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i quaderni di Cico
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e di Renzo Brollo, leggi anche RACCONTI
BIGAMI, |
titolo:Metalmeccanicomio In
Metalmeccanicomio la meccanica
è imprecisa, l’essere umano metalmeccanico è inadeguato
e incompreso. Due schieramenti contrapposti dentro l’organigramma
della battaglia si fronteggiano senza nemmeno saperlo Dentro una bolla di tempo sospeso, dopo che anche l'ultimo dei ribelli è stato catturato, si dipana il racconto dell'operaio metalmeccanico Robespiero, protagonista di una rivoluzione fallita e di dieci giorni di occupazione di una fabbrica destinata alla delocalizzazione. L'errore iniziale, viaggiando sopra una catena di montaggio immaginaria, si costruisce e diventa male assoluto, passando nelle mani di tutti i contendenti, trasformando le ragioni in torti. |
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Brano
tratto da Metalmeccanicomio (Incipit) Un
carabiniere dall’aria vagamente familiare mi costringe a entrare
nella camionetta. Mi spinge da dietro, dice qualcosa che non capisco,
sale e mi siede accanto. Le manette stringono e tagliano. Un dolore terribile,
che se te lo raccontano non ci credi. Mi obbliga verso il divisorio che
ci separa dall’autista, appena visibile attraverso una grata, gli
fa un cenno d’intesa e partiamo sgommando. Una pattuglia a sirene
spiegate apre il convoglio. -
Ho dimenticato di timbrare il cartellino - dico amareggiato a voce alta.
Beffarda, l’abitudine alla routine dell’entrare e uscire sempre
alla solita ora mi torna in mente proprio qui, proprio adesso che non
ne ho più bisogno. Invece
importa. Importa eccome. -
Robespiero - dice, - ora ti portiamo in caserma. Lo sai questo, vero? Ora che lo so, riesco ad associare a quel nome e a quella faccia tutti i ricordi che credevo dimenticati: la bocca enorme, quell’incredibile risata grassa, la sua bravura a pallone. Sono tutti dettagli che riemergono assieme in uno spruzzo di immagini sbiadite. Da bambino portava i capelli più lunghi. Oggi, il cranio bianchiccio riluce sotto l’ordinata coltre rasata a dovere. Gli occhi grandi e chiari, quasi grigi, sono rimasti. Grazie a loro, nella somma dei lineamenti si ristabilisce un certo gradevole equilibrio. - Comprensibile che tu sia confuso. Cerca di rilassarti, ora. Tra dieci minuti saremo in paese. Come se non lo sapessi. Da vent’anni, due volte al giorno, per cinque giorni la settimana, percorro queste distanze, dalla porta di casa fino al cancello della Fabbrica. Nel frattempo ho cambiato tre automobili, mentre io sono rimasto sempre lo stesso. Puntuale, regolare, non ho mai sgarrato e non ho mai smarrito la strada che porta alla Zona Industriale, che accoglie tutti a braccia aperte. Vecchi, giovani, buoni e cattivi, froci, lesbiche, stacanovisti, lavativi, pazzi, a volte qualche prete. La Zona Industriale non guarda in faccia nessuno, se quel qualcuno che bussa alla sua porta ha il tesserino con la banda magnetica, un numero di matricola e delle scarpe adatte a camminare sulla limatura di ferro. Se possiedi queste cose sei un Metalmeccanico, lavori per la Fabbrica e la Fabbrica lavora per te. Ti tiene nel suo ventre, al chiuso, per otto ore al giorno. Poi ti libera, come fossi un cane che deve uscire per pisciare e che, prima o poi, tornerà a casa. Daniele inarca la schiena, allunga le braccia e si stiracchia. Come tutti noi, ha passato lunghe notti fuori casa a presidiare lo stabile, a raccogliere i cocci di cose e di uomini. Siede accanto a me, incastrato sui seggiolini ribaltabili in pelle nera, incaricato di sorvegliare il pericoloso prigioniero. -
Senti, non dovrei nemmeno parlare con te. Ci mette un po’ a rispondermi. -
Non lo so, ma eri diverso dagli altri, tu. Sembravi sempre triste e preoccupato.
Però non mi sei mai stato antipatico. Almeno non fino a dieci giorni
fa. Davanti ai miei occhi, il veloce passaggio di un corpo che viene estratto da un frigorifero crivellato di colpi. Sento un pizzicore forte al petto. -
Vuoi che ti dica che sono un mostro? Ma certo, sono un mostro e della
peggior specie. Di quelli che prendono i ragazzini e li fanno crepare.
È tutto vero, accidenti. È proprio così che è
andata. Resto chino sui ricordi, a guardarmi le scarpe di sicurezza logorate dal molto uso, la loro punta rinforzata graffiata dalla limatura di ferro. -
Lo sai, avremmo potuto distruggere la Fabbrica in qualsiasi momento, se
questo fosse stato il nostro scopo. La camionetta accelera e rallenta senza grazia. Seduti uno accanto all’altro, ci strusciamo coi gomiti e con le ginocchia. Contro la sua divisa nera e rossa, la mia tuta blu, logora, odorosa di nafta rappresa e macchiata di chissà cosa, si staglia netta e ci fa sembrare ancora più lontani di quello che siamo. Sembriamo due specie animali diverse costrette a viaggiare dentro la stessa gabbia. La mia è la razza dei lavoratori metalmeccanici, la sua non so. -
Scusami se non mi sono ricordato subito il tuo nome, Daniele. Invece importa. Importa eccome. Dalla radio, messaggi gracchiati irrompono all’interno del nostro abitacolo. Il conducente risponde con parole in codice che non so decifrare. La scocca vibra e dondola, agitandomi. Comincio a tremare, senza rendermene nemmeno conto. Le dita afferrano e stringono forte la piccola griglia che separa noi due dall’autista, il ferro piegato incide la carne delle dita. Non vorrei farlo, non vorrei mostrarle, ma le lacrime scendono disobbedendomi. - Adesso piangi, Robespiero? È troppo tardi, non credi? Dammi una buona ragione per la quale dovrei compatire te e i tuoi colleghi. Perché non mi fate pena, cazzo. Vorrei
dirgli: perché siamo piccoli metalmeccanici e i metalmeccanici
non hanno mezze misure, caro compagno di scuola, ma accettano solo numeri
quasi perfetti. I nostri non lo erano più, perché il signor
Celso li aveva rovinati. La camionetta prima rallenta e poi decelera bruscamente, trovando un ingorgo al primo incrocio. Sembra incredibile, ma dall’assoluta impenetrabilità del cordone attorno alla nostra Fabbrica, in poche centinaia di metri siamo passati alla solita vita frenetica della Zona Industriale. L’argine, ora lo vedo, è stato creato apposta per contenerci e trattenerci, per isolarci senza isolare tutto il resto, che doveva continuare a macinare materia per creare soldi nel giusto modo. Camion in colonna aspettano il turno per entrare e caricare. Altrettanti camion in uscita prendono direzioni diverse, rombando aggressivi. Tra loro, auto aziendali sfrecciano senza frenare, provando a svicolare per evitare l’ingorgo. Cerco dettagli, trovo nostalgia. -
Vedi cos’hai fatto, Robespiero? Come hai potuto cacciarti in questo
casino, eh? Invece
importa. Eccome, se importa. Prendo le curve assieme a Daniele, replicando le sue mosse per rimanere in equilibrio. Ci imbarchiamo alla stessa maniera nell’affrontare gli arabeschi che dalla tangenziale portano alla statale e, se l’anima regge lo sforzo, il corpo vacilla. Dieci giorni d’assedio, abbiamo subito. Dieci giorni a centellinare merendine flosce e panini sottovuoto, tra una ronda per difenderci dai loro attacchi e la guardia al dottor Celso, ostaggio di chi fino a poco prima lo salutava, riverendolo. Ma da oggi non sarà più così. Ristabilite le gerarchie e dopo un breve periodo di fisioterapia per ravvivare polsi e caviglie, sono certo che tornerà al suo posto, a quella scrivania che per qualche notte è stata anche il suo letto. E dei nostri morti non rimarrà traccia, se non gli armadietti chiusi da una chiave smarrita chissà dove. La
camionetta, procedendo veloce, si incunea nelle strade cittadine piene
di vita variegata. Anche Daniele, silenzioso come me, scruta le facce
della gente. Ripenso alle sue parole. I giornali, da quando il manicomio
metalmeccanico è scoppiato, avranno dedicato più di una
colonna all’evento. La notizia sarà stata seguita da tutti
i quotidiani nazionali, perciò i più informati, osservando
il convoglio, avranno già tirato le somme, sospirato per la fine
di una faccenda della quale si parlerà per anni e che forse modificherà
il profilo della Zona Industriale. In fin dei conti, un pandemonio così
grande non s’era mai visto, nemmeno all’epoca dei primi grandi
scioperi. Nessuno si sarebbe mai immaginato un’occupazione come la
nostra. Nemmeno noi che l’abbiamo voluta.
(...)
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Renzo
Brollo, nato a Gemona (UD) nel 1971, sposato con prole, è un
impiegato metalmeccanico sin da quando ne ha memoria. “Per ora
è così, magari le cose cambieranno”. Dal 2009 fa
parte della redazione del sito Mangialibri, per il quale divora e recensisce
libri. Picchia sulla fisarmonica nel gruppo folk-rock Bakan e con loro
ha pubblicato tre dischi. Per Cicorivolta ha pubblicato Racconti
Bigami (2006), Se
ti perdi tuo danno (2007), Mio
fratello muore meglio (2010). Da uno dei
racconti del 2006, Vicini di casa, è stato tratto il film
in lingua friulana Visins di cjase, prodotto da Uponadream.
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