-MORTES
(FRANCIA)
GIUGNO 1270
Mancava poco al tramonto quando il cavaliere affrontò la stretta
curva sfiorando pericolosamente i grossi alberi che sorgevano al lato
della strada; poi lanciò il cavallo a briglia sciolte giù
per la discesa, verso le mura della città fortificata. Piombò
sul ponte levatoio, che rimbombò sotto i colpi degli zoccoli della
cavalcatura, mentre una folata di vento gli sollevava il mantello, lasciando
intravedere la rossa croce cucita sulla casacca; passò fra le due
guardie che si aprirono per non essere travolte e attraversò la
porta principale.
Percorse la via centrale lastricata con rotonde pietre di fiume e giunse
nella piazza antistante il castello reale. Tirò violentemente le
redini costringendo il cavallo a un'impennata che per poco non lo sbalzò
di sella; saltò a terra e si diresse verso l'ingresso, mentre una
guardia protetta da una lucida corazza e armata di lancia si precipitava
a sbarrargli la strada.
"Sono il cavaliere de La Rivière" disse l'uomo "e
porto notizie urgenti per re Luigi."
L'armigero gli cedette il passo e i due entrarono nel castello.
Da una finestra al secondo piano Luigi IX, re di Francia, aveva seguito
l'arrivo del cavaliere; si spostò verso il centro della sala e
si aggiustò il mantello, preparandosi a riceverlo.
La guardia bussò con discrezione alla porta, poi entrò senza
attendere risposta.
"Il cavaliere de La Rivière per Vostra Maestà"
annunciò. Il re annuì congedandolo con un gesto mentre il
cavaliere si precipitava nella sala inginocchiandosi ai suoi piedi.
"Sire, le truppe al comando del conte di Poitiers e Tolosa, fratello
di Vostra Maestà, marciano a un giorno da qui. A Dio piacendo saranno
ad Aigues Mortes domani nel primo pomeriggio."
Il re fece cenno al cavaliere di alzarsi poi, afferrandogli confidenzialmente
entrambe le braccia, disse:
"Ben arrivato Cédric e grazie per le buone notizie che ci
porti."
Jean François Cédric de La Rivière era un bell'uomo
di circa quarant'anni. Di statura superiore alla media, dotato di un fisico
slanciato e ben proporzionato, aveva il mento incorniciato da una corta
barba che risaliva intorno alle labbra carnose e ben disegnate dando corpo
a due folti e ben curati baffi dello stesso colore castano dei capelli,
che portava lunghi sulle spalle in dolci ondulazioni.
Il particolare rapporto esistente fra il re ed il cavaliere de La Rivière
risaliva a diciotto anni prima quando, nel corso della VII Crociata, re
Luigi era stato catturato insieme a molti suoi luogotenenti durante la
sfortunata battaglia di Mansura, sul delta del Nilo.
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CAPITOLO
2
BAMAKO
(MALI)
SETTEMBRE 2009
Il grosso jet A300 della Air France toccò terra con un secco stridio
delle ruote del carrello, perse rapidamente velocità, si inserì
in una pista laterale e rullò dirigendosi lentamente verso il terminal
del Senou International Airport dove si arrestò con un brusco sussulto.
Appena messo piede sulla scaletta esterna Thierry Vidal fu investito da
un vento secco, con una insopportabile sensazione di calore accentuata
dal fresco dell'aria condizionata a cui il suo corpo era stato esposto
durante le sei ore di volo.
Poco prima dell'atterraggio il comandante aveva informato i passeggeri
che la temperatura al suolo era di 40° centigradi, il cielo limpido
e l'umidità di poco inferiore al 40%. Sbrigate le formalità
Thierry si avviò all'uscita, chiamò un taxi e si fece condurre
all'Hotel l'Amitié della catena Sofitel, che si trovava in centro,
non molto distante dal fiume Niger.
Quando fu in camera sollevò la cornetta, premette il tasto per
ottenere la linea esterna e compose un numero. Dopo qualche istante si
udì dall'altro capo della linea un "Allò?" a cui
Thierry rispose con un "buon giorno Alphonse, qui è Thierry.
Sono appena arrivato in albergo; ci vediamo fra un'ora."
Thierry Vidal era nativo di Aix-en-Provence. Laureato in scienze delle
comunicazioni, si era dedicato al giornalismo diventando un apprezzato
free-lance esperto di problemi africani ed in particolare di quei paesi
che occupavano la fascia del Sahel.
Scriveva per importanti quotidiani e periodici francesi e non solo. I
suoi articoli erano apparsi anche su riviste straniere di grande diffusione
come Newsweek, The Economist, Time.
In anni passati aveva visitato il Senegal, il Burkina Faso, la Côte
d'Ivoire, il Niger e la Nigeria; un anno prima, in occasione del suo primo
viaggio in Mali, aveva trascorso un breve periodo a Bamako, per intervistare
il Ministro dello Sviluppo del governo di quel paese.
Un giorno si trovava a passeggiare per la centrale Rue Pasteur quando
era stato attratto dalla luminosa e accattivante vetrina di un negozio
che esponeva oggetti d'arte. Aveva alzato lo sguardo all'insegna dove
una scritta in caratteri eleganti informava che si trattava di "Art
Malien". Attraverso la vetrina si scorgevano, appesi al muro di fronte,
alcuni quadri di varie dimensioni tutti incorniciati. Incuriosito aveva
aperto la porta ed era entrato.
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