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Brano
tratto da Grande
amore cercasi (racconti)
(...)
Per
buona condotta
Buona condotta.
Sono quasi un uomo libero, ma non mi emoziona. Per buona condotta mi hanno
trovato un lavoro e mi si permette di uscire: per ritrovare un mio spazio
nella società civile, spiegano. Dormo dentro e vivo fuori tra la
gente onesta, quella che non frega il prossimo e con le regole di questo
mondo ci fa i conti tutti i giorni. Non sono tra coloro che si pensano
vittime del sistema; anche perché, nonostante siano trascorsi ventanni,
non cambierei una virgola del mio passato; salvo lepilogo, ovviamente.
Lavoro nel sociale. Fa parte di una certa mentalità ritenere che
un detenuto si redima occupandosi del prossimo. I tossici, gli alcolisti,
le donne in difficoltà; e altre categorie a cui offro la mia sensibilità
deviata. Mi hanno fatto studiare e ora la mia specializzazione in sociologia
fa sì che io sia lelemento su cui puntare, nel ramo dei comportamenti
devianti da ultimo stadio, da ultima spiaggia. Perché ne so qualcosa.
Eppure non sarebbe dovuta finire così. Ho vissuto uninfanzia
tranquilla, assieme a genitori astemi, le cui regole del gioco rispecchiavano
quelle solite delle famiglie medio borghesi; e tra queste cera la
cura degli status simbols. Insomma, avevo la tata. Una ragazza di circa
ventanni di cui ricordo il biondo ibrido dei capelli, il sudore
delle ascelle e il ciabattare degli zoccoli dal tacco logoro, che di solito
lasciava persi per il pavimento quando approfittava dellassenza
dei miei e si faceva sbattere da imberbi bellimbusti, sulla poltrona di
mio padre. Da sotto mi strizzava locchio e comprava il mio silenzio
con uno sguardo dintesa; quasi che tra noi potesse esserci una qualche
moneta di scambio e io potessi trarre in qualche modo vantaggio dalla
mia complicità.
Sono stato un bambino per bene, ben educato e diligente; e uno scolaro
attento, anche se poco portato per le scienze e la matematica al contrario
dei miei compagni di trentanni fa. Non ho preso il vizio del fumo
eppure, coi dodici anni, tutti ci provano e lo feci anchio. È
letà in cui il pacchetto da dieci si compra in società
e non lo si porta a casa; lo si nasconde in qualche anfratto segreto che
soltanto quelli della banda sanno ritrovare; lanno successivo la
sigaretta era per me solamente un ricordo.
Conobbi presto il dolore del lutto. Fu mia madre a morire a causa di un
morbo le cui origini non sono state mai spiegate; si chiamava Ginetta.
Non voleva essere un diminutivo ma un nome vero: registrato allanagrafe
per volontà di mia nonna la quale, quando mia madre nacque, ne
volle sottolineare laspetto minuto, da piccola Gina.
Ho amato i miei luoghi da subito. È come un abbraccio tra me e
le Apuane e spero, un giorno, di morirvi ai piedi. È singolare
il legame esistente tra noi concittadini e può risultare strano
come si possano condividere umori tanto simili tra individui tanto differenti.
Eppure, borghesi o proletari, analfabeti o dotti, condividiamo il privilegio
di sentirci uomini di frontiera.
La mia è
una storia di frontiera.
Era unestate infuocata. Il catrame dellasfalto bolliva e gli
odori lasciati dal mercato del pesce risuonavano del vociare di donne,
di contrattazioni alla lira, di grida lasciate a mezzaria a cui
nessuno aveva prestato attenzione. I ragazzini attendevano le quattro
del pomeriggio per ritrovarsi al duomo con le loro scatole colme di tappi
di bottiglia e i lunghi gradoni della chiesa parevano fatti apposta per
infinite corse allultimo tappo.
Il sole spaccava i vicoli in due e ogni tanto passava qualcuno. In lontananza
la voce di Claudio Villa, forse la sua imitazione, che intonava Granada
e nel fresco di una cantina cera chi fischiettava la marsigliese.
Le quattro e mezza.
Indugiavo lungo via Plebiscito, con le mani in tasca e il passo lento.
La barba di due giorni brillava di sudore così come la fronte,
corrucciata e pensierosa, mentre guardavo in basso lavanzare dei
miei passi. In piazza Accademia mi fermai. È un luogo in pendenza,
lastricato di marmo, con al centro un Giuseppe Mazzini incredibilmente
eretto, no-nostante il dislivello.
In questa città ogni strada è in pendenza. E allora avrei
potuto risalire via Verdi e farla finita con quellidea e magari
un bicchiere di rosso bevuto sotto un pergolato di mia conoscenza mi avrebbe
dato una mano a far decantare quel pensiero che da tempo, ormai, era come
unossessione.
Ma il clacson di una macchina mi fece sobbalzare e così, senza
pensarci, invece di salire scesi fin laggiù in piazza Alberica.
Era vuota; io e un vecchio cane con la coda rattoppata da unanima
buona, a patire la canicola sotto la statua di Beatrice Deste. Ma
sì! decisi.
Lavevo presa alla larga per dare lidea di capitare per caso:
non da fuor di porta verso via Apuana ma per via Rosselli, girando attorno
al teatro Animosi. Già, il teatro: in fondo, non sarebbe stata
troppo balzana quellidea che avevo da bambino, di diventare un grande
attore. Mio padre mi avrebbe voluto invece laureato e al suo fianco in
qualche epica battaglia in tribunale; che pena il giorno in cui dovette
difendere me.
Mi ero messo sullargine del Carrione, proprio dove il torrente incrocia
le acque montane del Gragnana; guardavo diritto. Il profilo del ponte
mi sfiorava la punta del naso e più avanti, lungo la corrente,
scorrevano le facciate dalle finestre socchiuse e sullo sfondo si riconosceva
il bianco delle nostre alpi; come una lingua, una candida colata avvinta
al monte in eterno.
Credo ci sia ancora quell alberghetto lì nei dintorni; ho
sempre immaginato incontri clandestini dietro quegli sporti dallaria
ruffiana, consumati in fretta e furia e poi, ognuno a cà
soa.
Passò Altiero. Se non si fosse fermato proprio lì, con quellaria
impaziente e guardinga di chi attende qualcuno, sperando di non esser
notato, non vi avrei fatto caso. In gioventù era stato un discreto
mediano, di quelli tutti cuore e polmoni, che se non fosse stato per la
mancanza di temperamento di sicuro avrebbe fatto carriera; dai dilettanti
sfiorò la serie C e poi era scomparso, per sposarsi suppongo.
Aveva messo il cappello di paglia, gli occhiali scuri anni cinquanta e
un abito nostalgico, con la giacca a sei bottoni e i pantaloni dallorlo
corto; calzava delle moderne scarpe a punta col tacco alto e a me vennero
in mente il Texas, Il gigante e i pozzi di petrolio; chissà quale
profumo, pensai. Finalmente giunse Dina; non fu una sorpresa per me. Esistevano
almeno settanta probabilità su cento che Altiero stesse aspettando
lei, la mitica signora Dina. Le avevano dedicato definizioni banali, quegli
epiteti scurrili non riportati dai vocabolari ma poi, alla fine, non cera
maschio nel quartiere che non la desiderasse. Possedeva unandatura
ancheggiante, da rivista, e un petto superbo, da accademia oserei dire;
e parlo di belle arti. Completano la descrizione gli occhioni verdi e
tutto il resto; ma solo quella cosa turbava il sonno agli uomini che la
conoscevano, non poteva essere altrimenti. Adesso non rammento di preciso
il colore dellabitino succinto da lei indossato ma, nella circostanza,
si trattava di un particolare del tutto trascurabile rispetto alla magnanima
copiosità di tanta presenza. Eppure persi il filo. Spero per Altiero
che il suo pomeriggio abbia avuto lepilogo sperato e non ho motivo
di dubitarne; il fatto è che io guardavo da unaltra parte.
Tenevo docchio una finestra e quel portone da dove speravo uscisse
loggetto del mio desiderio, la causa dei miei tormenti, di quella
sporca impudicizia alla quale mi era impossibile sfuggire.
Il letto del Carrione stentava a colmarsi e gli argini si facevano via
via gialli di fango e marmettola; ogni tanto un gatto, ogni tanto un topo;
ogni tanto la coda di un animale in fuga tra i canneti.
Dalle ringhiere rugginose dei terrazzini che danno sul torrente cala a
volte una scaletta di marmo invecchiato e sinterrompe a mezzaria
senza un perché. E nessuno sulla soglia di quel portone.
La finestra sopra era di un bianco screpolato dal profilo discontinuo
e il legno lo si poteva immaginare cotto, qua e là vessato; era
chiusa, niente tende.
In cosa speravo: in un cenno, in un sorriso? Credo che certe creature
non sorridano mai. Possiedono invece uno sguardo amaro, che le fa uguali
luna allaltra ed è questo marchio che le rende desiderabili
agli occhi della perversione. Lavevo intravista per caso il mattino
di una domenica di pioggia, mentre visitavo piazza dArmi con locchio
pigro del residente. Era un gocciare lento e paziente e io passeggiavo
con lombrello aperto inclinato sulla spalla. Peregrino Rossi mi
guardava dal suo scranno e io indugiai sotto il suo piedone bianco, per
godermi la solitudine di quel frangente. Proprio al mio fianco una piccola
porzione di giardino, dove scoprii un busto accigliato di cui non possiedo
memoria storica, così come mi è sconosciuto lautore
dellopera lì nascosta allombra di un vecchio albero:
una donna, credo assente e dal piglio sacerdotale, e ai suoi piedi la
sofferenza tutta umana di un uomo seminudo.
Cic ciac, i passi di una guardia e quelli di un viandante; cic ciac, il
passo di un capofamiglia con in mano la pasticceria; cic ciac
Camminava Creatura a testa china con le punte dei capelli neri che ballonzolavano
sul naso. Il passo svelto, la figura magra, lombra delle mammelle
appena accennata sotto la camicetta; veniva da dove
e dove andava
mi chiedevo mentre, con fare discretamente ambiguo, le stavo dietro.
Scomparve in quel portone e subito venne alla finestra; non so dire se
fosse arrabbiata, se lavesse con me, oppure se contasse sulla mia
presenza lì sotto casa sua con lo sguardo puntato in direzione
del terzo piano. Poi scomparve ancora. Tornai ogni giorno, ma non rividi
più il cuore imbronciato delle sue labbra al di là del vetro;
e anche questa volta per sperare in qualcosa non cera motivo. Cinque
minuti ancora e me ne sarei andato; ma eccola che esce. Sa che ci sono
ma non mi guarda e io non so che fare. Sono consapevole di dover agire
però la sorpresa mi bloccava, quasi fossi spaventato dalle sue
intenzioni. E poi era strano quellabbigliamento col caldo di quel
giorno e allora un pensiero nascosto si fece coscienza, sgombrando ogni
dubbio; ancora la seguii.
Trascinava piano gli zoccoli dalla fibbia rossa, tenendo unandatura
che le permettesse di procedere sola; ma io non avrei potuto perderla
di vista. Ogni tanto mi fermavo, lasciavo che mi desse una ventina di
metri e ripartivo; e lei ogni tanto si voltava per tenere docchio
la strada e sero indietro rallentava e se incrociava il mio sguardo
riprendeva tranquilla la sua via.
Superammo la Lugnola seguendo la Carriona alla ricerca di un riparo.
Una stradina laterale ci condusse in quella zona appartata tra i laboratori
e le segherie, in un deposito dove riposavano lastre dal primo taglio
grossolano assieme agli scarti di lavorazione, ai blocchi in attesa di
acquirenti. La persi lì.
I raggi di sole rimbalzavano sulle scaglie bianche e sparse ovunque; ce
nerano tra i tralicci adagiati a terra sopra le ortiche e tra le
rotaie di quella che fu la ferrovia marmifera.
Era come nascondino o, forse, come un preludio
assassino?
La ritrovai più avanti; allombra di un blocco. Le spalle
nude, il collo, il viso roseo come un bocciolo di velluto; i capezzoli.
Quello spolverino che avevo capito nascondere la sua nudità si
reggeva ormai su un solo bottone dal filo lento. Lo sguardo spento, mi
attendeva.
Allungai una mano e le toccai la fronte: non sudava. Le feci una carezza
sul pulsare della tempia. Sopra le labbra unombra lieve, i capelli
neri accavallati sulle orecchie, il fresco contatto delle sue braccia;
la strinsi a me. Fu come abbracciare una figlia perduta e ritrovata.
(...)
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