i quaderni di Cico
 
 

 

 

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dal 10 marzo 2008 MARA VENUTO collabora con il programma di Maurizio Costanzo "Stella" e la sua redazione, collegandosi via webcam e interagendo con gli ospiti presenti in studio... se vuoi un accenno con Raiz, l'ex voce degli Almamegretta, oggi solista, clicca qui


leggi la recensione sulla carta stampata di Massimiliano Padula

leggi l'intervista a Mara Venuto by Giuseppe Iannozzi

leggi la recensione di arcilettore

titolo:LEGGIMI NEI PENSIERI (In 15. Donne, uomini, ragazzi, vecchi, una bambina: brainstorming in libertà)
collana i quaderni di Cico
autore Mara Venuto
ISBN 978-88-95106-16-8
© aprile 2008 - € 11,00 - pp. 121
in copertina,
“City” (china e collage su carta) di Claudia Venuto, elaborazione di Phab Postini


1. Sandra, una mamma giovane che desidererebbe non esserlo mai stata.
2. Fra' Giorgio, un frate semplice che vive nella pace.
3. Franco, poeta finito in strada.
4. Djionis, adolescente albanese nella sua nuova patria.
5. Santiago, violinista estatico ribattezzato ad una nuova fede.
6. Tati, un lungo, doloroso silenzio con il suo fratello gemello.
7. Ramòn, "furbetto del quartierino" in fuga nel circo.
8. Arianna, diciottenne già grande, pronta a iniziare lontano una nuova vita.
9. Matilde, una donna ormai anziana che ha avuto il suo riscatto.
10. Piero, studente fuori corso coca-dipendente.
11. Tommaso, adolescente impazzito per l'hip-hop.
12. Raina, badante bulgara senza più illusioni.
13. Carlotta, una bambina con un segreto.
14. Eugenio, un maturo omosessuale, nato senza coraggio.
15. Nina, la fine della vita con un amore nel cuore.

 

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e ascolta l'intervista a Mara Venuto su Radio Popolare Salento

 
 

Questa raccolta di "voci" è stata concepita per costituire un racconto corale di storie diverse, còlte, apparentemente a caso, nelle maglie della strada con, a fare da collante, solo l'appartenenza all'umanità più viva e contemporanea. Dice Mara Venuto: "Ho immaginato un respiro di riflessioni dei protagonisti sulle proprie vite e sulla propria storia, alla luce della quale dare una ragione al presente".

 

Questi racconti/monologhi di Mara Venuto sono semplicemente gente;
trasmettono la freschezza della presa diretta, vale a dire del tempo attuale comunque sia. Potranno essere letti fra dieci, venti o trent’anni e avranno sempre il valore umano e il fiato
della testimonianza: patrimonio universale e individuale allo stesso modo.

(Paolo West)

 

(Brano tratto da "LEGGIMI NEI PENSIERI")

Raina


Sono andata avanti a morsi di adattabilità. Strofinandomi le spalle ai muri per non disturbare e appiattendomi per ricevere il dovuto. Imparando il silenzio e le fattezze degli altri affinché avessero uno specchio, all’occorrenza.
Che è vero, che sopravvive chi si adatta, lo posso giurare ogni giorno sulla mia vita.
Mai visto un animale mimetico da vicino, ma lo porto qui, sigillato sotto la pelle: sono andata avanti solo così.

Sono arrivata su un autobus bianco con una scritta rossa ripassata che, nella mia lingua, dice “Autolinee dell’Est”. Niente di più comune, ma negli occhi rivolti contro di noi, durante le soste, leggevo domande, ipotesi sul suo significato e soprattutto su che lingua fosse e che Paese venisse a lasciare i suoi scarti di miseria che rende poco e niente.
L’autobus “Autolinee dell’Est” viaggiava molto lento, per via del rimorchio con i bagagli di tutte le persone che arrivavano per fermarsi parecchio; tutti poveri certo, ma la pancia del bus non bastava, da solo, a contenere tanti ricordi e radici e pezzi di vite da trapiantare così lontano.

Le mie cose finirono nel rimorchio e così quelle della donna che avevo accanto, ma non c’era un bambino con me che passasse tutto il tempo del viaggio girato, a controllare che il loro passato non si sganciasse e rimanesse indietro, lasciandoli senza storia e senza più legami... non avevo nessun figlio che mi chiamasse a una responsabilità nell’immediato futuro, che mi obbligasse a scavare la forza e le risorse da dentro, perché fossero di conforto a un piccolo che aveva il diritto di non ingoiare disperazione così presto.

La miseria, di sicuro, quel bambino l’aveva già assaggiata tutta, la sua amarezza forse no, perché quando si è in tanti, costretti nelle medesime angustie, ci si sente meno sfortunati. Ancor più se si è piccoli, e molto di quello che ai grandi manca da non poterne più non può interessare.
L’acqua calda? Ma quale bambino, che non sia costretto, ama fare più di un bagno la settimana? La casa scrostata di due stanze e un letto da dividere in troppi? Da piccoli la solitudine raggela più degli inverni che, comunque, si affrontano meglio riscaldandosi uno contro l’altro. Il forno elettrico, la lavatrice, la TV, i vestiti e le scarpe nuove, la carne o la frutta fresca? Scompaiono se hai un bosco in fondo alla strada, animali da cortile con cui giocare e insetti da osservare, vecchi vagoni di treno abbandonati come terra di conquista, calzoni già lisi che anche strofinandoli per terra non impressionano nessuno con un rammendo in più.
Non è la miseria dell’adulto che quel bambino avrà sofferto, io lo so bene, ma la rabbia dei suoi genitori, la furia e l’angoscia di chi guarda a un altro mondo, a un’altra vita, offerta senza un chiaro perché a chi si direbbe non la merita più, poiché si è ingozzato fino a scoppiare e non vuole nessuno alla sua tavola, neppure a raccogliere poche briciole.
Avrà imparato l’odio diffuso che avvelena la sua casa e il rancore per tutti coloro che usano il di-sprezzo come difesa dalla paura.

Sento che parlano di questo, anche se con molta minore quiescenza, due ragazzi dietro di me, sul 7 che mi riporta sotto chiave. Non è una prigione che mi sono meritata con le mie colpe, non è una prigione il cui marchio di infamia resta incancellabile in qualsiasi parte del mondo: è la vita a cui mi ha legata la miseria della nascita, la condanna contro cui i ragazzi nel tram, la mamma e il suo bambino sulle “Autolinee dell’Est”, le compagne che ho appena salutato in centro, le migliaia di vite in cerca di un futuro, oppongono se stessi, ognuno a suo modo.

Sono nata in assoluto pieno niente. In una piccolissima casa a un piano in pietra calcarea, in un posto sperduto e semi disabitato, a poca distanza da Burgàss sul Mar Nero. Era il 1970, solo due anni prima il regime comunista aveva spazzato via la “Primavera di Praga” e partecipato all’invasione della Cecoslovacchia.
Non che a noi bulgari arrivassero con dovizia di particolari queste notizie, sapevamo della tensione politica dalle radio straniere o dalla voce sommessa del popolo della città di Burgàss. Vivevamo isolati, e destinati a ignorare la realtà, a patto di non possedere private ambizioni di conoscenza e di partecipazione.

Il mio nome dice molto sulla mia famiglia: mi chiamo Raina come la grande soprano bulgara, Raina Kabaivanska, nata a pochi chilometri dalla mia casa, sulla strada senza un nome.
Mio padre era stato medico, prima di nascondersi in un rifugio dimenticato a coltivare bietole da zucchero; mia madre aveva studiato come maestra e il suo intimo impulso all’educazione lo ha espresso, finché ha potuto, attraverso l’insegnamento a noi figli, impartito con modalità e tempi scolastici... La rivedo ancora arrabbiarsi se non facevamo progressi.

Mi chiamo Raina non perché qualcuno dei miei genitori fosse un appassionato cultore dell’Opera, ma per la suggestione esercitata dalla figura della Kabaivanska sulle vite di tutti i bulgari in possesso di una radio, in particolar modo se nati nei pressi della sua città natale. Le notizie sulla sua vita di esule vittoriosa, arrivavano di straforo dalle radio estere e perlopiù dall’Italia, dove aveva scelto di stabilirsi.
Di sicuro, molti anni dopo, fu quell’emozione a farmi decidere per il tentare la sorte in Italia, quel ricordo familiare mi teneva più attaccata alla mia storia.

A casa non avevamo niente. Solo ora, però, posso dirlo, perché quando vivi circondato dal nulla e non hai modo di conoscere altro, mai arrivi a immaginare l’immensità di ciò che non hai. Non conosci ciò che ti manca e certamente non ne subisci l’oppressione, né l’ansia febbrile di arrivare al quel possesso.
Prima della guerra del ‘41, papà era stato conosciuto in città per le sue doti diagnostiche, aveva goduto del benessere, aveva viaggiato; per questo, credo, non seppe adattarsi mai alla fine della sua professione di medico e all’esilio nei campi di barbabietole da zucchero. Fosse stato solo sarebbe fuggito, ma la sua coscienza, iscritta nelle leggi della fede ortodossa, non gli permise mai di abbandonarci neppure per salvare la sua vita: fu stroncato a trentanove anni da un ictus, i cui segni aveva letto in se stesso molto tempo prima che lo aggredisse la morte.
Di fatto, il suo ritiro, prima dinanzi alla felicità e poi persino alla lotta per la sopravvivenza, distrussero in me ogni remora. E ogni passiva rinuncia a vivere soffocando l’ambizione a una buona vita, questo nonostante gli sforzi in senso opposto di mia madre.
Seppi molto presto che mamma si era legata alla rassegnazione senza voltarsi indietro, nell’esatto momento in cui con papà avevano capito che qualunque lotta, allora, era destinata alla rovina di chi la sollevava. Il confino, lontano da ciò che non potevano vincere, era sembrato a entrambi la sola via per restare uniti.
Non credevano più a un futuro diverso per noi e per il nostro popolo.

Tuttavia, la brace di rabbia che respirava sommessa sotto la sua corazza mia madre la usò per piegare, in ogni istante, noi figli all’accettazione di tutto ciò che non capivamo o trovavamo ingiusto...
Se all’oggi non le porto rancore, per una reazione così infelice alle piaghe dell’assenza di libertà e della miseria, è perché una tale esperienza l’ho rigettata molto presto fino a farmi sanguinare la gola.
Il solo insegnamento indelebile che posso recuperare dalla mia infanzia è stato di piegare la testa, sempre, di fronte a qualunque volontà che sia più forte della mia o che possa offrirmi una moneta più alta. Tutto, nell’attesa che il nemico sia stato conquistato dalla lievità della sottomissione e dalla vanagloria per la sua forza senza sostanza.
Saper capire, senza spazio all’errore, quando è arrivato quel momento è arte. Perché allora hai vinto: puoi spogliare delle armi il tuo nemico e avere soddisfazione ai tuoi desideri, semplicemente usando le tessere di fiducia che, giorno dopo giorno, hai messe sul tuo conto dei crediti.
Ogni sera penso a mia madre che è rimasta con mio fratello e mia sorella nella nostra vecchia casa sul Mar Nero, incapace di rinunciare alla sua inutile e drammatica stolidità.
Mi verrebbe di scriverle che in fondo sì, qualcosa della sua educazione alla vita mi è rimasta, ed è che ci vuole tanta ma tanta pazienza, e non per accettare quello che non vuoi, ma perché sia tuo.
E che alle estreme conseguenze, la sopportazione del non voluto diventa solo colpevole complicità e schiavitù senza futuro.
Per temperare l’amarezza che provo, penso che non era questa l’idea di mia madre e che sperava di forzarci alla virtù della pazienza, a fronte di qualsiasi diniego o sopraffazione perché fossimo più forti e capaci di non disprezzare la vita... avendo nelle nostre doti morali un inalienabile porto franco, trovando nell’intimo quell’assenza di desideri che, dai suoi studi più amati, era l’humus della pace.

A ripensarla così suonerebbe meravigliosa a molti, lo so, ma comunque non a chi, come me, non è nato per tali elevazioni e desidera che la chiamata all’esistenza sia altro da questo.

Dopo il diploma da privatista andai via da casa. Mi trasferii a Sofia, dall’altra parte del Paese, e cominciai a mettere distanza fra me e l’isolamento della casa vicino Burgàss. Mi iscrissi alla facoltà di Storia perché volevo capire la verità su tutti i movimenti contemporanei da cui, come popolo, eravamo rimasti per tanto tempo lontani e all’oscuro. Ma non avevo un soldo e non riuscivo a trovare lavoro.
Uno dei professori, con cui avevo seguito alcuni seminari, mi parlò della possibilità di una borsa di studio a Bologna, in Italia. Era una borsa a copertura assolutamente parziale - mi spiegò - insufficiente per i bisogni di qualunque persona, pure se bulgara e abituata dunque al poco.
Ricordo ancora quello che aggiunse in proposito
: «Esigenze che non immagini ti verranno quando sarai là. Te lo garantisco.»

Per ricompensarmi dell’abnegazione mostrata nei suoi riguardi durante il corso e per incoraggiare le capacità che aveva ravvisato in me, si offrì di raccomandare la mia candidatura, ma mi invitò anche a cercarmi un lavoro per quando fossi arrivata là.

Il fatto che a Bologna vivesse da anni Raina Kabaivanska, mi apparve come il segno del mio destino illuminato da un fascio di luce colorata: accettai l’offerta senza pensare e mi disposi a prepararmi a ciò che sarebbe stata la mia vita, a partire da quel giorno, una volta sull’autobus “Autolinee dell’Est”. Il tempo, d’altronde, non mi sarebbe mancato.
Oggi so che non immaginavo neppure quanto sarebbe stato duro resistere al senso di sprofondamento, una volta sepolte le mie cose nel rimorchio vacillante, e sentito accendersi il motore sotto di noi.
Mi sembrò a lungo che le mie sole speranze non bastassero ad alimentare la motivazione a non voltarmi indietro.

Da allora sono passati molti anni. Dopo i dodici mesi canonici coperti dalla borsa di studio con cui ero partita, la ricerca in Università non ebbe seguito per me: il mio Paese non aveva altri supporti da offrirmi e, a Bologna, per sperare in una carriera di studi, avrei dovuto dimenticare tutte quelle “nuove esigenze” che, come mi era stato preannunciato, aggrediscono chi ha conosciuto, fino a quel momento, solo squallore e miseria e a cui diventa rapidamente ingiusto rinunciare.
Tuttavia, a pensarci oggi, non erano le rinunce a pesarmi davvero ma il fatto di dovermi consumare come una serva riconoscente su saggi firmati da altri, magari per un rigo di ringraziamento a piè di pagina. “Vincere”- nella migliore delle ipotesi, col tempo, a occhi e mente ormai usurati - una paga da rimborso spese che mi avrebbe comunque costretta la sera a svergognarmi servendo gli altri ricercatori in birreria.
E tutto, senza riuscire in ogni caso a soddisfare le mie “nuove esigenze”: scarpe e borse che in Facoltà avessero una dignità.

Meglio sparire senza lasciare tracce in universi fuori portata.

Ho cambiato un numero infinito di lavori, in questi anni, ed è da poco che faccio quello che qui permette di mettere da parte molto denaro a patto di non avere una famiglia da mantenere al proprio Paese: mi occupo di un’anziana semi-paralizzata, prepotente e arrabbiatissima, che mi odia.
Non mi sarei mai piegata a fare un lavoro così ingrato e soffocante se avessi avuto qualcuno a casa a cui mandare tutto lo stipendio, non potendo serbare che pochi spiccioli per me. Questa è la vita per la maggior parte delle mie compagne che hanno dei figli, spesso piccoli... a volte un marito, alcune anche i genitori vecchi e senza mezzi.
Ma io non ho rimorsi perché è stata mia madre a dirmi di non scriverle più, quando ho deciso di andar via. è stato troppo per lei, una figlia che, nonostante l’irriducibilità dei suoi sforzi, aveva recepito il suo messaggio al contrario.

Assistere un anziano è devastante nella sua bruttezza.

Non hai un attimo di respiro. Non sei padrone di nulla, in una casa che non accetta di accoglierti veramente, perché sei un’ imposizione senza compromessi.
Hai poco cibo e scarsi minuti al giorno per sederti sul tuo letto, quando non resisti e devi piangere.
Ti spezzi la schiena a sollevare corpi morti che si decompongono sotto i tuoi occhi e non trovi solidarietà e comprensione in chi sente moralmente il rimorso per lasciare a te quel peso, e che preferisce chiudere gli occhi di fronte all’orrore della morte che mangia a piccoli morsi.
Questi vecchi, in Italia, non ci vogliono.
Siamo intruse strozzine, occupiamo lo spazio sacro, che si vorrebbe intonso, della fine della loro vita. Siamo aride mercenarie senza sentimenti, ricche solo di avara cupidigia.

Io non vedo che solitudini che si trovano a convivere nel silenzio, senza nessuna emozione che si liberi e arrivi a tendere una mano.

La mia docilità senza sentimentalismi, tuttavia, mi è servita finora ad andare avanti e, stamattina, mi è sembrato che la signora forse mi odiasse un’inezia di meno.
In fin dei conti sono una che non sporca, non puzza, costa meno di altre, occupa poco spazio, non infastidisce con richieste inopportune, provvede da sola ai suoi bisogni e si accontenta degli avanzi della dispensa.
Tutto questo, in fin dei conti, per me ha un forte senso: fra non molti anni ancora, questa pena mi consegnerà alla libertà, a qualcosa di mio; il sogno è una piccola libreria, con tanti volumi di qualità, impilati fino al cielo senza scaffali a ordinarne ardori e significati.
Magari a Sofia, dove sono stata per la prima volta felice.
Avrei solo voglia di ripeterlo a mia madre: la sopportazione del non voluto diventa schiavitù che offende, se non vede la sponda della libertà alla fine di tutto.

Mi sono piegata a fare un lavoro che intuivo avrebbe velocemente annichilito le mie forze morali, perché ogni altra opzione l’avevo già via via depennata nel mio diario immaginario delle possibilità alternative. Con le paghe da cameriera nei pub o come mediatrice culturale per il Comune, ad esempio, non ci mettevo insieme un affitto. E a vendere qualsiasi cosa non sono mai stata capace, non riuscivo a essere convincente perché la miseria mi ha fatta diventare spilorcia rispetto a qualunque spesa che non sia più che ragionata, anche laddove superflua.
Come cassiera poi, ero ugualmente inadatta perché non sono brava con i numeri e file di persone seriamente seccate si accumulavano solo davanti alla mia cassa.
Insomma, non mi sarebbe restata che la prostituzione, ma da anni non sono capace di sopportare padroni che non siano a più che breve scadenza.

Il momento più dolce della mia settimana è la domenica. Mi consola di ogni angoscia.
La domenica è il mio giorno franco: quando esco da quella casa la mattina presto, cerco di non guardare la faccia odiosa di chi lascio a bestemmiare nella peggiore delle rogne e mi sbatto tutto dietro le spalle.
Libera, cammino veloce con gli occhi aperti spalancati sulla vita intorno a me, per la prima ora senza meta, senza fermarmi, estate e inverno, che sia freddo o da sudare. Il sorriso me lo sento salire sulle labbra ed è tanta la felicità che spalancherei le braccia a stringere la bellezza del mondo là fuori, se non avessi un residuo di pudore a trattenermi.
Poi raggiungo la casa di Stéphka e con lei prepariamo un pranzo bulgaro memorabile, ogni domenica sembra sia il Natale o la Pasqua che entrambe abbiamo avuto non più di due o tre volte nel nostro passato, lì al nostro Paese. L’appartamento di Stéphka è minuscolo e con pochi mobili, tutti vecchi e usurati, ma per me quella casa ha il colore del giorno di raccolta delle barbabietole da zucchero; l’unico, in cui vedevo sui volti dei miei genitori il sorriso di chi sa che, per un po’, avrà respiro.
Il caffè lo prendiamo fuori casa, in centro. Assieme alle altre compagne colonizziamo i tavolini all’aperto di una piccola caffetteria dove, sin dalla prima volta, non ci siamo sentite clienti poco desiderate. Restiamo lì a lungo e, anche se è inverno, scegliamo di stare fuori, l’importante è che non piova: al freddo, abbiamo tutte abituato negli anni la nostra pelle, e poi, qualunque parete ci sembra insopportabile, dopo che le mura della settimana appena passata hanno impedito la traspirazione di ogni slancio.
Parliamo di tutto, sono chiacchiere che volano lievi per la verità: nessuna ha voglia di pensare alle sue pene, a quelle che porta silenziose nell’anima, a quelle di ogni giorno o dei cari che ha lontani.
Marìa fa ridere sempre tutte, l’ultima è del figlio ottantenne della vecchia centenaria che le tocca rianimare: è impazzito e dice che la vuole sposare.
Dopo la S. Messa a cui partecipiamo tutte, anche se molte fra noi prima di conoscersi non ricordavano neppure le parole delle più comuni preghiere, facciamo due passi. Ci accompagniamo con delicatezza, alla fine della pace, con qualcosa di buono, di dolcissimo, che ci riscaldi il petto, perché ormai è fatta e le nostre prigioni hanno le porte aperte e sono lì ad aspettarci. Nel frattempo qualcuna ha già ricevuto telefonate di sollecito.

I primi tempi in Italia credevo che avrei trovato un marito qui, che mi avrebbe amata e resa felice. Avrei così coronato di fiori il più bel sogno mai fatto.
Non è mai accaduto nessun incontro che riuscisse a guardare dietro le spoglie di una puttana o di una miserabile o di una arrampicatrice pronta a succhiar sangue.
Per una strana forma di equità, tuttavia, così come non mi è stata concessa alcuna speranza d’amore, neppure di sottrarla ad altri: ecco che non ho mai avuto occasione di sperimentare sull’uomo la mia personale teoria di dominio attraverso il “teatro” dell’arrendevolezza. E in fin dei conti meglio così; occorre tanto, troppo tempo, un vuoto a perdere, per me che penso al tempo solo come denaro.

Vivo alla giornata e mi impegno a sopravvivere fino a quando non avrò sulla mia carta prepagata abbastanza denaro per lasciare ogni peccato e nascere finalmente a modo mio.
Intanto, prendo contatti, già da ora, per quando, a breve, sarò di nuovo disoccupata.

Credo solo in me stessa e, grazie al cielo, ci credo molto.
Il cuore sento che si ammorbidisce un po’, e temo vacilli, in un solo momento: apro gli occhi nel silenzio, ogni volta ore prima che sia il momento, e immagino davanti a me il mondo.
Mi appare infinitamente bello, ogni cinismo è morto perché so che è domenica.

 

 

Mara Antonia Venuto è nata nel marzo del 1978. Vive a sud.
Per studio e professione è abituata ad ascoltare. Le viene molto difficile, perciò, parlare di sé. Ama i film a episodi. Legge di tutto; in particolare i romanzi non gialli di Simenon e, dopo anni di letteratura sudamericana, la linearità e gli accenni silenziosi degli scrittori giapponesi.
Sta lavorando al suo primo romanzo e alla sceneggiatura di una graphic novel. Il suo luogo internet è
www.ilblorumdimara.blogspot.com.