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Gabbiani Ipotetici
Francesca Del Moro

Grande poesia al femminile

Intervista di Giuseppe Iannozzi

 


1. Gabbiani ipotetici, questo il titolo dell’ultima tua silloge, Francesca Del Moro. Siamo di fronte a una raccolta di poesie che mettono nero su bianco una forte impronta del Sé, con qualche sbaffo dedicato alla politica. Ha ancora senso parlare di sé stessi per fare poesia?

Credo fermamente nell’adagio “più una cosa è personale, e più è universale”. Ciò non significa tenere un diario ma osservare la natura umana al microscopio, attraverso l’esemplare più a portata di mano, cioè noi stessi. Per fare la differenza nella vita di qualcuno (questo è per me l’obiettivo più alto dell’arte) è necessario avere il coraggio di mettersi a nudo, infilarsi le dita in gola e tirar fuori quello che tutti abbiamo ma che tendiamo a non vedere. Mettersi in gioco significa non solo esplorare la propria interiorità ma condividere uno sguardo il più possibile attento e sensibile su ciò che ci sta intorno. Uno sguardo che sia sincero e umile al tempo stesso. Non scriverei mai sulla strage di Bologna o sull’attentato alle Twin Towers, ma ho scritto di Genova, e di tutto ciò che il G8 del 2001 storicamente rappresenta anche al di là dei fatti in sé. E qui si arriva a quelli che tu chiami “sbaffi” dedicati alla politica, in cui rientrano le riflessioni sulla guerra. Io ho vissuto in prima persona le istanze del movimento no global. Mi hanno entusiasmata, ferita, segnata. Per questo ne parlo, fanno parte della mia materia umana, che è materia della poesia. Ovviamente non basta parlare di sé per essere un poeta, occorre conoscere e coltivare il mezzo che si è scelto, saper creare la forma migliore per il contenuto che ci interessa. So che molta poesia contemporanea ambisce a portare all’estremo la sperimentazione linguistica (spesso pluri-linguistica), a tessere strabilianti ricami verbali, librando la parola al di sopra del reale, ma trovo tutto questo sterile e noioso. Anche a me interessa “dire l’indicibile” ma non nel senso di usare le parole nella maniera più sorprendente e virtuosistica possibile. Il mio indicibile è ciò che non riusciamo a dire perché ce ne vergogniamo, ci fa soffrire o ci fa paura.

2. In Gabbiani ipotetici forte è il sentore di rabbia che pervade un po’ tutte le poesie. Credo che la tua poesia abbia poco dello spirito ribelle che fu di Giorgio Gaber (e di Sandro Luporini), in quello che è oramai il loro leggendario repertorio della Teatro Canzone. Potresti spiegare?

È sempre difficile per me trovare i titoli. Le mie raccolte poetiche non rispondono ad alcun progetto, sono poco omogenee sia sul piano stilistico sia a livello di contenuti. Ogni poesia è un’opera compiuta, che inizia e finisce con se stessa. Non sono portata per scrivere opere di ampio respiro, non giocherò mai la carta del romanzo e probabilmente neanche del poema. Ogni mia raccolta presenta tuttavia delle costanti, dei nuclei tematici ricorrenti. In questo caso, quella che tu percepisci come rabbia nasce da ciò che Gaber, con un accostamento sorprendente, definisce “gabbiano ipotetico”. Il gabbiano di Gaber è lo slancio verso una vita più autentica e piena, verso gli ideali spesso soffocati dalle quotidiane necessità, dalla routine umiliante e spersonalizzante in cui rimaniamo quasi tutti imbrigliati. La rabbia nasce dalla consapevolezza di averlo dentro di sé, questo gabbiano, e dall’impossibilità, incapacità, o più probabilmente paura, di farlo volare. Molte delle mie poesie vivono di ali aperte per un volo che non avviene, e della frustrazione che ne deriva. Il titolo della raccolta non vuole suggerire un accostamento tra me e Gaber ma è un modo per omaggiare un artista e pensatore che amo moltissimo. Anche all’interno della raccolta ci sono poesie che rubano titoli ad altre opere, perché da esse sono state in qualche modo ispirate: è un gioco e un modo per invitare il lettore ad approfondire gli artisti che amo. Alcuni esempi sono “Sorelle mai” dal film omonimo di Bellocchio, “Vietato piangere” che riprende un componimento di John Donne e “A se stesso” che è il titolo di una poesia di Leopardi. Ho saccheggiato Artaud capovolgendo le sue parole in “Squilibrata e sana” e Bertolt Brecht in “A nonna Lina”.

3. « … tutti amarono l’arte con geniale sfrenatezza; la vita uccise i migliori» scriveva Cletto Arrighi. E’ forse il tuo modo di fare poesia un po’ vicino alla Scapigliatura. Sbaglio?

Sono stata sicuramente ispirata da Fosca di Tarchetti, che ho peraltro citato in una poesia, e da quanto della scapigliatura è passato in Puccini, ma è dai tempi del liceo che non leggo poeti scapigliati. Si dice che Baudelaire abbia profondamente influenzato la Scapigliatura, il tuo accostamento forse dipende da questo. Ho impiegato due anni a tradurre Les Fleurs du Mal e Baudelaire mi è rimasto inevitabilmente attaccato. Quanto alla frase che citi, sicuramente mi riconosco nell’amare l’arte con sfrenatezza (una sorta di dipendenza, specie per quanto riguarda la musica). Se la mia sfrenatezza sia geniale o no, non sta a me dirlo.

4. Tra le poesie che sono in Gabbiani ipotetici ce n’è una per Carlo Giuliani. Si scrivono tante poesie per Carlo. A tuo avviso, in che misura fu vittima? Ricordiamoci che Carlo, con un passamontagna a coprirgli il volto, con un estintore in mano, fece l’atto di voler attaccare un giovane carabiniere, Mario Placanica.

Me lo ricordo bene, tanto è vero che nella poesia citata ho scritto: “Anzi con quell’estintore che cazzo ci facevi?”. Io penso che Carlo sia vittima esattamente come Mario. Entrambi hanno pagato per la loro giovinezza e inesperienza, uno con la vita, l’altro con la responsabilità di una morte certamente non voluta. Io ero a Genova come Carlo, forse per gli stessi motivi, e ho provato dolore per la morte di un ragazzo così giovane ma non lo considero un eroe o un modello. Trovo che il comportamento della polizia durante il G8 del 2001 sia stato inaudito e indegno di un paese civile ma, per contro, non mi sono mai stancata di spiegare ai miei compagni quanto fosse inutile e stupido lasciarci andare a nostra volta alla violenza. Una manifestazione di piazza serve per richiamare attenzione su un messaggio e sappiamo tutti che basta un uovo lanciato a un politico perché il giorno dopo non si parli d’altro vanificando l’intento di partenza.

5. E c’è anche una poesia splatter, Al mio ex marito e alla sua nuova moglie. Posso permettermi di dire che è quasi una nota stonata all’interno dei tuoi Gabbiani ipotetici?

Questa poesia per la verità è stata finora molto apprezzata e ha avuto un grosso impatto su parecchie persone. Trovo che sia intonata a Gabbiani Ipotetici per una serie di motivi. Il titolo, come qualcuno ha prontamente notato, suggerisce un rovesciamento della poesia di Anne Sexton, “Al mio amante che torna da sua moglie”. Nei suoi versi splendidi, Sexton dà voce a un sentimento universale (vedi risposta 1), vale a dire il senso di inadeguatezza e umiliazione che molte donne provano quando si ritrovano con un amore a metà, indipendentemente dal ruolo che ricoprono nel triangolo. Naturalmente anch’io, in una situazione simile, ho provato le stesse cose, e ne ho scritto abbondantemente in passato. La poesia splatter scioglie questo sentimento doloroso in una rabbia liberatoria e più in generale mette nero su bianco un istinto omicida che tutti noi probabilmente abbiamo provato almeno una volta nella vita. E quando uno sogna di commettere un omicidio, penso che difficilmente si accontenti di uno sparo e via, ma vada nella direzione dello splatter più crudo. La poesia affronta inoltre un altro tema ricorrente nella raccolta: ovvero la convinzione che la natura, leopardianamente, sia malvagia e che Dio, se esiste, sia uno stronzo.

6. Particolare è la poesia Le donne sono più intelligenti, che è quasi un vademecum. Francesca Del Moro, credo, forse sbagliando, che tu non abbia una grande opinione degli uomini, e non posso fartene un torto, non in questo momento storico-vittoriano che la donna viene considerata sempre più un oggetto da esibire. La mia domanda è comunque un’altra: a tuo avviso, quali sono le cause del femminicidio, e, soprattutto, esiste il femminicidio o è una trovata giornalistica?

Puntualizzo brevemente che dalla poesia che citi si evince piuttosto che non ho una grande opinione delle donne. Non le ritengo infatti particolarmente intelligenti, specie quando si danno della troia a vicenda o accettano di fare la figura delle oche giulive accanto a un uomo che le umilia, in privato o pubblicamente. Per rispondere alla tua domanda, invece, non mi sarebbe mai venuto in mente di sospettare che il femminicidio sia una trovata giornalistica. Certo, a parte quanto ci accade sotto il naso, si può dire che qualsiasi cosa apprendiamo dai giornali sia potenzialmente falsa. Mi sentirei di dire che il femminicidio esiste, alla luce degli episodi di violenza fisica che ho potuto accertare con sicurezza. Trovo che negli uomini sia ancora vivo il cosiddetto senso dell’onore, nonché la tendenza a considerare la propria compagna come “la grande donna che sta dietro al grande uomo” e non accanto, figuriamoci davanti. Nel momento in cui una donna sfugge a questi requisiti, molti uomini reagiscono con la violenza, psicologica o fisica. Io ho più esperienza della prima, quanto alla seconda e al femminicidio, suggerisco la lettura di “Femminimondo”, della poetessa Alessandra Carnaroli.

7. Si ha oggi forse più paura della propria femminilità rispetto a ieri?

Il concetto di femminilità, inteso come “caratteristiche specifiche del genere femminile” è da sempre ampiamente dibattuto. Confesso di non avere le idee chiare in proposito e mi viene in soccorso ancora una volta Gaber, che in uno dei suoi ultimi spettacoli disse: “Gli uomini tengono più alle cose, le donne alle persone”. Questa frase mi ha molto colpita e, sulla base della mia esperienza e del mio sentire, tendo a ritenerla vera quasi sempre. Di questa loro caratteristica le donne non hanno paura ma di certo rappresenta un ostacolo, ed è spesso fonte di sensi di colpa. La cura della famiglia, in particolare dei figli, tende spesso a relegarci nel ruolo di “Shakespeare’s sisters”. Avremmo tutte le capacità per ottenere dei risultati e mettere a frutto i nostri talenti, ma la maternità spesso ci assorbe, e non di rado anche l’amore per un uomo ci spinge a sacrificare la nostra dimensione personale.

8. Che ne pensi di Alda Merini, poetessa diventata simbolo d’una certa ribellione al femminile, ma, ahinoi, solo dopo la sua dipartita, e comunque ancor oggi accompagnata da non poche critiche negative?

Ci ho messo un po’ a vincere il mio istintivo fastidio per il suo status di “Superstar”. Sembra che lei non venga considerata tanto una grande poetessa (quale in effetti è) quanto LA poetessa, l’unica che la letteratura italiana abbia mai prodotto. Anche i suoi versi più puerili, che farebbero sorridere sul diario di una ragazzina di seconda media, fanno gridare troppo spesso al miracolo. Ma, a parte questa mia idiosincrasia, della sua poesia apprezzo molto il coraggio, la sincerità. I suoi versi trasmettono un calore tangibile, sono pervasi di una passionalità che è contagiosa. Le invidio molto anche l’incrollabile positività e la fede nel suo ruolo di poeta, che splendono alte sopra le sue dolorose vicissitudini personali.

9. Qual è la poesia che ami, o che ritieni tale, quella attuale e immarcescibile?

La poesia di chi ha il coraggio di mettersi a nudo e condividere uno sguardo attento e mai superficiale sulle cose, la poesia in cui la forma è funzionale a farti vivere l’esperienza di chi scrive come se fosse la tua esperienza. Quella di Cesare Pavese, Antonia Pozzi e Sandro Penna, tra gli altri.

10. Meglio Charles Bukowski o Sylvia Plath?

Ammiro Sylvia Plath ma amo Charles Bukowski. La densità immaginifica e l’ossessiva ricerca delle sonorità che caratterizzano le poesie di Plath sono filtri troppo spessi per me, mi offuscano lo sguardo. Mi sento molto più toccata dai versi spogli, prosaici di Bukowski, con quel guizzo improvviso che ti volge in alto lo sguardo a squarciare il soffitto della stanza di uno squallido motel e vedere le stelle come se le avessi sottomano. Le poesie di Bukowski hanno una vita attaccata, te la fanno vivere come se tu fossi lì, seduto accanto a lui sul letto a cercare il sublime in fondo a una bottiglia di birra.

11. Potrebbe essere Henry Chinaski l’uomo ideale per una donna?

Non saprei proprio individuare l’uomo ideale, ma a volte Chinaski è l’essere umano ideale, quello che vorrei essere. Ho idea che il suo gabbiano abbia le ali fradicie e spennacchiate ma molto più abili al volo delle mie.

12. Ma la volgarità in poesia e non … la volgarità esiste sul serio, o è invece uno sporco pregiudizio?

Eccome se esiste, ma è un concetto molto soggettivo, un po’ come la femminilità di cui parlavamo prima. Se mi fai questa domanda perché ho scritto poesie piene di parolacce ti rispondo che per me non è questa la volgarità. La poesia non deve censurare nulla, e ci sono sentimenti e situazioni che possono essere espressi appieno solo tramite il turpiloquio. Ammetto di essermi ritrovata spesso titubante all’idea di leggere in pubblico versi contenenti bestemmie o che parlano di “cazzi, fighe, sborra e inculate” ma il loro senso è stato sempre compreso, al punto che non sono risultati offensivi né tanto meno disturbanti per nessuno. Bukowski docet, ma lo sapeva già Dante. La volgarità vera è altro: è una donna appesa a un gancio accanto a un prosciutto, è una foto scattata alla scheda con tanto di croce in cabina elettorale, è una senatrice che precisa che si “sta parlando di deputate, e non di bidelle”. La volgarità è la mancanza di rispetto, l’insulto a sfondo razziale o sessuale, lo sberleffo gratuito e superficiale.

 


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