i quaderni di Cico
 
 

 

 

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... e di Michele Lazzerini, leggi anche ROSSO TAMIGI e COMARMO

 

titolo "Grande amore cercasi"
collana i quaderni di Cico
autore Michele Lazzerini
ISBN 978-88-95106-76-2
- € 13,00 - pp. 263 - in copertina, "Madrid", olio su tela di
Andrea Tarli


 

La Piazza Alberica a Carrara è sede degli alberghi, dei loggiati, dimora di attività artigianali e commerciali e luogo del grande mercato del lunedì da cui partono strade, vicoli, scalinate che portano ovunque in città e attraverso le porte, i ponti e i sagrati delle chiese si può incontrare tutto il bene e tutto il male del mondo.

Questi racconti ne sono integralmente parte.

 

 

 


 
 

 

"In questi racconti ce n'è per una vita, sono racconti di prim'ordine: andranno avanti a lungo; passeranno di mano in mano perché sono racconti pregni, che raccontano la vita dalla strada e dalle suole delle scarpe e dalle facce e dalle voci e fino in casa fra le mani e fra le gambe della gente, passando per ogni buco compreso quello della serratura; così per questo motivo sono fra quei racconti politico/sentimentali che si dicono anche romantici e che non moriranno mai." (Paolo West)

 

 

qui di seguito i titoli dei racconti:

Per buona condotta
Terra Promessa… a un Socialista Sentimentale
Spaghetti alla Yves
Ranieri e il Paradiso
Il sorriso di Piera
La donna di Bianca
Un Uomo da Terza Pagina
Netturbina per Amore
Grande Amore Cercasi

 

 

 

Brano tratto da Grande amore cercasi (racconti)

(...)

Per buona condotta

Buona condotta. Sono quasi un uomo libero, ma non mi emoziona. Per buona condotta mi hanno trovato un lavoro e mi si permette di uscire: per ritrovare un mio spazio nella società civile, spiegano. Dormo dentro e vivo fuori tra la gente onesta, quella che non frega il prossimo e con le regole di questo mondo ci fa i conti tutti i giorni. Non sono tra coloro che si pensano vittime del sistema; anche perché, nonostante siano trascorsi vent’anni, non cambierei una virgola del mio passato; salvo l’epilogo, ovviamente. Lavoro nel sociale. Fa parte di una certa mentalità ritenere che un detenuto si redima occupandosi del prossimo. I tossici, gli alcolisti, le donne in difficoltà; e altre categorie a cui offro la mia sensibilità deviata. Mi hanno fatto studiare e ora la mia specializzazione in sociologia fa sì che io sia l’elemento su cui puntare, nel ramo dei comportamenti devianti da ultimo stadio, da ultima spiaggia. Perché ne so qualcosa.
Eppure non sarebbe dovuta finire così. Ho vissuto un’infanzia tranquilla, assieme a genitori astemi, le cui regole del gioco rispecchiavano quelle solite delle famiglie medio borghesi; e tra queste c’era la cura degli status simbols. Insomma, avevo la tata. Una ragazza di circa vent’anni di cui ricordo il biondo ibrido dei capelli, il sudore delle ascelle e il ciabattare degli zoccoli dal tacco logoro, che di solito lasciava persi per il pavimento quando approfittava dell’assenza dei miei e si faceva sbattere da imberbi bellimbusti, sulla poltrona di mio padre. Da sotto mi strizzava l’occhio e comprava il mio silenzio con uno sguardo d’intesa; quasi che tra noi potesse esserci una qualche moneta di scambio e io potessi trarre in qualche modo vantaggio dalla mia complicità.
Sono stato un bambino per bene, ben educato e diligente; e uno scolaro attento, anche se poco portato per le scienze e la matematica al contrario dei miei compagni di trent’anni fa. Non ho preso il vizio del fumo eppure, coi dodici anni, tutti ci provano e lo feci anch’io. È l’età in cui il pacchetto da dieci si compra in società e non lo si porta a casa; lo si nasconde in qualche anfratto segreto che soltanto quelli della banda sanno ritrovare; l’anno successivo la sigaretta era per me solamente un ricordo.
Conobbi presto il dolore del lutto. Fu mia madre a morire a causa di un morbo le cui origini non sono state mai spiegate; si chiamava Ginetta. Non voleva essere un diminutivo ma un nome vero: registrato all’anagrafe per volontà di mia nonna la quale, quando mia madre nacque, ne volle sottolineare l’aspetto minuto, da piccola Gina.
Ho amato i miei luoghi da subito. È come un abbraccio tra me e le Apuane e spero, un giorno, di morirvi ai piedi. È singolare il legame esistente tra noi concittadini e può risultare strano come si possano condividere umori tanto simili tra individui tanto differenti. Eppure, borghesi o proletari, analfabeti o dotti, condividiamo il privilegio di sentirci uomini di frontiera.
La mia è… una storia di frontiera.
Era un’estate infuocata. Il catrame dell’asfalto bolliva e gli odori lasciati dal mercato del pesce risuonavano del vociare di donne, di contrattazioni alla lira, di grida lasciate a mezz’aria a cui nessuno aveva prestato attenzione. I ragazzini attendevano le quattro del pomeriggio per ritrovarsi al duomo con le loro scatole colme di tappi di bottiglia e i lunghi gradoni della chiesa parevano fatti apposta per infinite corse all’ultimo tappo.
Il sole spaccava i vicoli in due e ogni tanto passava qualcuno. In lontananza la voce di Claudio Villa, forse la sua imitazione, che intonava Granada e nel fresco di una cantina c’era chi fischiettava la marsigliese. Le quattro e mezza.
Indugiavo lungo via Plebiscito, con le mani in tasca e il passo lento. La barba di due giorni brillava di sudore così come la fronte, corrucciata e pensierosa, mentre guardavo in basso l’avanzare dei miei passi. In piazza Accademia mi fermai. È un luogo in pendenza, lastricato di marmo, con al centro un Giuseppe Mazzini incredibilmente eretto, no-nostante il dislivello.
In questa città ogni strada è in pendenza. E allora avrei potuto risalire via Verdi e farla finita con quell’idea e magari un bicchiere di rosso bevuto sotto un pergolato di mia conoscenza mi avrebbe dato una mano a far decantare quel pensiero che da tempo, ormai, era come un’ossessione.
Ma il clacson di una macchina mi fece sobbalzare e così, senza pensarci, invece di salire scesi fin laggiù in piazza Alberica. Era vuota; io e un vecchio cane con la coda rattoppata da un’anima buona, a patire la canicola sotto la statua di Beatrice D’este. Ma sì! decisi.
L’avevo presa alla larga per dare l’idea di capitare per caso: non da fuor di porta verso via Apuana ma per via Rosselli, girando attorno al teatro Animosi. Già, il teatro: in fondo, non sarebbe stata troppo balzana quell’idea che avevo da bambino, di diventare un grande attore. Mio padre mi avrebbe voluto invece laureato e al suo fianco in qualche epica battaglia in tribunale; che pena il giorno in cui dovette difendere me.
Mi ero messo sull’argine del Carrione, proprio dove il torrente incrocia le acque montane del Gragnana; guardavo diritto. Il profilo del ponte mi sfiorava la punta del naso e più avanti, lungo la corrente, scorrevano le facciate dalle finestre socchiuse e sullo sfondo si riconosceva il bianco delle nostre alpi; come una lingua, una candida colata avvinta al monte in eterno.
Credo ci sia ancora quell’ alberghetto lì nei dintorni; ho sempre immaginato incontri clandestini dietro quegli sporti dall’aria ruffiana, consumati in fretta e furia e poi, ognuno a “cà soa”.
Passò Altiero. Se non si fosse fermato proprio lì, con quell’aria impaziente e guardinga di chi attende qualcuno, sperando di non esser notato, non vi avrei fatto caso. In gioventù era stato un discreto mediano, di quelli tutti cuore e polmoni, che se non fosse stato per la mancanza di temperamento di sicuro avrebbe fatto carriera; dai dilettanti sfiorò la serie C e poi era scomparso, per sposarsi suppongo.
Aveva messo il cappello di paglia, gli occhiali scuri anni cinquanta e un abito nostalgico, con la giacca a sei bottoni e i pantaloni dall’orlo corto; calzava delle moderne scarpe a punta col tacco alto e a me vennero in mente il Texas, Il gigante e i pozzi di petrolio; chissà quale profumo, pensai. Finalmente giunse Dina; non fu una sorpresa per me. Esistevano almeno settanta probabilità su cento che Altiero stesse aspettando lei, la mitica signora Dina. Le avevano dedicato definizioni banali, quegli epiteti scurrili non riportati dai vocabolari ma poi, alla fine, non c’era maschio nel quartiere che non la desiderasse. Possedeva un’andatura ancheggiante, da rivista, e un petto superbo, da accademia oserei dire; e parlo di belle arti. Completano la descrizione gli occhioni verdi e tutto il resto; ma solo quella cosa turbava il sonno agli uomini che la conoscevano, non poteva essere altrimenti. Adesso non rammento di preciso il colore dell’abitino succinto da lei indossato ma, nella circostanza, si trattava di un particolare del tutto trascurabile rispetto alla magnanima copiosità di tanta presenza. Eppure persi il filo. Spero per Altiero che il suo pomeriggio abbia avuto l’epilogo sperato e non ho motivo di dubitarne; il fatto è che io guardavo da un’altra parte.
Tenevo d’occhio una finestra e quel portone da dove speravo uscisse l’oggetto del mio desiderio, la causa dei miei tormenti, di quella sporca impudicizia alla quale mi era impossibile sfuggire.
Il letto del Carrione stentava a colmarsi e gli argini si facevano via via gialli di fango e marmettola; ogni tanto un gatto, ogni tanto un topo; ogni tanto la coda di un animale in fuga tra i canneti.
Dalle ringhiere rugginose dei terrazzini che danno sul torrente cala a volte una scaletta di marmo invecchiato e s’interrompe a mezz’aria senza un perché. E nessuno sulla soglia di quel portone.
La finestra sopra era di un bianco screpolato dal profilo discontinuo e il legno lo si poteva immaginare cotto, qua e là vessato; era chiusa, niente tende.
In cosa speravo: in un cenno, in un sorriso? Credo che certe creature non sorridano mai. Possiedono invece uno sguardo amaro, che le fa uguali l’una all’altra ed è questo marchio che le rende desiderabili agli occhi della perversione. L’avevo intravista per caso il mattino di una domenica di pioggia, mentre visitavo piazza d’Armi con l’occhio pigro del residente. Era un gocciare lento e paziente e io passeggiavo con l’ombrello aperto inclinato sulla spalla. Peregrino Rossi mi guardava dal suo scranno e io indugiai sotto il suo piedone bianco, per godermi la solitudine di quel frangente. Proprio al mio fianco una piccola porzione di giardino, dove scoprii un busto accigliato di cui non possiedo memoria storica, così come mi è sconosciuto l’autore dell’opera lì nascosta all’ombra di un vecchio albero: una donna, credo assente e dal piglio sacerdotale, e ai suoi piedi la sofferenza tutta umana di un uomo seminudo.
Cic ciac, i passi di una guardia e quelli di un viandante; cic ciac, il passo di un capofamiglia con in mano la pasticceria; cic ciac…
Camminava Creatura a testa china con le punte dei capelli neri che ballonzolavano sul naso. Il passo svelto, la figura magra, l’ombra delle mammelle appena accennata sotto la camicetta; veniva da dove… e dove andava mi chiedevo mentre, con fare discretamente ambiguo, le stavo dietro.
Scomparve in quel portone e subito venne alla finestra; non so dire se fosse arrabbiata, se l’avesse con me, oppure se contasse sulla mia presenza lì sotto casa sua con lo sguardo puntato in direzione del terzo piano. Poi scomparve ancora. Tornai ogni giorno, ma non rividi più il cuore imbronciato delle sue labbra al di là del vetro; e anche questa volta per sperare in qualcosa non c’era motivo. Cinque minuti ancora e me ne sarei andato; ma eccola che esce. Sa che ci sono ma non mi guarda e io non so che fare. Sono consapevole di dover agire però la sorpresa mi bloccava, quasi fossi spaventato dalle sue intenzioni. E poi era strano quell’abbigliamento col caldo di quel giorno e allora un pensiero nascosto si fece coscienza, sgombrando ogni dubbio; ancora la seguii.
Trascinava piano gli zoccoli dalla fibbia rossa, tenendo un’andatura che le permettesse di procedere sola; ma io non avrei potuto perderla di vista. Ogni tanto mi fermavo, lasciavo che mi desse una ventina di metri e ripartivo; e lei ogni tanto si voltava per tenere d’occhio la strada e s’ero indietro rallentava e se incrociava il mio sguardo riprendeva tranquilla la sua via.
Superammo la Lugnola seguendo la Carriona alla ricerca di un riparo.
Una stradina laterale ci condusse in quella zona appartata tra i laboratori e le segherie, in un deposito dove riposavano lastre dal primo taglio grossolano assieme agli scarti di lavorazione, ai blocchi in attesa di acquirenti. La persi lì.
I raggi di sole rimbalzavano sulle scaglie bianche e sparse ovunque; ce n’erano tra i tralicci adagiati a terra sopra le ortiche e tra le rotaie di quella che fu la ferrovia marmifera.
Era come nascondino o, forse, come un preludio… assassino?
La ritrovai più avanti; all’ombra di un blocco. Le spalle nude, il collo, il viso roseo come un bocciolo di velluto; i capezzoli. Quello spolverino che avevo capito nascondere la sua nudità si reggeva ormai su un solo bottone dal filo lento. Lo sguardo spento, mi attendeva.
Allungai una mano e le toccai la fronte: non sudava. Le feci una carezza sul pulsare della tempia. Sopra le labbra un’ombra lieve, i capelli neri accavallati sulle orecchie, il fresco contatto delle sue braccia; la strinsi a me. Fu come abbracciare una figlia perduta e ritrovata.

(...)


 

 


Michele Lazzerini è nato nel 1963 a Carrara. Scrive praticamente da sempre. Dalla sua prima Lettera numero… non ricorda quale. In realtà era la portatile Olivetti di sua madre, che utilizzava a dieci anni per sceneggiare tanto improbabili quanto infantili duelli metropolitani. Da allora non ha più smesso. Ha partecipato a un numero esorbitante di premi e concorsi letterari, sin quando ha capito che la moglie aveva tutta l'intenzione di presentare lo sfratto a lui e a tutto il bar sport di coppe e trofei con cui le ha riempito la casa. Oltre ai racconti contenuti in questo libro, e ad altri non pubblicati, ha scritto e pubblicato i romanzi “
Rosso Tamigi” (Cicorivolta 2011) e Comarmo (Cicorivolta 2012).