i quaderni di Cico
 
 

 

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titolo: "La meccanica delle ombre"
collana
i quaderni di Cico
autore: Stefano Solventi
ISBN 978-88-99021-14-6
€ 13,00 - pp.315 - © 2015
In copertina, fotografia
by Sebastiano Bongi Tomà - il ramingo - (www.sbtphotographer.eu)


A Benni capita di rimanere coinvolto in situazioni strane: malati che guariscono, ossa che non si spezzano, incidenti stradali da cui escono tutti illesi. C'è chi le chiama coincidenze, chi preferisce destino. Qualcuno pensa che si tratti di miracoli. Benni non cerca spiegazioni. È convinto che l'improbabile e l'incomprensibile rientrino nel normale ordine delle cose. Gli basta credere questo per accettarli, proprio come accetta la presenza di un'ombra misteriosa che appare ogni sera tra la parete e il soffitto di camera sua. Non ha fatto i conti però con quello che gli altri sono disposti a credere.
A costo di sconvolgergli la vita...

LEGGI IL COMMENTO DI MICHELE MANZOTTI SUL QUOTIDIANO LA NAZIONE

 

Leggi qui l'intervista di Giuseppe Iannozzi a Stefano Solventi, un nuovo importante, consapevole autore, scoperto da Cico...

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leggi qui l'articolo di
Renzo Stefanel per Extra!Music Magazine
   


Un refrain filmico. Puro piacere fisico nei riuscitissimi dialoghi e nelle descrizioni ‘tattili’ e sinestetiche: la pelle dei seggiolini restituiva una fragranza acrilica e una specie di morbida lucidità. In esergo al romanzo, un richiamo allo scrittore Thomas Pynchon e al cantautore Franco Battiato: due stimoli che aleggiano di continuo lungo questa storia e per quanto nessuna storia è vera fino in fondo, questa sembra davvero accaduta al nostro migliore amico, parla davvero ai nostri desideri e alle nostre speranze… leggi la recensione di Gianluca Garrapa per Satisfiction

Stefano Solventi. Il paesaggio cittadino è un catalogo di storie possibili. Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi? in quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar? sei mancino\a o destrorso\a? passeggi? in bici, in auto, osservi alberi? scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono e dell’acqua? quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne? fumi? bevi? quanto pesi? scrivi dopo cena, prima di pranzo? quando? la tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo... leggi l'intervista di Gianluca Garrapa a Stefano Solventi per Satisfiction

 
La meccanica delle ombre narra di una generazione sbilenca, quella dei quarantenni di oggi, del loro rodersi dentro ma, soprattutto, della loro ambivalenza espressa da un continuo imbrattarsi di scetticismo, talvolta cinismo, miscelato segretamente alla speranza che esista una via d’uscita prodigiosa, una scappatoia che porti lontano dalle battaglie perse e soffi via le ceneri di una voglia di vita troppo presto bruciata. Un resoconto crudo, quello di Solventi, ma non un verdetto, perché, come viene spiegato, “alla fine l’ombra non è che questo, una luce parzialmente negata”.
leggi la recensione di Giorgia Sbuelz per Chronica libri
 

Una storia che si sviluppa e si intreccia paragrafo dopo paragrafo, come un concept album le cui tracce, separate e in sé complete e definite, formano tutte insieme una grande visione, un vorticoso puzzle che disegna un periodo importante della vita di Bernardo, detto Benni, il protagonista. Così, con il ritmo del rock’n’roll (spesso anche scandito da esplicite citazioni di artisti, dai Rolling Stones a Lou Reed, da Iggy Pop ai Cramps, dai Blue Cheer a John Mellencamp e molti altri), si vive la quotidiana e a tratti rocambolesca serie di esperienze di Benni, che forse è un guaritore o forse sono solo gli altri a crederlo, ma fatto sta che dopo un terribile incidente che lo vede coinvolto e dal quale escono tutti miracolosamente illesi, si inaugura per Benni un’escalation di eventi incentrati sui suoi veri o presunti poteri sovrannaturali che gli permetterebbero di salvare o guarire le persone intorno a lui e che finiranno per cambiargli radicalmente la vita. leggi la recensione di Doriana Tozzi per ithinkmagazine

 


"Fantastico. Mi ha fatto ricordare "La versione di Barney" di M. Richler,e non vi dico perché. Spero che capiti anche a voi di farvi coinvolgere così tanto da arrivare ad incazzarvi con uno dei personaggi. A un certo punto mi è venuta voglia di strappare una pagina e metterla sopra a una pentola in ebollizione, per staccarne il personaggio così come facevo da ragazzo con i francobolli sulle buste". (
leggi qui la recensione di Claudio Della Pietà per senzaudio.it)

 
Consideriamo una retta orizzontale. Spargiamoci sopra lo scandire dei giorni, calibrandolo sulla falsariga della quotidianità. Poi, in un punto qualsiasi, facciamo irrompere dall’alto una retta verticale, ignorandone causa e provenienza. Stiamo sicuri però che il contatto tra le due provochi il turning point, l’elemento X che cambia il futuro e fa cambiare lo sguardo sul passato. Qui è esattamente dove comincia La Meccanica delle Ombre, romanzo d’esordio di Stefano Solventi...
leggi l'articolo di Tommaso Priante per Rivista!unaspecie
 
E inoltre, qui sotto: intervista di Giustina Terenzi, di Controradio Firenze, a Stefano Solventi
 
 
 
 

Benni si ritrovò irrimediabilmente solo e quasi del tutto sveglio in una penombra lattiginosa. Dalle avvolgibili filtravano lame di luce di una giornata già calda. Alzò lo sguardo pigramente, sapendo cosa avrebbe visto. L’ombra era lì. Una specie di ovale sfrangiato tra parete e soffitto, spostato sensibilmente a sinistra rispetto all’asse centrale della stanza. Se Benni concentrava lo sguardo, dopo un po’ pareva dissolversi, come se perdesse consistenza. Se invece fissava altrove, l’ombra diventava una macchia nitida alla periferia del campo visivo... Si diceva che doveva alzarsi, ma al grumo di pensieri che continuava a tormentarlo si era aggiunta l’ultima domanda di Samanta su quel gruppetto rock che aveva messo in piedi negli anni Ottanta…


 
 
 
 
https://www.facebook.com/lameccanicadelleombre
 
Leggi qui sotto la recensione di Andrea Provinciali
su Il Mucchio Selvaggio di settembre 2015
(clicca sull'immagine per ingrandirla)
 
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Brano tratto da "La meccanica delle ombre".

.1.

Benni guidava con calma nel traffico bizzoso del primo pomeriggio. Samanta aveva appoggiato la fronte al finestrino e guardava fuori. Il cielo era di un grigio chiarissimo. Lui spense l’autoradio a metà di uno spot.
«Hai preso l’ombrello?»
«No. Ma tanto non piove.»
«Problemi a scuola? Tutto bene?»
Sua figlia continuò a guardare fuori. «Nell’ordine, no, sì.»
«Non hai la faccia di una che le va tutto bene.»
«Invece va bene. È solo la faccia. Fidati.»
«Bene. Così ti voglio. Una guerriera.»
Lei fece un sorrisetto con poca energia. Benni fu tentato di dirle che con quante ore passava a studiare almeno il sabato avrebbe potuto risparmiarsi, ma sapeva che sarebbe servito solo a renderla più ostile. Per Samanta insegnare catechismo ai piccoli era diventata una specie di missione. Quasi un’ossessione, pensava lui. Ne aveva parlato a Giovanna, ma lei aveva lasciato pochi margini alla sua contrarietà. «Non l’ho mai vista così determinata a impegnarsi in qualcosa. Le piace farlo, la fa stare bene. Non vedo perché dovremmo impedirglielo.» Benni aveva incassato e deciso di lasciar perdere. Dopo la separazione era tutto uno stare attento a non accendere micce, soprattutto quelle che riguardavano Sam.
Quando posteggiò, lei gli dette un bacio un po’ troppo rapido e spalancò lo sportello. A lui sembrò che il mondo la risucchiasse fuori.
«Aspettami, ti accompagno.»
«Non c’è bisogno babbo, sono due passi.»
«Guarda che se ti succede qualcosa mamma mi trafigge.»
Le spalle di Samanta calarono di un paio di centimetri mimando rassegnazione. «Cosa vuoi che mi succeda.»
«Non lo so, è questo il brutto.»
«Va bene, ma non c’è bisogno che entri nel giardino della canonica. Mi lasci al cancello, ok?»
«D’accordo.»
Riempirono quei trecento metri scambiandosi informazioni superficiali e una mezza promessa su un film da vedere insieme. Arrivati al cancello, Samanta si soffermò e sorrise a suo padre.
«Allora vado. Ci vediamo lunedì.»
«Insomma, è ufficiale. Ti vergogni di me.»
«Babbo, non mi accompagni più fino al portone da quando avevo undici anni. Perché dovresti ricominciare adesso?»
«Già. Perché?»
«Torno con Sara, va bene? Forse mi fermo un po’ a casa sua.»
«Mamma lo sa?»
«Sì che lo sa. Chiamala se non ci credi.»
«Ci credo, ci credo.»
Benni si impose di non sorvegliare sua figlia mentre percorreva i cinquanta metri che la separavano dal portone della canonica. Scese a patti col groppo che sentiva tra petto e gola e tornò verso l’auto col vento radente che lo faceva lacrimare. Avvertiva il bisogno fisico di prendere il telefono, cercare il numero di Giovanna, mandarle un messaggio anzi meglio chiamarla, avvisarla che Sam tornava da sola, chiederle conferma, raccomandarle che quell’eccesso di preoccupazione restasse tra di loro. All’improvviso avvertì una goccia di pioggia, poi un’altra e un’altra ancora, gocce fredde e pesanti come ghiaia. Accelerò il passo chiedendosi se Samanta avesse con sé un ombrello, se fosse il caso di portarle quello con due stecche piegate che teneva sempre nel bagagliaio. Decise per il sì. Cambiò idea. Alzò gli occhi al cielo.
Arrivato quasi all’auto, Benni fece scattare l’apertura a distanza. Al lampeggiare delle quattro frecce un suv nero che stava passando sull’altra corsia rallentò e si spostò di lato, ingombrando la linea di mezzeria. Accadde tutto in pochi istanti. La motocicletta irruppe dalla curva, urtò il paraurti anteriore del suv, ruggì fuori giri e andò a fracassarsi contro un’auto posteggiata più avanti. Il motociclista schizzò come un’ombra, atterrando con un tonfo sordo sul marciapiede.
Benni restò immobile. Avvertì punture gelide alla base del collo e sul retro delle cosce. Un istante dopo arrivò l’ondata effervescente dell’adrenalina. Si accorse di avere il telefono in mano e selezionò il 118.
«Sono in via Trento», scandì tenendo a freno la concitazione. «C’è stato un incidente, è... È appena accaduto. Una moto. Sì, no, non so se è cosciente, ma è sicuramente ferito, l’ho visto volare.»
Con le ginocchia impietrite si diresse verso il motociclista. Gli sembrava di muoversi in una scenografia sospesa sul nulla. Passò accanto alla donna di mezza età che era uscita dal suv con le mani tra i capelli e l’espressione distorta in un pianto muto. Il traffico si era fermato, dalle auto era scesa altra gente. Benni aveva il telefono incollato all’orecchio mentre l’operatore ripeteva con voce impostata su una calma irreale: «si rechi sul posto, ci dica se è cosciente.» Il terrore lo aggredì con una scossa, ma si impose di avvicinarsi. Vide gli stivali, i jeans. Vide che era un ragazzo. Si muoveva. «È cosciente», urlò nell’apparecchio. L’operatore al telefono avvertì di non prendere iniziative, l’ambulanza sarebbe arrivata in pochi minuti.
Il ragazzo si mise seduto, fece per alzarsi, rinunciò, mise una mano guantata sopra il casco come a reggersi la testa o sincerarsi che fosse intera. Il giubbotto di tela blu era lacero su un gomito, i jeans erano anneriti su una coscia. Benni gli si fece accanto chinandosi. Accennò un sorriso.
«Ehi.»
Il ragazzo alzò una mano.
«Sto bene», sbuffò da sotto il casco.
«Non toglierti il casco», disse Benni. Il ragazzo chiuse gli occhi e annuì lentamente. Bofonchiò «okay, okay», poi cercò appiglio nel paraurti di un’auto lì accanto, sembrò saggiarne la consistenza e infine, con qualche piccola esitazione, si alzò. Benni non reagì subito. Coglieva tutto con lucidità ma si sentiva offuscato, come se ogni pensiero dovesse lottare per diventare vero. Si alzò a sua volta.
«Stai calmo, non muoverti. L’ambulanza sarà qui fra poco.»
Il ragazzo scosse di nuovo la testa. Parlò, alzando progressivamente il tono come se non riuscisse a sentire bene la propria voce. «Sto bene, davvero. Posso togliermi il casco? Non ho nulla, il collo non ha problemi, guarda.»
Piegò la testa avanti, indietro, di lato. Non aspettò la risposta di Benni e si sfilò il casco. Era giovane, venticinque anni al massimo. Una vampa rossastra di paura sugli zigomi scolpiti. Benni lo vide prendersi un respiro famelico a bocca socchiusa ed esaminarsi l’escoriazione del gomito attraverso lo strappo del giubbotto. Gocce di sangue come perline tremolanti sul rosa sporco della pelle lacera.
«Non senti niente, davvero?»
«Sì. Sto bene.»
Tremava un po’, ma si scosse e riuscì a sorridere. Benni gli poggiò una mano sulla spalla. Arrivò la signora del suv sostenuta da un tipo che le ripeteva «tranquilla, visto che non si è fatto nulla?» Lei quasi non riusciva a parlare, masticava parole in un pigolio sbriciolato che Benni riuscì a capire con qualche attimo di ritardo.
«Mio figlio, potresti essere mio figlio.»
«Non si è fatto niente», disse Benni, troppo piano perché la donna potesse sentirlo.

.2.

Lo sguardo del Bosoni emanava una specie di rabbia a bassa intensità diretta alla scatola cranica di Benni, che reagì col massimo della franchezza.
«È colpa mia. Avevo già preparato il pacco e la bolla di accompagnamento, però è rimasto tutto sotto il banco.»
Il Bosoni non sbatté neanche le palpebre. «Un albero a camme, Benni. Fosse stato un iniettore capirei. Ma un albero a camme.»
«Infatti, l’ho messo sotto il banco perché m’ingombrava. Poi me ne sono scordato. Un iniettore invece l’avrei tenuto sopra e quindi...» Gli occhi del Bosoni iniziarono a raggelarsi fino a trapassarlo. Benni preferì cedere le armi. «Con questo non voglio giustificare nulla.»
«Hai provato a chiamare il corriere?»
«Sì, non può ripassare. Sta già rientrando al deposito. Ha detto che lo prende col giro delle quattro.»
«No, è troppo tardi, lo vogliono entro l’ora di pranzo. Avevo dato la mia parola.»
«Guarda, lo porto io dal corriere. Ce la facciamo con la spedizione delle dieci. Sono le nove e venti, non c’è problema. In mezz’ora al massimo sono al deposito.»
Il Bosoni non rispose, sventolò una mano come a scacciare una nuvola di fumo e passò ad altro.
Dopo dieci minuti Benni percorreva il raccordo autostradale tentando di arginare il nervosismo. Era una bella giornata, chiara e asciutta. Malgrado il formicolio della fretta e la tensione riusciva a godersi l’aria incredula delle mattine fuori programma. Quella luce gli ricordava qualcosa di familiare che riconobbe subito, lo stesso senso di evasione effervescente di quando saltava la scuola. Venticinque anni prima, pensò con un brivido. Aveva sintonizzato l’autoradio sul programma che tenevano in sottofondo all’emporio, quello che tra un cliente al banco e una telefonata non riusciva mai ad ascoltare bene. La speaker parlava di cinema, musica e varia umanità con la leggerezza arguta di chi ne sa più di quante ne voglia dire, alternando classici e novità pop-rock di cui Benni non ricordava mai titoli e nomi. Non che gl’importasse più di tanto. La musica era stata al centro della sua vita fin da ragazzino ma con gli anni aveva finito per non darle troppo peso, neanche ricordava l’ultima volta che era entrato in un negozio di dischi. Erano altre ormai le faccende che gli ingombravano i pensieri. Sua figlia era ovviamente la prima. Subito dopo veniva il timore di poter perdere il posto di lavoro. La prospettiva lo riempiva di uno sconforto piatto e affannoso. Non riusciva a ipotizzare alternative, non s’immaginava capace di fare altro che l’impiegato all’Emporio dell’Auto Bosoni. Negli ultimi diciotto anni aveva messo a punto una condotta professionale standard, sfrondando tutto il non necessario, comprese le qualità. Gli era rimasto solo il tronco liscio e grigiastro dell’efficienza. Arrivare in orario. Rispondere. Organizzare. Risolvere. Con la dose di cortesia sufficiente a farla sembrare una forma di cordialità.
Galleggiava tra queste riflessioni opache quando la Seat blu che lo precedeva iniziò ad accostare gradualmente, quasi che lo invitasse a superarla. Benni si ricordò che poco più avanti c’era la colonna dell’autovelox e pensò che la Seat volesse semplicemente rallentare.
«Testa di cazzo», mormorò. «Ancora un po’ e ti fermi, porco cane.»
Guardò nello specchietto retrovisore e si spostò in corsia di sorpasso, attento a non oltrepassare il limite. La Seat procedeva alla stessa velocità, costeggiando la banchina, ma all’improvviso le ruote di destra uscirono dalla carreggiata intrappolandosi nella fossetta. Il pilota tentò di rientrare in strada con sterzate convulse, ma l’auto sembrava ormai sui binari. Benni vide gli pneumatici della Seat sollevare terra tentando inutilmente di mordere l’asfalto, e capì che era fuori controllo. Prima ci fu l’impatto col guard rail di protezione, poi con la torretta metallica dell’autovelox che fu sbalzata di un paio di metri dalla sede. La Seat si accartocciò, fece un balzo e ruotò sul proprio asse prima di piombare nel fosso, incastrandosi a testa in giù tra un faggio e il terrapieno.
Benni aveva osservato la scena come in trance. «Cazzo», sbottò, accorgendosi solo allora di averlo già detto un numero imprecisato di volte. Ebbe la presenza d’animo di non frenare. Proseguì compiendo una sterzata per evitare una tubatura metallica che saettò sull’asfalto. La marmitta, valutò con involontaria lucidità, oppure un supporto del guard rail. Accostò nella piazzola poco più avanti e respirò a fondo stringendo il volante.
Si riscosse con un brivido e mise in fila le azioni successive: il telefono, il 118, cercare l’indicazione del chilometro, non dimenticare il senso di marcia. Col telefono all’orecchio scese dall’auto e si avvicinò al luogo dello schianto oltrepassando l’autovelox abbattuto. L’operatore rispose e lui iniziò a comunicare i fatti e la posizione. Le domande arrivarono sistematiche: «quante persone ci sono nel veicolo? sono coscienti?» Benni osservò la Seat in bilico nella scarpata. Il pennacchio di vapore che esalava dal cofano gli procurò un’ondata di brividi alla base del collo. Non trovava il coraggio per calarsi e controllare. L’operatore ripeté la domanda: «riesce a dirmi quanti sono?» Il traffico si era fermato. Il silenzio era spazzolato dal rombo delle vetture che procedevano nell’altro senso di marcia. L’operatore continuava a chiedere con un tono più brusco: «Sono coscienti?» Benni restava aggrappato al guard rail, senza trovare il coraggio di muoversi.
«Non lo so.» Rispose. «Mi dispiace, non credo di farcela a...»
In quel momento un uomo raggiunse il luogo dell’impatto e si buttò nel fosso, alzando sbuffi di terra e sassi mentre scivolava sull’argine, aggrappandosi ai rami del faggio, al paraurti, poi allo specchietto laterale della Seat. Guardò all’interno dell’auto e urlò. «È una signora!»
«Una donna», disse Benni all’operatore.
«Sta battendo sul finestrino», gridò l’uomo. «La cintura la soffoca!»
Benni riferì all’operatore che rispose raccomandandosi di non toccarla, di non provare a farla uscire, era troppo rischioso per lei e per loro. Benni gridò di non fare nulla ma l’uomo aveva già aperto lo sportello, lavorava per liberare la donna dalla cintura di sicurezza e iniziava a estrarla dall’auto. Benni provò a farsi sentire sopra la concitazione montante, ma con sempre meno convinzione.
«Quelli del 118 hanno detto di lasciarla stare, è pericoloso!»
L’uomo gli dedicò un’occhiata sprezzante senza metterlo a fuoco e continuò ad armeggiare con la cintura di sicurezza. Benni osservava rapito, registrando a un qualche livello di consapevolezza le ultime parole dell’operatore che chiudeva la conversazione. Il corpo tozzo della donna scivolò fuori dall’auto come un fagotto aggrappandosi all’uomo che faceva perno con un piede sul tronco del faggio, serrando le labbra per lo sforzo. Benni si riscosse e si calò a sua volta, seguito da un tipo biondastro. I tre presero la signora per le spalle e le gambe. Il biondo imprecò in una lingua straniera facendosi paonazzo per lo sforzo, ma trovò la forza d’animo per incoraggiare Benni rivolgendogli un sorriso cameratesco. In qualche modo riuscirono a trascinarla su.
La donna faticava a stare in piedi. L’uomo che si era calato per primo la sosteneva con malcelata spavalderia. Come se fosse un trofeo, pensò Benni, lasciando che al fastidio si mescolasse un po’ di ammirazione. La fecero sedere sul gradino rialzato del cordolo. Benni non credeva ai propri occhi: le osservava il volto, i capelli, le braccia, le mani, le gambe. La donna era confusa e spaventata, ma illesa. L’esplosione dell’airbag le aveva lasciato chiazze rossastre su fronte e guance. Gli occhi sfrecciavano senza pace e si abbassavano schiacciati dalle ricadute del terrore. Farfugliava di essersi addormentata, si malediceva per non essersi fermata prima. Era stravolta, disorientata, esausta. Ma era illesa.
Benni guardò di nuovo l’auto. Gli ricordò la carcassa di una bestia in attesa del macello. Osservò l’accartocciamento violento del muso, la contorsione della lamiera del tetto e degli sportelli. Si spostò lungo il guard rail cambiando l’angolo di visuale per valutare la deformazione dell’abitacolo. Lo sportello era rimasto aperto. Notò gli airbag esplosi che pendevano flosci come uova schiuse di serpente.

.3.

Il dottore entrò nella stanza all’improvviso. Era un uomo alto, dalle spalle robuste, la calvizie luminosa e un’espressione indecifrabile. Ha la faccia di un prestigiatore, pensò Benni. Il dottore si presentò con un nome scivolato via subito, seguito dalla qualifica di primario dell’unità di medicina. Poi parlò col tono di chi è abituato a dire molte più cose di quelle che gli interlocutori riescono a comprendere.
«Lei è qui con noi, signor Stipoli, per una di quelle circostanze che i colleghi del pronto soccorso hanno definito miracolose. E pare proprio che non esagerino. Non solo per il fatto che lei sia vivo e, come si dice, lotta insieme a noi, ma anche in merito alla presenza in questo reparto. Lei è qui perché non ha avuto bisogno di andare da nessun’altra parte. A dire il vero, da un punto di vista medico non c’era neanche bisogno del ricovero, però non ricoverarla dopo quello che le è successo sarebbe stato davvero troppo. O, per meglio dire, troppo poco. Insomma, visto che in ortopedia come al solito c’è la ressa delle grandi occasioni e invece qui, miracolo per miracolo, avevamo una bella stanza libera, ecco spiegata la sua presenza in questo reparto. Dunque, Stipoli…» Il primario portò il pugno alle labbra e si schiarì rumorosamente la voce. «Mi scusi. Dicevo, lei non ha riportato alcuna ferita o ustione. Niente trauma cranico né fratture ossee. Gli organi vitali sono illesi. Giusto un ematoma alla tempia sinistra e un’escoriazione al gomito, sempre il sinistro. Roba da niente, ma visto lo stato di shock abbiamo comunque preferito trattenerla, farle una tac e qualche esame di routine, giusto per non stare con le mani in mano. Insomma, lei capisce quanto tutto ciò sia sorprendente. Ma la cosa davvero incredibile è un’altra.»
Il primario fece una pausa, schiarendosi di nuovo la voce. Poggiò una mano sulla pediera del letto e fissò Benni come se volesse radiografargli un tumore frontale con la sola forza dello sguardo.
«In tutto siete nove miracolati, usciti più o meno illesi da un incidente che persone abituate a vedere macelli di ogni tipo hanno definito con la seguente parola: spaventoso. Cinque mezzi coinvolti, un furgone e quattro automobili. Ribaltati. Schiacciati. Un’auto si è persino incendiata. Insomma, un gran casino. E nessuna vittima. Nessun ferito serio. Se queste parole la turbano me lo dica, smetto subito.»
«No, nessun problema. Continui...»



(...)


 

 



Stefano Solventi è nato nel 1969
a Poggibonsi, dove tutt’ora vive. Coltiva fin da ragazzino l’amore per la letteratura e la musica, ma non diventa né letterato né musicista. Dopo il diploma trova un impiego come procedurista informatico. Dal 2001 scrive recensioni, articoli e rubriche per le testate musicali Mucchio Selvaggio e www.sentireascoltare.com. Nel 2009 pubblica, per Odoya, "PJ Harvey - Musiche Maschere Vita", biografia critica della cantautrice britannica Polly Jean Harvey.

La meccanica delle ombre
è il suo primo romanzo.


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