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Brano
tratto da
"HUMORESQUE"
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Humoresque
(frammenti di un giorno di primavera)
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Frammento
V
C’era
una targa: “CORALE J. S. BACH”. Entrò.
Questa parte della città, zona I67, non la conosceva. La sala prendeva
luce dai finestroni situati in alto. C’erano tre file di panche e
in fondo una pedana. Si guardò intorno e sedette all’ultima
panca di destra. Era solo in sala, mentre la pedana si andava riempiendo.
Quando il direttore arrivò cessò immediatamente il brusio
che proveniva dalla pedana. Salutò, guardò a destra e a
sinistra e si accomodò su una sedia di fronte al coro; disse qualcosa,
poi si immerse nella partitura.
I ritardatari arrivarono che il maestro stava dando indicazioni. Era un
prete, tozzo, lunghi capelli neri rovesciati sulla nuca, le mani candide
come il colletto della camicia, mani grassocce, lo vedeva bene sotto il
cono di luce al neon che lo investiva, mani, pensò, abituate a
maneggiare spartiti più che paramenti sacri.
Il maestro accennò una frase e il canto si espanse nella sala,
lo raggiunse e lo emozionò; credette di riconoscere un passaggio
del “Gloria” di Vivaldi. Si alzò, decise di avvicinarsi.
Dal posto che occupava adesso, a pochi metri dai soprani, credette di
riconoscere un volto, quando gli sguardi si incrociarono abbozzò
un sorriso incerto. Era proprio lei. Quella donna, come le altre, aveva
animato il suo universo fantastico, tempo addietro. L’aveva conosciuta
in casa di amici e la piega glaciale delle sue labbra, il suo sguardo
tagliente lo avevano affascinato. Era bastato poco per innescare quella
che lui definiva “la sindrome da indifferenza”. Era sempre così,
tutte le volte: il distacco, in una donna, lo illanguidiva, obbligandolo
a percorrere, in rigorosa e prevedibile ascesa, una gamma di umori, dalla
attenzione dissimulata al cauto interesse, alla spinta a muovere verso
la donna, alla disillusione, alla malinconica rinuncia. Non era la distanza
fisica, era quell’altra, quella che fa di un uomo e una donna mondi
separati, a volte inconciliabili, quel muoversi in una terra di nessuno
dai confini incerti che a volte un gesto o un’occhiata autorizzano
a percorrere.
Il maestro fermò l’esecuzione, parlò a lungo, spiegò,
mosse le mani, segnalò i respiri, sorrise e invitò i tenori
a ripetere.
Fu tentato di rivolgere la parola alla ragazza ma si trattenne in tempo,
fece solo un cenno ricambiato.
Si ritrovarono per strada alla fine della prova.
“Ho la macchina, si va?”
“Si va!”
Si diressero verso il mare, lo sguardo della ragazza era fisso sulla strada,
protetto da un paio di occhiali scuri che la rendevano enigmatica. Lui
detestava gli occhiali da sole, e a volte chi li portava. Imboccarono
un viale che conduceva alla spiaggia.
Fissò l’attenzione su un grosso cane che li precedeva sul
retro di un furgone, per eludere l’inquietudine e per non pensare.
“Dove sei stato tutto questo tempo?”
“Da nessuna parte.”
“Quegli amici li hai più rivisti?”
“Saltuariamente.”
“Come mai non ti sei più fatto vivo, non mi hai più
cercata?”
“Non lo so, ma sai…”
“Sì?”
“Non sorridere, ti prego, quello che sto per dirti ti sembrerà
sciocco…”
“Allora?”
“Tu mi incuriosivi e mi inquietavi… Perché sorridi? Avevo
ragione a pensare che avrei detto una cosa sciocca.”
“No, affatto. è che faccio sempre questo effetto.”
Tacquero. Il furgone col cane se l’erano lasciato alle spalle.
“A cosa pensi?”
“A niente.”
La macchina filava, imboccarono un viale fiancheggiato da giganteschi
ippocastani, sullo sfondo scorse una sottile stria azzurro brillante.
La strada semideserta incoraggiava la velocità, alle spalle la
città svaniva e il nastro brillante invadeva lo sfondo, il sole
calava.
La macchina rallentò, infine si arrestò nei pressi di un
chiosco, era chiuso. Una leggera brezza muoveva gli oleandri allineati
lungo il marciapiede. Scesero, si avviarono verso la battigia, lui leggermente
arretrato rispetto a lei. La osservava percorrendone con gli occhi il
corpo.
Si fermarono a pochi passi dal mare, in silenzio, a fissarne la superficie
leggermente increspata.
“Come va il lavoro all’Accademia?”
“Niente di speciale.”
“Ci vieni spesso al mare?”
“Quando ho bisogno di pensare.”
“Ci vieni da solo?”
“Sì. Mi siedo e ascolto il silenzio, il mare.”
“E a cosa pensi?”
“Oh, a tante cose e a niente in particolare. Il mare mi aiuta a sentire
la nostalgia.”
“Davvero? è buffo.”
“Non direi. Quando sento arrivare la nostalgia, so che qualcosa di
me mi sta lasciando.”
Lei sembrava distante, fissava un punto all’orizzonte; erano vicini,
poteva sentirne l’odore, percepire il respiro della ragazza, che
disse: “Continua.”
“Dico addio a vecchi pensieri, alle immagini di persone che forse
non rivedrò mai più, a brandelli di sogni, faccio spazio
al rimpianto per quei sentimenti che non hanno potuto esprimersi. Parlo
al mare e lui mi risponde.”
“Ti parla? E di cosa?”
“Della sua sconfinata solitudine. Mi parla di quello che nasconde
e custodisce, di quello che sottrae agli uomini e di ciò che restituisce.
è come se abbandonasse le sue parole sulla spiaggia quando è
deserta. Parla… parla, non smette mai.”
Tacquero e rimasero a lungo a fissare il mare.
(...)
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