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Brano
tratto da "La
meccanica delle ombre".
.1.
Benni guidava
con calma nel traffico bizzoso del primo pomeriggio. Samanta aveva appoggiato
la fronte al finestrino e guardava fuori. Il cielo era di un grigio chiarissimo.
Lui spense lautoradio a metà di uno spot.
«Hai preso lombrello?»
«No. Ma tanto non piove.»
«Problemi a scuola? Tutto bene?»
Sua figlia continuò a guardare fuori. «Nellordine,
no, sì.»
«Non hai la faccia di una che le va tutto bene.»
«Invece va bene. È solo la faccia. Fidati.»
«Bene. Così ti voglio. Una guerriera.»
Lei fece un sorrisetto con poca energia. Benni fu tentato di dirle che
con quante ore passava a studiare almeno il sabato avrebbe potuto risparmiarsi,
ma sapeva che sarebbe servito solo a renderla più ostile. Per Samanta
insegnare catechismo ai piccoli era diventata una specie di missione.
Quasi unossessione, pensava lui. Ne aveva parlato a Giovanna, ma
lei aveva lasciato pochi margini alla sua contrarietà. «Non
lho mai vista così determinata a impegnarsi in qualcosa.
Le piace farlo, la fa stare bene. Non vedo perché dovremmo impedirglielo.»
Benni aveva incassato e deciso di lasciar perdere. Dopo la separazione
era tutto uno stare attento a non accendere micce, soprattutto quelle
che riguardavano Sam.
Quando posteggiò, lei gli dette un bacio un po troppo rapido
e spalancò lo sportello. A lui sembrò che il mondo la risucchiasse
fuori.
«Aspettami, ti accompagno.»
«Non cè bisogno babbo, sono due passi.»
«Guarda che se ti succede qualcosa mamma mi trafigge.»
Le spalle di Samanta calarono di un paio di centimetri mimando rassegnazione.
«Cosa vuoi che mi succeda.»
«Non lo so, è questo il brutto.»
«Va bene, ma non cè bisogno che entri nel giardino
della canonica. Mi lasci al cancello, ok?»
«Daccordo.»
Riempirono quei trecento metri scambiandosi informazioni superficiali
e una mezza promessa su un film da vedere insieme. Arrivati al cancello,
Samanta si soffermò e sorrise a suo padre.
«Allora vado. Ci vediamo lunedì.»
«Insomma, è ufficiale. Ti vergogni di me.»
«Babbo, non mi accompagni più fino al portone da quando avevo
undici anni. Perché dovresti ricominciare adesso?»
«Già. Perché?»
«Torno con Sara, va bene? Forse mi fermo un po a casa sua.»
«Mamma lo sa?»
«Sì che lo sa. Chiamala se non ci credi.»
«Ci credo, ci credo.»
Benni si impose di non sorvegliare sua figlia mentre percorreva i cinquanta
metri che la separavano dal portone della canonica. Scese a patti col
groppo che sentiva tra petto e gola e tornò verso lauto col
vento radente che lo faceva lacrimare. Avvertiva il bisogno fisico di
prendere il telefono, cercare il numero di Giovanna, mandarle un messaggio
anzi meglio chiamarla, avvisarla che Sam tornava da sola, chiederle conferma,
raccomandarle che quelleccesso di preoccupazione restasse tra di
loro. Allimprovviso avvertì una goccia di pioggia, poi unaltra
e unaltra ancora, gocce fredde e pesanti come ghiaia. Accelerò
il passo chiedendosi se Samanta avesse con sé un ombrello, se fosse
il caso di portarle quello con due stecche piegate che teneva sempre nel
bagagliaio. Decise per il sì. Cambiò idea. Alzò gli
occhi al cielo.
Arrivato quasi allauto, Benni fece scattare lapertura a distanza.
Al lampeggiare delle quattro frecce un suv nero che stava passando sullaltra
corsia rallentò e si spostò di lato, ingombrando la linea
di mezzeria. Accadde tutto in pochi istanti. La motocicletta irruppe dalla
curva, urtò il paraurti anteriore del suv, ruggì fuori giri
e andò a fracassarsi contro unauto posteggiata più
avanti. Il motociclista schizzò come unombra, atterrando
con un tonfo sordo sul marciapiede.
Benni restò immobile. Avvertì punture gelide alla base del
collo e sul retro delle cosce. Un istante dopo arrivò londata
effervescente delladrenalina. Si accorse di avere il telefono in
mano e selezionò il 118.
«Sono in via Trento», scandì tenendo a freno la concitazione.
«Cè stato un incidente, è... È appena
accaduto. Una moto. Sì, no, non so se è cosciente, ma è
sicuramente ferito, lho visto volare.»
Con le ginocchia impietrite si diresse verso il motociclista. Gli sembrava
di muoversi in una scenografia sospesa sul nulla. Passò accanto
alla donna di mezza età che era uscita dal suv con le mani tra
i capelli e lespressione distorta in un pianto muto. Il traffico
si era fermato, dalle auto era scesa altra gente. Benni aveva il telefono
incollato allorecchio mentre loperatore ripeteva con voce
impostata su una calma irreale: «si rechi sul posto, ci dica se
è cosciente.» Il terrore lo aggredì con una scossa,
ma si impose di avvicinarsi. Vide gli stivali, i jeans. Vide che era un
ragazzo. Si muoveva. «È cosciente», urlò nellapparecchio.
Loperatore al telefono avvertì di non prendere iniziative,
lambulanza sarebbe arrivata in pochi minuti.
Il ragazzo si mise seduto, fece per alzarsi, rinunciò, mise una
mano guantata sopra il casco come a reggersi la testa o sincerarsi che
fosse intera. Il giubbotto di tela blu era lacero su un gomito, i jeans
erano anneriti su una coscia. Benni gli si fece accanto chinandosi. Accennò
un sorriso.
«Ehi.»
Il ragazzo alzò una mano.
«Sto bene», sbuffò da sotto il casco.
«Non toglierti il casco», disse Benni. Il ragazzo chiuse gli
occhi e annuì lentamente. Bofonchiò «okay, okay»,
poi cercò appiglio nel paraurti di unauto lì accanto,
sembrò saggiarne la consistenza e infine, con qualche piccola esitazione,
si alzò. Benni non reagì subito. Coglieva tutto con lucidità
ma si sentiva offuscato, come se ogni pensiero dovesse lottare per diventare
vero. Si alzò a sua volta.
«Stai calmo, non muoverti. Lambulanza sarà qui fra
poco.»
Il ragazzo scosse di nuovo la testa. Parlò, alzando progressivamente
il tono come se non riuscisse a sentire bene la propria voce. «Sto
bene, davvero. Posso togliermi il casco? Non ho nulla, il collo non ha
problemi, guarda.»
Piegò la testa avanti, indietro, di lato. Non aspettò la
risposta di Benni e si sfilò il casco. Era giovane, venticinque
anni al massimo. Una vampa rossastra di paura sugli zigomi scolpiti. Benni
lo vide prendersi un respiro famelico a bocca socchiusa ed esaminarsi
lescoriazione del gomito attraverso lo strappo del giubbotto. Gocce
di sangue come perline tremolanti sul rosa sporco della pelle lacera.
«Non senti niente, davvero?»
«Sì. Sto bene.»
Tremava un po, ma si scosse e riuscì a sorridere. Benni gli
poggiò una mano sulla spalla. Arrivò la signora del suv
sostenuta da un tipo che le ripeteva «tranquilla, visto che non
si è fatto nulla?» Lei quasi non riusciva a parlare, masticava
parole in un pigolio sbriciolato che Benni riuscì a capire con
qualche attimo di ritardo.
«Mio figlio, potresti essere mio figlio.»
«Non si è fatto niente», disse Benni, troppo piano
perché la donna potesse sentirlo.
.2.
Lo sguardo
del Bosoni emanava una specie di rabbia a bassa intensità diretta
alla scatola cranica di Benni, che reagì col massimo della franchezza.
«È colpa mia. Avevo già preparato il pacco e la bolla
di accompagnamento, però è rimasto tutto sotto il banco.»
Il Bosoni non sbatté neanche le palpebre. «Un albero a camme,
Benni. Fosse stato un iniettore capirei. Ma un albero a camme.»
«Infatti, lho messo sotto il banco perché mingombrava.
Poi me ne sono scordato. Un iniettore invece lavrei tenuto sopra
e quindi...» Gli occhi del Bosoni iniziarono a raggelarsi fino a
trapassarlo. Benni preferì cedere le armi. «Con questo non
voglio giustificare nulla.»
«Hai provato a chiamare il corriere?»
«Sì, non può ripassare. Sta già rientrando
al deposito. Ha detto che lo prende col giro delle quattro.»
«No, è troppo tardi, lo vogliono entro lora di pranzo.
Avevo dato la mia parola.»
«Guarda, lo porto io dal corriere. Ce la facciamo con la spedizione
delle dieci. Sono le nove e venti, non cè problema. In mezzora
al massimo sono al deposito.»
Il Bosoni non rispose, sventolò una mano come a scacciare una nuvola
di fumo e passò ad altro.
Dopo dieci minuti Benni percorreva il raccordo autostradale tentando di
arginare il nervosismo. Era una bella giornata, chiara e asciutta. Malgrado
il formicolio della fretta e la tensione riusciva a godersi laria
incredula delle mattine fuori programma. Quella luce gli ricordava qualcosa
di familiare che riconobbe subito, lo stesso senso di evasione effervescente
di quando saltava la scuola. Venticinque anni prima, pensò con
un brivido. Aveva sintonizzato lautoradio sul programma che tenevano
in sottofondo allemporio, quello che tra un cliente al banco e una
telefonata non riusciva mai ad ascoltare bene. La speaker parlava di cinema,
musica e varia umanità con la leggerezza arguta di chi ne sa più
di quante ne voglia dire, alternando classici e novità pop-rock
di cui Benni non ricordava mai titoli e nomi. Non che glimportasse
più di tanto. La musica era stata al centro della sua vita fin
da ragazzino ma con gli anni aveva finito per non darle troppo peso, neanche
ricordava lultima volta che era entrato in un negozio di dischi.
Erano altre ormai le faccende che gli ingombravano i pensieri. Sua figlia
era ovviamente la prima. Subito dopo veniva il timore di poter perdere
il posto di lavoro. La prospettiva lo riempiva di uno sconforto piatto
e affannoso. Non riusciva a ipotizzare alternative, non simmaginava
capace di fare altro che limpiegato allEmporio dellAuto
Bosoni. Negli ultimi diciotto anni aveva messo a punto una condotta professionale
standard, sfrondando tutto il non necessario, comprese le qualità.
Gli era rimasto solo il tronco liscio e grigiastro dellefficienza.
Arrivare in orario. Rispondere. Organizzare. Risolvere. Con la dose di
cortesia sufficiente a farla sembrare una forma di cordialità.
Galleggiava tra queste riflessioni opache quando la Seat blu che lo precedeva
iniziò ad accostare gradualmente, quasi che lo invitasse a superarla.
Benni si ricordò che poco più avanti cera la colonna
dellautovelox e pensò che la Seat volesse semplicemente rallentare.
«Testa di cazzo», mormorò. «Ancora un po
e ti fermi, porco cane.»
Guardò nello specchietto retrovisore e si spostò in corsia
di sorpasso, attento a non oltrepassare il limite. La Seat procedeva alla
stessa velocità, costeggiando la banchina, ma allimprovviso
le ruote di destra uscirono dalla carreggiata intrappolandosi nella fossetta.
Il pilota tentò di rientrare in strada con sterzate convulse, ma
lauto sembrava ormai sui binari. Benni vide gli pneumatici della
Seat sollevare terra tentando inutilmente di mordere lasfalto, e
capì che era fuori controllo. Prima ci fu limpatto col guard
rail di protezione, poi con la torretta metallica dellautovelox
che fu sbalzata di un paio di metri dalla sede. La Seat si accartocciò,
fece un balzo e ruotò sul proprio asse prima di piombare nel fosso,
incastrandosi a testa in giù tra un faggio e il terrapieno.
Benni aveva osservato la scena come in trance. «Cazzo», sbottò,
accorgendosi solo allora di averlo già detto un numero imprecisato
di volte. Ebbe la presenza danimo di non frenare. Proseguì
compiendo una sterzata per evitare una tubatura metallica che saettò
sullasfalto. La marmitta, valutò con involontaria lucidità,
oppure un supporto del guard rail. Accostò nella piazzola poco
più avanti e respirò a fondo stringendo il volante.
Si riscosse con un brivido e mise in fila le azioni successive: il telefono,
il 118, cercare lindicazione del chilometro, non dimenticare il
senso di marcia. Col telefono allorecchio scese dallauto e
si avvicinò al luogo dello schianto oltrepassando lautovelox
abbattuto. Loperatore rispose e lui iniziò a comunicare i
fatti e la posizione. Le domande arrivarono sistematiche: «quante
persone ci sono nel veicolo? sono coscienti?» Benni osservò
la Seat in bilico nella scarpata. Il pennacchio di vapore che esalava
dal cofano gli procurò unondata di brividi alla base del
collo. Non trovava il coraggio per calarsi e controllare. Loperatore
ripeté la domanda: «riesce a dirmi quanti sono?» Il
traffico si era fermato. Il silenzio era spazzolato dal rombo delle vetture
che procedevano nellaltro senso di marcia. Loperatore continuava
a chiedere con un tono più brusco: «Sono coscienti?»
Benni restava aggrappato al guard rail, senza trovare il coraggio di muoversi.
«Non lo so.» Rispose. «Mi dispiace, non credo di farcela
a...»
In quel momento un uomo raggiunse il luogo dellimpatto e si buttò
nel fosso, alzando sbuffi di terra e sassi mentre scivolava sullargine,
aggrappandosi ai rami del faggio, al paraurti, poi allo specchietto laterale
della Seat. Guardò allinterno dellauto e urlò.
«È una signora!»
«Una donna», disse Benni alloperatore.
«Sta battendo sul finestrino», gridò luomo. «La
cintura la soffoca!»
Benni riferì alloperatore che rispose raccomandandosi di
non toccarla, di non provare a farla uscire, era troppo rischioso per
lei e per loro. Benni gridò di non fare nulla ma luomo aveva
già aperto lo sportello, lavorava per liberare la donna dalla cintura
di sicurezza e iniziava a estrarla dallauto. Benni provò
a farsi sentire sopra la concitazione montante, ma con sempre meno convinzione.
«Quelli del 118 hanno detto di lasciarla stare, è pericoloso!»
Luomo gli dedicò unocchiata sprezzante senza metterlo
a fuoco e continuò ad armeggiare con la cintura di sicurezza. Benni
osservava rapito, registrando a un qualche livello di consapevolezza le
ultime parole delloperatore che chiudeva la conversazione. Il corpo
tozzo della donna scivolò fuori dallauto come un fagotto
aggrappandosi alluomo che faceva perno con un piede sul tronco del
faggio, serrando le labbra per lo sforzo. Benni si riscosse e si calò
a sua volta, seguito da un tipo biondastro. I tre presero la signora per
le spalle e le gambe. Il biondo imprecò in una lingua straniera
facendosi paonazzo per lo sforzo, ma trovò la forza danimo
per incoraggiare Benni rivolgendogli un sorriso cameratesco. In qualche
modo riuscirono a trascinarla su.
La donna faticava a stare in piedi. Luomo che si era calato per
primo la sosteneva con malcelata spavalderia. Come se fosse un trofeo,
pensò Benni, lasciando che al fastidio si mescolasse un po
di ammirazione. La fecero sedere sul gradino rialzato del cordolo. Benni
non credeva ai propri occhi: le osservava il volto, i capelli, le braccia,
le mani, le gambe. La donna era confusa e spaventata, ma illesa. Lesplosione
dellairbag le aveva lasciato chiazze rossastre su fronte e guance.
Gli occhi sfrecciavano senza pace e si abbassavano schiacciati dalle ricadute
del terrore. Farfugliava di essersi addormentata, si malediceva per non
essersi fermata prima. Era stravolta, disorientata, esausta. Ma era illesa.
Benni guardò di nuovo lauto. Gli ricordò la carcassa
di una bestia in attesa del macello. Osservò laccartocciamento
violento del muso, la contorsione della lamiera del tetto e degli sportelli.
Si spostò lungo il guard rail cambiando langolo di visuale
per valutare la deformazione dellabitacolo. Lo sportello era rimasto
aperto. Notò gli airbag esplosi che pendevano flosci come uova
schiuse di serpente.
.3.
Il dottore
entrò nella stanza allimprovviso. Era un uomo alto, dalle
spalle robuste, la calvizie luminosa e unespressione indecifrabile.
Ha la faccia di un prestigiatore, pensò Benni. Il dottore si presentò
con un nome scivolato via subito, seguito dalla qualifica di primario
dellunità di medicina. Poi parlò col tono di chi è
abituato a dire molte più cose di quelle che gli interlocutori
riescono a comprendere.
«Lei è qui con noi, signor Stipoli, per una di quelle circostanze
che i colleghi del pronto soccorso hanno definito miracolose. E pare proprio
che non esagerino. Non solo per il fatto che lei sia vivo e, come si dice,
lotta insieme a noi, ma anche in merito alla presenza in questo reparto.
Lei è qui perché non ha avuto bisogno di andare da nessunaltra
parte. A dire il vero, da un punto di vista medico non cera neanche
bisogno del ricovero, però non ricoverarla dopo quello che le è
successo sarebbe stato davvero troppo. O, per meglio dire, troppo poco.
Insomma, visto che in ortopedia come al solito cè la ressa
delle grandi occasioni e invece qui, miracolo per miracolo, avevamo una
bella stanza libera, ecco spiegata la sua presenza in questo reparto.
Dunque, Stipoli
» Il primario portò il pugno alle labbra
e si schiarì rumorosamente la voce. «Mi scusi. Dicevo, lei
non ha riportato alcuna ferita o ustione. Niente trauma cranico né
fratture ossee. Gli organi vitali sono illesi. Giusto un ematoma alla
tempia sinistra e unescoriazione al gomito, sempre il sinistro.
Roba da niente, ma visto lo stato di shock abbiamo comunque preferito
trattenerla, farle una tac e qualche esame di routine, giusto per non
stare con le mani in mano. Insomma, lei capisce quanto tutto ciò
sia sorprendente. Ma la cosa davvero incredibile è unaltra.»
Il primario fece una pausa, schiarendosi di nuovo la voce. Poggiò
una mano sulla pediera del letto e fissò Benni come se volesse
radiografargli un tumore frontale con la sola forza dello sguardo.
«In tutto siete nove miracolati, usciti più o meno illesi
da un incidente che persone abituate a vedere macelli di ogni tipo hanno
definito con la seguente parola: spaventoso. Cinque mezzi coinvolti, un
furgone e quattro automobili. Ribaltati. Schiacciati. Unauto si
è persino incendiata. Insomma, un gran casino. E nessuna vittima.
Nessun ferito serio. Se queste parole la turbano me lo dica, smetto subito.»
«No, nessun problema. Continui...»
(...)
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