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Brano
tratto da ZERO67
1.
Pioveva
e i soldi stavano finendo, giù al bar ridevano quando aprivo bocca,
in cuor mio vomitavo per loro, per la loro Lazio e la loro Roma, il totocalcio
e tutto il resto, che poi al massimo erano donne e motori, e che il cielo
li seppellisca, ma io parlavo e loro ridevano:
-...ouh, t'immagini uno che gli piace il silenzio ma abita a Chiasso?
-Ah ah ah!
Solo al Bagaglino si sentiva di peggio, eppure loro ridevano, si
erano dati troppe sofferenze, e avrebbero spaccato le facce di tutti i
maschi del mondo, ma non potevano, troppo pavidi, allora ridevano per
un' idiozia, gliene bastava una, il senso della loro giornata era nella
caccia alla idiozia, una sola, e poi a dormire, forse.
Facevo la spesa dal macellaio e ordinavo: -Un lenzuolo, tenero- e il macellaio
mi tagliava una fetta di fracosta così ampia che un lenzuolo non
lo facevi, ma una federa sì. Pagavo, uscivo con la carne cancerogena,
ed ero soddisfatto perché gli stavo simpatico, al macellaio. Io,
il cavernicolo in missione nel futuro. Oh Gesù.
Così tutti mi dicevano ma perché nun fai er comico? fai
ride, sei forte, e qqua e llà. Io mi guardavo allo specchio e vedevo
frantumi sparsi, punti neri e occhi allagati. La storia con Mara mi aveva
fraccato il cuore. "Occhi Belli! Occhi Belli!" mi chiamava lei,
poi mi lasciò, e in capo a sei mesi era già incinta di un
altro.
Farsi pagare per far ridere: chissà se aiuta a tenere lontano il
terrore. Che altro fare, sennò? Lavare vetri ai semafori? ne avevo
lavati fin troppi quand'ero benzinaio. Pony express? Compravo Porta
Portese, leggevo Offerte Lavoro Generico, non ero specializzato
in niente. Cercavano un sacco di ambosessi, e qualche rappresentante di
cosmetici, barman esperti, un fresatore, un tatuatore. Ecco qua: pony
express. Telefonai:
-Ce l'hai il motorino?
-Ci ho la macchina.
-No, motorino.
-Non ce l'ho.
-Allora niente.
-Perché, la macchina non va bene?
-Ma quanti anni hai?
-Trentaquattro.
-Nooo, a noi servono GIOVANI.
Mi sbronzai pesante quella sera, non ero più giovane. Nudo coi
calzini, in camera palpai ciò che restava, senza neanche lo specchio
davanti: mani, petto, ventre, cosce, chiappe, ciascuno al suo posto, ma
per abitudine, anche loro avevano perso l'entusiasmo. Che ne era dei miei
calzini bucati, dei libri letti? Tutto quel tempo speso sui libri, a che
pro? Guardai i polpacci con le cicatrici dei mòzzichi del mastino
napoletano, vecchie di tre anni. Le cicatrici sono un promemoria, con
quelle non dimentichi. Mi si era gonfiata tutta la gamba per quel mastino
di merda, "Nevrite" disse il medico, e mi diede l'Ananase in
compresse. Ma molto di più fecero i soffocotti di Mara, altro che
Ananase: un soffocotto dopo i pasti, e la gamba guarì presto. Guariva
tutto, quella donna lì.
Li facevo ridere: cos'era? la mia faccia? l'accento foggiano? davo il
ritmo giusto alle frasi? Mi vedevano e si preparavano a ridere, stava
diventando un lavoro. Io avrei voluto essere un bel tenebroso, non mi
piaceva far ridere, tantomeno gratis. E manco mi andava, alla fine, di
fare il giro per raccattare spiccioli nel cappello. Buio pesto, niente
che avesse senso, tranne prepararsi a morire, aspettare bene la morte
facendo meno danni possibile.
Venni a sapere del Burlesque dal macellaio mentre mi tagliava il
solito lenzuolo:
-E' forte, ce fanno tipo 'na corrida, ce so' annato co' mi' móje,
s'è divertita pure lei. Je p'oi tira' o i fiori o i mattoni.
-A chi?
-A l'artisti. Si te piace je ti tiri i fiori, sinnò i mattoni.
'A voi 'na sarciccia?
-No, solo il lenzuolo. Mattoni veri?
-Ma qua' veri, de spugna, aoh.
Due sere dopo ci andai, da solo. Era un ex garage circondato da immensi
condomini. Una rampa in discesa portava all'ingresso: c'era una porta
piccola, blindata, con spioncino e campanello in ottone con tanto di scritta,
Burlesque. Sembrava la parodia di un night, era un locale da arricchiti,
anelloni, braccialetti e carne da nozze in mostra. 20000 lire per ingresso
e consumazione. Un posto da andarci solo se ti pagano. Un nano aprì,
aveva le unghie mangiate e il papillon:
-Buonasera, ha prenotato?
-No. Perché, è pieno?
Era giovedì, non poteva essere pieno.
-C'è ancora qualche posto.
-Allora entro?
-Prego.
Mi indicò la cassa, un trabiccolo bardato di velluto rosso, il
colore dei sipari, delle poltrone dei teatri, il colore della Cultura:
si faceva Cultura, lì dentro. Dietro la cassa stava appollaiata
una spilungona sui cinquanta, mora tinta, secca:
-Buonaseeera. E' ssòlo?- domandò con accento siculo.
-Sì- le risposi.
-Ventimila- e mi diede un talloncino per la consumazione, niente biglietto
regolare. Ventimila esentasse: e se ero un finanziere? Come aveva fatto
a capire che non ero un finanziere? Ho la faccia da ridere, io, posso
essere benissimo un finanziere. Poi capii: vanno sempre in due a fare
controlli, io invece ero ssòlo.
Mi diedero un posto in fondo, ma la sala non era grande, si vedeva benissimo
anche da lì. Metà posti occupati, metà no. Avevo
un tavolino tutto per me, chiesi un rhum e coca, quando me lo portarono
mi diedero anche un cesto con fiori di plastica e mattoni di spugna, marroni.
La plastica dei fiori era sfregiata, la spugna dei mattoni deturpata,
forse da morsi. Ai tavoli c'erano per lo più coppie o doppie coppie,
pochi spaiati, con vestiti da trecentomila e scarpe della festa. Molti
dei manichini di Rinascente erano più umani di loro. Le
donne erano del modello che si sfascia dopo il primo figlio, e tutta la
loro strategia protendeva a quello: il primo figlio, e maschio. Gli uomini
che avevano al fianco sarebbero stati minacciosi e intimidatori, all'inizio,
per poi tramutarsi in miti ciabatte. "Esco", avrebbero detto
due sere per settimana alle mogli, e su in macchina a caricare puttane
da ventimila.
Taciùm-taciùm faceva la musica d'ascolto, e accompagnava
tutte le chiacchiere lì dentro. La musica nei locali serve a dar
valore alle chiacchiere, tu vedi queste bocche che si muovono, e di fronte
a loro altre bocche si inarcano in un sorriso o in una smorfia. Una bocca
si muove, quella di fronte sta a sentire. A un certo punto la prima bocca
si ferma semiaperta perché l'altra bocca ha cominciato a muoversi
lei, dopo un po' si danno il cambio un'altra volta, e tu pensi "chissà
di che parlano quei due, come sono intensi gli sguardi, si diranno cose
d'amore, di vita, di morte". Cazzate, novantanove su cento sono cazzate:
la scadenza del bollo della macchina, il nuovo taglio di capelli, le mutande
di tendenza, fa freddo, fa caldo, le ore che ci hanno messo per arrivare
da un posto all'altro della città, il cane dal veterinario, la
sorella scema, i soldi, i soldi, i soldi. Taciùm-taciùm.
Con la musica sotto, ti sembra che le cose che dici hanno senso, spessore,
perché è come se le cantassi, hanno un titolo, un autore,
significano qualcosa. E alla chiusura, quando qualcuno azzera la musica
di botto, per far sfollare gli ultimi pellegrini dal locale, beh, solo
allora avverti la pochezza di quanto stai dicendo, perché ti hanno
tolto la musica sotto.
La musica d'ascolto sfumò, si spensero le luci di sala, disco music
anni settanta, luce a cerchio su una tenda di fianco al palcoscenico,
la tenda si aprì e ne venne fuori un trippone in smoking con duecento
anni di stanchezza in faccia:
-Buonasera, e grazie dell'applauso spontaneo.
Non male, mi fece ridere perché nessuno aveva applaudito prima
che lui aprisse bocca. Ma fu l'unica cosa divertente della serata. Il
trippone presentò a turno un disoccupato-cantautore tipo Claudio
Baglioni, un bancario che diceva le barzellette, un impiegato comunale
che faceva micromagia, una maestra che leggeva le sue poesie d'amore,
e due studenti universitari con le maglie a girocollo che cantavano la
parodia di Emozioni di Lucio Battisti intitolata Contrazioni,
tutta una faccenda intestinale, cacarella e scorregge. Alla fine di ogni
esibizione toccava a noi del pubblico tirare fiori o mattoni, ma il lancio
cominciava molto prima, durava l'intera esibizione, i mattoni finivano
presto, anche i fiori venivano lanciati come fossero mattoni, una cameriera
provvedeva a rifornirci di nuove munizioni, che poi erano le vecchie raccolte
sul palco.
Presto i maschi se ne infischiarono delle buone maniere e delle loro giacche
e cravatte: sbraitavano, ululavano, si facevano belli davanti alle donne.
Tutti diedero fondo ai drink e ordinarono un secondo giro, e anche le
donne mostrarono come si sarebbero comportate tra le mura domestiche dopo
un anno di matrimonio: lanciavano con rabbia, pensavano "chi se ne
frega", fischiavano con due dita in bocca, dopo ogni lancio badavano
a rimettere giù la gonna che si era alzata troppo, non erano mica
lì per far vedere il culo gratis, loro. Una inzuppò il suo
mattone di acqua minerale e lo scagliò in petto alla maestra poetessa
infradiciandole la camicetta: la gente perbene si diverte così.
Sperai che cominciasse a volare anche qualche sedia o bottiglia, ma non
accadde.
Così andai via prima che finisse.
-Quando c'è il cabaret?- domandai alla cassiera.
-Il venerdì e il sabato.
Pioveva, montai sulla mia Peugeot 5O4 diesel del '79 con cambio al volante,
color granata spento, gli anni si erano mangiati il lucido della carrozzeria,
una gran macchina, era stata di un colonnello dell'esercito che la faceva
pulire dai soldati ogni giorno, gli interni come nuovi, per togliere la
polvere dalla fessure i soldati adoperavano i cotton fioc, e forse il
colonnello l'aveva sempre guidata coi guanti.
Sul tavolo di casa ritrovo parecchie macchie, briciole e mezzo pacchetto
di sigarette. Prendo una birra in frigo. Di fronte al letto la tv. Pioggia
fuori e tv dentro, in certi casi persino la tv è meglio. Accendo.
Sul primo c'è Uri Geller, un israeliano che muove gli oggetti con
la forza del pensiero: sta lì che prova a piegare un cucchiaino
da caffè, naturalmente ce la fa. Spengo il televisore, scolo la
birra e mi schianto sul letto. Con la forza del pensiero provo a spegnere
la luce, ma quei 25 W sono più forti del mio pensiero, e in più
fanno oltre dieci anni che ho smesso di pensare. Ci pensa una delle mani
a fare clic.
Buio. Uri Geller è un imbroglione, non è israeliano, è
nato a Portici e vive a Forcella, smista sigarette per la camorra ed è
pedofilo. Quel cucchiaino fa parte di una parure da dodici, regalo di
nozze della cognata. Lui vende parure di cucchiaini, da sei e da dodici,
sei cucchiaini dodicimila lire, dodici cucchiaini seimila lire. Vecchio
Uri Geller, imbonitore da televendite, napoletano, nel bagno di casa sua
ha i rubinetti laminati in oro, e davanti la porta di casa una montagna
di gusci di cozze e torsoli di broccoli
Ho sonno e mi addormento.
Mi procurai tutto a Porta Portese: i cucchiaini li organizzai in un paio
di scatole vuote di cioccolatini, sei cucchiaini in una, dodici nell'altra,
e carta dorata incollata sulle scatole. Uno straccio luccicante arrotolato
in testa, davanti allo specchio diventò un turbante. Trovai un
disco quarantacinque giri degli anni sessanta, Quando dico che ti amo
dei Surfs, lo spennellai di vernice dorata, lo attaccai a una catena e
me lo appesi al collo. In cartoleria mi feci fare una fotocopia della
mia mano sinistra, che venne bene. Mancava solo la croce di Tutankaniello:
rimediai con due stecche di legno sagomate e la solita vernice dorata.
Dopo una notte di prove in mutande, nel pomeriggio telefonai al Burlesque:
-Ho saputo che fate i provini.
-Per Fiori & Mattoni?
-No, per il cabaret.
-Sì, domani pomeriggio alle quattro.
-Va bene.
-Che ci 'ai, un monologo?
-Sì.
-Come ti chiami?
-Sono Donato Nardecchia.
-Per il provino?
-Sì.
-Di là- fece il nano indicando la sala.
Ce n'era già uno sul palco, con la coppola e i capelli a zompafosso,
siciliano, che si dimenava con una spina di corrente in mano, se la stringeva
fra le chiappe, e diceva che era una presa per il culo. Il ciccione
presentatore, che evidentemente comandava la baracca, era seduto a un
tavolo appena sotto al palco con un bicchiere mezzo pieno davanti. Non
rise, bevve un sorso. Quello con la coppola stava per partire con un'altra
battuta, il ciccione lo interruppe:
-E' vecchia. Non ce l'hai battute tue?
Quello con la coppola deglutì aria, poi rispose:
-No...
-Monologhi? canzoni comiche?
-No...
Una cappa di vergogna intasò la sala, mi vergognai per lui, e di
lì a poco avrei dovuto vergognarmi di me. Quello con la coppola
fu inghiottito da una quinta, non c'era nessun altro, c'ero solo io.
Salii sul palco, accroccai gli attrezzi e cominciai senza introduzione.
Occhi puntati del ciccione, cuore mio che batte forte, orecchie rosse,
caldo, luce in faccia. Terribile, triste. Odore di polvere, sedie rovesciate
sui tavoli in sala, e sempre luce in faccia. Io mi do da fare, di fronte
a me c'è solo il ciccione che non ride, le sedie non ridono, i
tavoli non ridono, le pareti idem, finisco. Guardo il ciccione.
-Sì- disse.
Aveva parlato, aveva detto "sì". Toccava a me, dissi:
-Eh.
-E' roba tua?
-Sì, non è vecchia, no?
-No. La fai un po' troppo lento, ma forse funziona uguale, bisogna provarla
col pubblico. Come ti chiami?
-Donato.
-Va be', ci vediamo stasera, proviamo col pubblico. Alle 10, puntuale.
Il ciccione si alzò a fatica, diede fondo al bicchiere, poi mosse
via mentre io raccattavo le mie robe e le infilavo nella sacca. C'era
un gran caldo lì sopra, polvere, polvere, polvere, e il becchino
è un buon lavoro perché i clienti non si lamentano mai.
(...)
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