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(Brano
tratto da "LEGGIMI NEI PENSIERI")
Raina
Sono andata avanti a morsi di adattabilità. Strofinandomi le spalle
ai muri per non disturbare e appiattendomi per ricevere il dovuto. Imparando
il silenzio e le fattezze degli altri affinché avessero uno specchio,
alloccorrenza.
Che è vero, che sopravvive chi si adatta, lo posso giurare ogni
giorno sulla mia vita.
Mai visto un animale mimetico da vicino, ma lo porto qui, sigillato sotto
la pelle: sono andata avanti solo così.
Sono
arrivata su un autobus bianco con una scritta rossa ripassata che, nella
mia lingua, dice Autolinee dellEst. Niente di più
comune, ma negli occhi rivolti contro di noi, durante le soste, leggevo
domande, ipotesi sul suo significato e soprattutto su che lingua fosse
e che Paese venisse a lasciare i suoi scarti di miseria che rende poco
e niente.
Lautobus Autolinee dellEst viaggiava molto lento,
per via del rimorchio con i bagagli di tutte le persone che arrivavano
per fermarsi parecchio; tutti poveri certo, ma la pancia del bus non bastava,
da solo, a contenere tanti ricordi e radici e pezzi di vite da trapiantare
così lontano.
Le mie cose finirono nel rimorchio e così quelle della donna che
avevo accanto, ma non cera un bambino con me che passasse tutto
il tempo del viaggio girato, a controllare che il loro passato non si
sganciasse e rimanesse indietro, lasciandoli senza storia e senza più
legami... non avevo nessun figlio che mi chiamasse a una responsabilità
nellimmediato futuro, che mi obbligasse a scavare la forza e le
risorse da dentro, perché fossero di conforto a un piccolo che
aveva il diritto di non ingoiare disperazione così presto.
La
miseria, di sicuro, quel bambino laveva già assaggiata tutta,
la sua amarezza forse no, perché quando si è in tanti, costretti
nelle medesime angustie, ci si sente meno sfortunati. Ancor più
se si è piccoli, e molto di quello che ai grandi manca da non poterne
più non può interessare.
Lacqua calda? Ma quale bambino, che non sia costretto, ama fare
più di un bagno la settimana? La casa scrostata di due stanze e
un letto da dividere in troppi? Da piccoli la solitudine raggela più
degli inverni che, comunque, si affrontano meglio riscaldandosi uno contro
laltro. Il forno elettrico, la lavatrice, la TV, i vestiti e le
scarpe nuove, la carne o la frutta fresca? Scompaiono se hai un bosco
in fondo alla strada, animali da cortile con cui giocare e insetti da
osservare, vecchi vagoni di treno abbandonati come terra di conquista,
calzoni già lisi che anche strofinandoli per terra non impressionano
nessuno con un rammendo in più.
Non è la miseria delladulto che quel bambino avrà
sofferto, io lo so bene, ma la rabbia dei suoi genitori, la furia e langoscia
di chi guarda a un altro mondo, a unaltra vita, offerta senza un
chiaro perché a chi si direbbe non la merita più, poiché
si è ingozzato fino a scoppiare e non vuole nessuno alla sua tavola,
neppure a raccogliere poche briciole.
Avrà imparato lodio diffuso che avvelena la sua casa e il
rancore per tutti coloro che usano il di-sprezzo come difesa dalla paura.
Sento che parlano di questo, anche se con molta minore quiescenza, due
ragazzi dietro di me, sul 7 che mi riporta sotto chiave. Non è
una prigione che mi sono meritata con le mie colpe, non è una prigione
il cui marchio di infamia resta incancellabile in qualsiasi parte del
mondo: è la vita a cui mi ha legata la miseria della nascita, la
condanna contro cui i ragazzi nel tram, la mamma e il suo bambino sulle
Autolinee dellEst, le compagne che ho appena salutato
in centro, le migliaia di vite in cerca di un futuro, oppongono se stessi,
ognuno a suo modo.
Sono
nata in assoluto pieno niente. In una piccolissima casa a un piano in
pietra calcarea, in un posto sperduto e semi disabitato, a poca distanza
da Burgàss sul Mar Nero. Era il 1970, solo due anni prima il regime
comunista aveva spazzato via la Primavera di Praga e partecipato
allinvasione della Cecoslovacchia.
Non che a noi bulgari arrivassero con dovizia di particolari queste notizie,
sapevamo della tensione politica dalle radio straniere o dalla voce sommessa
del popolo della città di Burgàss. Vivevamo isolati, e destinati
a ignorare la realtà, a patto di non possedere private ambizioni
di conoscenza e di partecipazione.
Il mio nome dice molto sulla mia famiglia: mi chiamo Raina come la grande
soprano bulgara, Raina Kabaivanska, nata a pochi chilometri dalla mia
casa, sulla strada senza un nome.
Mio padre era stato medico, prima di nascondersi in un rifugio dimenticato
a coltivare bietole da zucchero; mia madre aveva studiato come maestra
e il suo intimo impulso alleducazione lo ha espresso, finché
ha potuto, attraverso linsegnamento a noi figli, impartito con modalità
e tempi scolastici... La rivedo ancora arrabbiarsi se non facevamo progressi.
Mi
chiamo Raina non perché qualcuno dei miei genitori fosse un appassionato
cultore dellOpera, ma per la suggestione esercitata dalla figura
della Kabaivanska sulle vite di tutti i bulgari in possesso di una radio,
in particolar modo se nati nei pressi della sua città natale. Le
notizie sulla sua vita di esule vittoriosa, arrivavano di straforo dalle
radio estere e perlopiù dallItalia, dove aveva scelto di
stabilirsi.
Di sicuro, molti anni dopo, fu quellemozione a farmi decidere per
il tentare la sorte in Italia, quel ricordo familiare mi teneva più
attaccata alla mia storia.
A
casa non avevamo niente. Solo ora, però, posso dirlo, perché
quando vivi circondato dal nulla e non hai modo di conoscere altro, mai
arrivi a immaginare limmensità di ciò che non hai.
Non conosci ciò che ti manca e certamente non ne subisci loppressione,
né lansia febbrile di arrivare al quel possesso.
Prima della guerra del 41, papà era stato conosciuto in città
per le sue doti diagnostiche, aveva goduto del benessere, aveva viaggiato;
per questo, credo, non seppe adattarsi mai alla fine della sua professione
di medico e allesilio nei campi di barbabietole da zucchero. Fosse
stato solo sarebbe fuggito, ma la sua coscienza, iscritta nelle leggi
della fede ortodossa, non gli permise mai di abbandonarci neppure per
salvare la sua vita: fu stroncato a trentanove anni da un ictus, i cui
segni aveva letto in se stesso molto tempo prima che lo aggredisse la
morte.
Di fatto, il suo ritiro, prima dinanzi alla felicità e poi persino
alla lotta per la sopravvivenza, distrussero in me ogni remora. E ogni
passiva rinuncia a vivere soffocando lambizione a una buona vita,
questo nonostante gli sforzi in senso opposto di mia madre.
Seppi molto presto che mamma si era legata alla rassegnazione senza voltarsi
indietro, nellesatto momento in cui con papà avevano capito
che qualunque lotta, allora, era destinata alla rovina di chi la sollevava.
Il confino, lontano da ciò che non potevano vincere, era sembrato
a entrambi la sola via per restare uniti.
Non credevano più a un futuro diverso per noi e per il nostro popolo.
Tuttavia,
la brace di rabbia che respirava sommessa sotto la sua corazza mia madre
la usò per piegare, in ogni istante, noi figli allaccettazione
di tutto ciò che non capivamo o trovavamo ingiusto...
Se alloggi non le porto rancore, per una reazione così infelice
alle piaghe dellassenza di libertà e della miseria, è
perché una tale esperienza lho rigettata molto presto fino
a farmi sanguinare la gola.
Il solo insegnamento indelebile che posso recuperare dalla mia infanzia
è stato di piegare la testa, sempre, di fronte a qualunque volontà
che sia più forte della mia o che possa offrirmi una moneta più
alta. Tutto, nellattesa che il nemico sia stato conquistato dalla
lievità della sottomissione e dalla vanagloria per la sua forza
senza sostanza.
Saper capire, senza spazio allerrore, quando è arrivato quel
momento è arte. Perché allora hai vinto: puoi spogliare
delle armi il tuo nemico e avere soddisfazione ai tuoi desideri, semplicemente
usando le tessere di fiducia che, giorno dopo giorno, hai messe sul tuo
conto dei crediti.
Ogni sera penso a mia madre che è rimasta con mio fratello e mia
sorella nella nostra vecchia casa sul Mar Nero, incapace di rinunciare
alla sua inutile e drammatica stolidità.
Mi verrebbe di scriverle che in fondo sì, qualcosa della sua educazione
alla vita mi è rimasta, ed è che ci vuole tanta ma tanta
pazienza, e non per accettare quello che non vuoi, ma perché sia
tuo.
E che alle estreme conseguenze, la sopportazione del non voluto diventa
solo colpevole complicità e schiavitù senza futuro.
Per temperare lamarezza che provo, penso che non era questa lidea
di mia madre e che sperava di forzarci alla virtù della pazienza,
a fronte di qualsiasi diniego o sopraffazione perché fossimo più
forti e capaci di non disprezzare la vita... avendo nelle nostre doti
morali un inalienabile porto franco, trovando nellintimo quellassenza
di desideri che, dai suoi studi più amati, era lhumus della
pace.
A
ripensarla così suonerebbe meravigliosa a molti, lo so, ma comunque
non a chi, come me, non è nato per tali elevazioni e desidera che
la chiamata allesistenza sia altro da questo.
Dopo
il diploma da privatista andai via da casa. Mi trasferii a Sofia, dallaltra
parte del Paese, e cominciai a mettere distanza fra me e lisolamento
della casa vicino Burgàss. Mi iscrissi alla facoltà di Storia
perché volevo capire la verità su tutti i movimenti contemporanei
da cui, come popolo, eravamo rimasti per tanto tempo lontani e alloscuro.
Ma non avevo un soldo e non riuscivo a trovare lavoro.
Uno dei professori, con cui avevo seguito alcuni seminari, mi parlò
della possibilità di una borsa di studio a Bologna, in Italia.
Era una borsa a copertura assolutamente parziale - mi spiegò -
insufficiente per i bisogni di qualunque persona, pure se bulgara e abituata
dunque al poco.
Ricordo ancora quello che aggiunse in proposito
: «Esigenze che non immagini ti verranno quando sarai là.
Te lo garantisco.»
Per
ricompensarmi dellabnegazione mostrata nei suoi riguardi durante
il corso e per incoraggiare le capacità che aveva ravvisato in
me, si offrì di raccomandare la mia candidatura, ma mi invitò
anche a cercarmi un lavoro per quando fossi arrivata là.
Il
fatto che a Bologna vivesse da anni Raina Kabaivanska, mi apparve come
il segno del mio destino illuminato da un fascio di luce colorata: accettai
lofferta senza pensare e mi disposi a prepararmi a ciò che
sarebbe stata la mia vita, a partire da quel giorno, una volta sullautobus
Autolinee dellEst. Il tempo, daltronde, non mi
sarebbe mancato.
Oggi so che non immaginavo neppure quanto sarebbe stato duro resistere
al senso di sprofondamento, una volta sepolte le mie cose nel rimorchio
vacillante, e sentito accendersi il motore sotto di noi.
Mi sembrò a lungo che le mie sole speranze non bastassero ad alimentare
la motivazione a non voltarmi indietro.
Da
allora sono passati molti anni. Dopo i dodici mesi canonici coperti dalla
borsa di studio con cui ero partita, la ricerca in Università non
ebbe seguito per me: il mio Paese non aveva altri supporti da offrirmi
e, a Bologna, per sperare in una carriera di studi, avrei dovuto dimenticare
tutte quelle nuove esigenze che, come mi era stato preannunciato,
aggrediscono chi ha conosciuto, fino a quel momento, solo squallore e
miseria e a cui diventa rapidamente ingiusto rinunciare.
Tuttavia, a pensarci oggi, non erano le rinunce a pesarmi davvero ma il
fatto di dovermi consumare come una serva riconoscente su saggi firmati
da altri, magari per un rigo di ringraziamento a piè di pagina.
Vincere- nella migliore delle ipotesi, col tempo, a occhi
e mente ormai usurati - una paga da rimborso spese che mi avrebbe comunque
costretta la sera a svergognarmi servendo gli altri ricercatori in birreria.
E tutto, senza riuscire in ogni caso a soddisfare le mie nuove esigenze:
scarpe e borse che in Facoltà avessero una dignità.
Meglio
sparire senza lasciare tracce in universi fuori portata.
Ho
cambiato un numero infinito di lavori, in questi anni, ed è da
poco che faccio quello che qui permette di mettere da parte molto denaro
a patto di non avere una famiglia da mantenere al proprio Paese: mi occupo
di unanziana semi-paralizzata, prepotente e arrabbiatissima, che
mi odia.
Non mi sarei mai piegata a fare un lavoro così ingrato e soffocante
se avessi avuto qualcuno a casa a cui mandare tutto lo stipendio, non
potendo serbare che pochi spiccioli per me. Questa è la vita per
la maggior parte delle mie compagne che hanno dei figli, spesso piccoli...
a volte un marito, alcune anche i genitori vecchi e senza mezzi.
Ma io non ho rimorsi perché è stata mia madre a dirmi di
non scriverle più, quando ho deciso di andar via. è stato
troppo per lei, una figlia che, nonostante lirriducibilità
dei suoi sforzi, aveva recepito il suo messaggio al contrario.
Assistere
un anziano è devastante nella sua bruttezza.
Non hai un attimo di respiro. Non sei padrone di nulla, in una casa che
non accetta di accoglierti veramente, perché sei un imposizione
senza compromessi.
Hai poco cibo e scarsi minuti al giorno per sederti sul tuo letto, quando
non resisti e devi piangere.
Ti spezzi la schiena a sollevare corpi morti che si decompongono sotto
i tuoi occhi e non trovi solidarietà e comprensione in chi sente
moralmente il rimorso per lasciare a te quel peso, e che preferisce chiudere
gli occhi di fronte allorrore della morte che mangia a piccoli morsi.
Questi vecchi, in Italia, non ci vogliono.
Siamo intruse strozzine, occupiamo lo spazio sacro, che si vorrebbe intonso,
della fine della loro vita. Siamo aride mercenarie senza sentimenti, ricche
solo di avara cupidigia.
Io
non vedo che solitudini che si trovano a convivere nel silenzio, senza
nessuna emozione che si liberi e arrivi a tendere una mano.
La
mia docilità senza sentimentalismi, tuttavia, mi è servita
finora ad andare avanti e, stamattina, mi è sembrato che la signora
forse mi odiasse uninezia di meno.
In fin dei conti sono una che non sporca, non puzza, costa meno di altre,
occupa poco spazio, non infastidisce con richieste inopportune, provvede
da sola ai suoi bisogni e si accontenta degli avanzi della dispensa.
Tutto questo, in fin dei conti, per me ha un forte senso: fra non molti
anni ancora, questa pena mi consegnerà alla libertà, a qualcosa
di mio; il sogno è una piccola libreria, con tanti volumi di qualità,
impilati fino al cielo senza scaffali a ordinarne ardori e significati.
Magari a Sofia, dove sono stata per la prima volta felice.
Avrei solo voglia di ripeterlo a mia madre: la sopportazione del non voluto
diventa schiavitù che offende, se non vede la sponda della libertà
alla fine di tutto.
Mi
sono piegata a fare un lavoro che intuivo avrebbe velocemente annichilito
le mie forze morali, perché ogni altra opzione lavevo già
via via depennata nel mio diario immaginario delle possibilità
alternative. Con le paghe da cameriera nei pub o come mediatrice culturale
per il Comune, ad esempio, non ci mettevo insieme un affitto. E a vendere
qualsiasi cosa non sono mai stata capace, non riuscivo a essere convincente
perché la miseria mi ha fatta diventare spilorcia rispetto a qualunque
spesa che non sia più che ragionata, anche laddove superflua.
Come cassiera poi, ero ugualmente inadatta perché non sono brava
con i numeri e file di persone seriamente seccate si accumulavano solo
davanti alla mia cassa.
Insomma, non mi sarebbe restata che la prostituzione, ma da anni non sono
capace di sopportare padroni che non siano a più che breve scadenza.
Il
momento più dolce della mia settimana è la domenica. Mi
consola di ogni angoscia.
La domenica è il mio giorno franco: quando esco da quella casa
la mattina presto, cerco di non guardare la faccia odiosa di chi lascio
a bestemmiare nella peggiore delle rogne e mi sbatto tutto dietro le spalle.
Libera, cammino veloce con gli occhi aperti spalancati sulla vita intorno
a me, per la prima ora senza meta, senza fermarmi, estate e inverno, che
sia freddo o da sudare. Il sorriso me lo sento salire sulle labbra ed
è tanta la felicità che spalancherei le braccia a stringere
la bellezza del mondo là fuori, se non avessi un residuo di pudore
a trattenermi.
Poi raggiungo la casa di Stéphka e con lei prepariamo un pranzo
bulgaro memorabile, ogni domenica sembra sia il Natale o la Pasqua che
entrambe abbiamo avuto non più di due o tre volte nel nostro passato,
lì al nostro Paese. Lappartamento di Stéphka è
minuscolo e con pochi mobili, tutti vecchi e usurati, ma per me quella
casa ha il colore del giorno di raccolta delle barbabietole da zucchero;
lunico, in cui vedevo sui volti dei miei genitori il sorriso di
chi sa che, per un po, avrà respiro.
Il caffè lo prendiamo fuori casa, in centro. Assieme alle altre
compagne colonizziamo i tavolini allaperto di una piccola caffetteria
dove, sin dalla prima volta, non ci siamo sentite clienti poco desiderate.
Restiamo lì a lungo e, anche se è inverno, scegliamo di
stare fuori, limportante è che non piova: al freddo, abbiamo
tutte abituato negli anni la nostra pelle, e poi, qualunque parete ci
sembra insopportabile, dopo che le mura della settimana appena passata
hanno impedito la traspirazione di ogni slancio.
Parliamo di tutto, sono chiacchiere che volano lievi per la verità:
nessuna ha voglia di pensare alle sue pene, a quelle che porta silenziose
nellanima, a quelle di ogni giorno o dei cari che ha lontani.
Marìa fa ridere sempre tutte, lultima è del figlio
ottantenne della vecchia centenaria che le tocca rianimare: è impazzito
e dice che la vuole sposare.
Dopo la S. Messa a cui partecipiamo tutte, anche se molte fra noi prima
di conoscersi non ricordavano neppure le parole delle più comuni
preghiere, facciamo due passi. Ci accompagniamo con delicatezza, alla
fine della pace, con qualcosa di buono, di dolcissimo, che ci riscaldi
il petto, perché ormai è fatta e le nostre prigioni hanno
le porte aperte e sono lì ad aspettarci. Nel frattempo qualcuna
ha già ricevuto telefonate di sollecito.
I
primi tempi in Italia credevo che avrei trovato un marito qui, che mi
avrebbe amata e resa felice. Avrei così coronato di fiori il più
bel sogno mai fatto.
Non è mai accaduto nessun incontro che riuscisse a guardare dietro
le spoglie di una puttana o di una miserabile o di una arrampicatrice
pronta a succhiar sangue.
Per una strana forma di equità, tuttavia, così come non
mi è stata concessa alcuna speranza damore, neppure di sottrarla
ad altri: ecco che non ho mai avuto occasione di sperimentare sulluomo
la mia personale teoria di dominio attraverso il teatro dellarrendevolezza.
E in fin dei conti meglio così; occorre tanto, troppo tempo, un
vuoto a perdere, per me che penso al tempo solo come denaro.
Vivo
alla giornata e mi impegno a sopravvivere fino a quando non avrò
sulla mia carta prepagata abbastanza denaro per lasciare ogni peccato
e nascere finalmente a modo mio.
Intanto, prendo contatti, già da ora, per quando, a breve, sarò
di nuovo disoccupata.
Credo
solo in me stessa e, grazie al cielo, ci credo molto.
Il cuore sento che si ammorbidisce un po, e temo vacilli, in un
solo momento: apro gli occhi nel silenzio, ogni volta ore prima che sia
il momento, e immagino davanti a me il mondo.
Mi appare infinitamente bello, ogni cinismo è morto perché
so che è domenica.
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