i quaderni di Cico
 
 

 

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... e di Marisa Miozzi,
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"
Mentre seguivo Orfeo"

titolo:"Perché era lui, perché ero io" - Prefazione di Roberto Pazzi
collana i quaderni di Cico
autore Marisa Miozzi
ISBN 978-88-99021-04-7
- € 12,00 -
pp. 165 - in copertina, illustrazione originale di Andrea Tarli


No, Sherazade non esisteva; tante volte l’aveva cercata ancora in un volto, in un sorriso, in uno sguardo buono, ma non l’aveva mai trovata. “Che se ne vada, non voglio essere disturbato”.
Ma uno dei suoi prìncipi, di nome Curiosità, da tempo inascoltato, gli si palesò davanti suggerendogli di riceverla: “Perché vuoi precluderti l’esperienza di sapere chi veramente sia. Ti prego, ascoltami, assecondami, sii curioso; lo sai che io sono una scintilla di vita che va tenuta accesa, altrimenti tutto è buio”.

 

 

 

Così, come in “Mentre seguivo Orfeo”, splendido esordio letterario, anche in questo secondo romanzo Marisa Miozzi ci offre testimonianza dell'evoluzione nel modo di vivere l'esistenza, di vedere il mondo e di concepire il tempo, la letteratura (con i suoi eterni e ineffabili fantasmi), la filosofia e le relazioni personali, da parte di due grandi effimeri protagonisti di Un Amore, Lei e Lui, legati da un rapporto complesso e articolato, ricco di spunti e riflessioni che toccano corde di assoluto rilievo nella storia non solo della letteratura, ma del pensiero contemporaneo.

 

Se il sogno è il moto silenzioso dell'anima di notte, le mille e una storia
di questo romanzo rappresentano il giorno dell'anima, il passaggio,
il segreto illuminato e il varco per la Grande Nave Volante sullo
strato barboso dell'abitudine ferma, circoscritta, prevedibile.
(Paolo West)

 

 

Brano tratto da Perché era lui, perché ero io

Da tempo fatico a prendere sonno.
Il mio cervello non vuol sentire ragioni di una tregua da pensieri che corrono impazziti dentro i ricordi e il dolore di una perdita che di giorno in giorno si fa più acuta.
Era forse ubriaco quel filosofo quando scrisse: “Se c’è la vita non c’è la morte, se c’è la morte non c’è la vita”? Certo la verità di questa sentenza è incontrovertibile, oserei dire ovvia, ma a me sembra buona solo a esorcizzare la paura che della morte ha chi la sente alitare sulle spalle, non certo a tacitare la disperazione di chi sopravvive ad una persona amata.
Lorenza non c’è più, se n’è andata e, questa volta, per sempre, eppure non riesco a rassegnarmi al vuoto che mi ha lasciato; non c’è più la vita, la sua vita così ricca di entusiasmi, di amore, di desiderio di capire, di conoscere, di esserci.
A volte fingo di pensare che sia lontana, in uno dei tanti viaggi che amava fare per uscire dal chiuso della propria casa e delle proprie abitudini e andare in cerca del nuovo, del diverso, di un incontro che si schiudesse sul mistero della vita.
Dura ben poco l’illusione di risentirla... So che non mi arriverà una email in cui mi rassicura che sta bene, che ha pernottato in una sfarzosa casa coloniale inglese a Ooti, sulle montagne del Tamil Nadu e ha creduto di sentir ruggire dietro la porta della sua camera le tigri i cui trofei, appesi alle pareti del salone da pranzo, l’avevano guardata con un ghigno feroce per tutta la serata.
No, non mi scriverà più delle avventure cui andava incontro, incosciente e spensierata, e che a me regalavano leggerezza e felicità perché finalmente riconoscevo la sorella di un tempo, rinata a nuova vita.
“Vieni a trovarmi per un caffè filosofico? Così ti racconto...”, mi diceva al telefono di ritorno dall’ennesimo viaggio.
Era bello ascoltarla; mi pareva di vederli i posti che descriveva con tanta passione e minuzia di particolari, soprattutto percepivo, come se diventassero miei, il coinvolgimento emotivo e le vibrazioni della sua anima.
Così ero con lei nello Yucatan a Chichén Itza ad ammirare il Castillo, “Sai, per un attimo ho temuto di vedere il Serpente piumato scendere con le sue spire sinuose attraverso i gradoni” oppure, tremante di orrore e di compassione, ero davanti ad un Cenote Sagrado in cui si compivano sacrifici rituali di giovinetti per ingraziarsi la benevolenza del dio della pioggia.
Ero con lei anche alla Bodeguita del Medio, il bar preferito di Hemingway all’Havana, a bere un mojito e attraversare, barcollando di ubriachezza leggera, strade avvolte in un’inquietante oscurità.
Ho condiviso la sua felicità di un Capodanno trascorso a Sydney davanti all’Opera House la cui architettura ardita aveva scatenato la sua fantasia; mi scriveva che le sembrava un assemblaggio di vele spiegate verso il cielo, verso la libertà oppure una grande conchiglia che fuoriesce dal mare e cerca paradossalmente respiro e vita nell’aria, una singolare e affascinante creatura marina che convive con l’uomo e lo cerca, lo ama come solo le sirene sanno amare.
Non mi stancavo mai delle sue parole, osservazioni, ricordi trascritti puntualmente su un piccolo quaderno “Per non dimenticare nulla”, diceva, che tracimavano come un fiume in piena riempiendo di guizzi di vita e di curiosità il mio quotidiano.
“Lorenza, sono felice delle esperienze che fai, credimi, ma, dimmi la verità, questo progettare e fare viaggi in continuazione nasconde una volontà di fuga?”
“Non credo, per lo meno non più, sto solo cercando il senso.
Il tempo è breve, la vita provvisoria, ho fretta di capire chi sono, che cosa mi manca per essere quella che vorrei.
Fino a qualche tempo fa ero convinta che solo nell’amore corrisposto e compreso per un uomo avrei dato un significato alla mia vita.
Nella ricerca di un amore ho sprecato tempo ed energie, ma ora so con assoluta certezza che l’amore può essere altro: è amicizia, è memoria del cuore, è sorriso quando ti alzi il mattino e ti lasci incantare dalla bellezza e dal profumo del tiglio che svetta nel tuo giardino, è ascolto, è condivisione, è consapevolezza di essere vivi, è coraggio di andare incontro all’altro da sé”.
“Lorenza, tu queste cose le hai sempre pensate, il tuo sguardo anche prima era di stupore, di amore, di compassione”.
“Sì, è vero, ma solo in parte, perché prima, senza l’amore di un uomo, mi sentivo zoppa, mi mancava un arto indispensabile per camminare fiduciosa verso il domani e l’oggi era grigio, privo di attese e di speranze”
“Vorresti cancellarla quella ricerca di amore che era poi ricerca di vita? Sei pentita delle tue scelte?”
“No, non mi pento di quello che ho fatto, voluto, amato, anzi ritengo che tutte le esperienze, anche quelle maturate nel dolore, mi abbiano aperto la mente verso orizzonti di senso più ampi.
Rifarei tutto o quasi tutto, se è per questo.
Come scrive il mio amico poeta:
Oh ripeterei tutto,
parola per parola,
carezza per carezza,
errore per errore,

perché ho vissuto anche momenti di pura felicità e bellezza e certe emozioni sono state così intense che non ne rinnego neppure una, però ora sono diventata ‘grande’ e non temo la solitudine e il silenzio.
Non cerco più l’amore per correre ancora il rischio di perdere me stessa, né mi lascio incantare dall’apparenza. Si è così stolti quando si ama che non ci si arrende neppure davanti all’evidenza più eclatante di non essere corrisposti e ci sfugge la dimensione del reale. Spesso non ci rassegnamo comunque: continuiamo a chiedere, a supplicare, a elemosinare un perché. Che follia pensare che le persone siano come le vorremmo o supporre che il nostro amore possa cambiarle... tipico di noi donne, malate croniche di sogni e di ideali scontati. Tante Bovary che non si avvedono dell’inconciliabilità di realtà e fantasia, della distanza incolmabile tra desideri e vita quotidiana.
Se ci pensi, per quanto possiamo crederlo reale, l’amore ha sempre una proiezione immaginaria, è il regno di ciò che può essere, non di ciò che è, è un gioco di prestigio con cui un Io inventa un Tu senza il quale crede di non poter essere felice per scoprire con il tempo che tutto era fittizio.
L’amore è una malattia da cui sono guarita.
Ho preso coscienza delle mie ferite segrete, dei miei errori e dei miei limiti; li ho esplorati, studiati, illuminati e ora so che fanno parte della mia identità. Finalmente sono in pace, ho siglato un accordo con il passato e non mi avventuro più a cercare illusorie consolazioni perché ho capito che vivere una vita autentica significa soprattutto ‘cura’, aprirsi agli altri, condividere, con-sentire.
Viaggiare mi ha insegnato anche questo; mi sento tutt’uno con il mondo, amo tutto ciò che è, persone e cose, non sono più sola”.

L’ultima volta che la vidi , un pomeriggio di fine settembre, ricordo la sua decisione improvvisa di recarci al mare.
Era una giornata calda, ma il sole era pallido, i colori di una trasparenza non più accecante vibravano di una malinconica dolcezza e il mare, una distesa piatta, infinita che andava confondendosi con il cielo. Tutto diceva che un’altra estate se n’era andata.
Camminavamo sulla spiaggia modellata e lavata dalle onde, respirando i profumi del mare e il silenzio interrotto solo dallo stridio di alcuni gabbiani che volteggiavano ad ali spiegate sopra l’acqua in cerca di cibo. Altri invece se ne stavano tra le dune, immobili, accoccolati in cerchio, come se ci fosse una riunione in corso.
“Chissà che cos’hanno da dirsi?” chiesi a Lorenza scherzando.
“Sono tristi, per questo stanno così vicini, quasi a scaldarsi il cuore del vuoto che lasceranno gli amici in partenza verso paesi caldi che loro non vedranno mai. Qualcuno sta dicendo che gli piacerebbe affrontare l’avventura di un viaggio pur sapendo che molti di quelli che sono partiti lo scorso anno non hanno fatto ritorno, probabilmente morti di stenti e di fatiche che gli hanno spezzato il cuore. Ma hanno visto qualcosa di nuovo, Dio mio, hanno goduto la bellezza di cieli diversi, di sabbie bianche e calde anche d’inverno, si sono librati in alto, sempre più in alto e hanno potuto guardare il mondo con occhi nuovi. “Noi invece, sempre qui, sempre la stessa vita ogni giorno: qualche volo acrobatico a pelo d’acqua per poi tuffarci in cerca di un pescetto, l’inseguimento dei pescherecci accompagnato da strida di giubilo come se il cibo fosse la nostra sola ragione di vita... e forse lo è”.
Sì, sono certa che c’è qualcuno che sta protestando sulla banalità di un’esistenza di cui non vede il senso, ma gli altri, soprattutto gli anziani, lo guardano perplessi; il loro sguardo è ottuso, allarmato da quest’ansia di libertà che sembra voler sovvertire l’ordine naturale delle cose.
Rischiare di morire per andare incontro all’ignoto, rinunciare ad abitudini consolidate solo per il gusto di vedere pezzi di cielo nuovi? è una perversione! Si sta così bene tra le cose certe di tutti i giorni!”
“Che fantasia hai, Lorenza, addirittura fai parlare i gabbiani! E li fai pure consapevoli della morte”.
“Certo, ti stupisci? Tutti lo sono e la presentono anche. Ma ora basta con i battibecchi di questi stupidi uccelli e godiamoci l’ultimo caldo e la bellezza di questo tramonto così languido nello stemperarsi dei colori... non lo dimenticheremo, vero, questo pomeriggio insieme?”
Dopo circa un mese moriva in un incidente d’auto.
Sono ritornata nella sua casa.
Tutto parla di lei: i suoi libri, sparsi ovunque, i suoi quadri, comperati nei mercatini più disparati in giro per il mondo, gli oggetti che tanto amava perché diceva che ognuno era come un filo di quella trama che si chiama vita.
Nello studio ho visto il suo portatile seminascosto da una pila di libri e riviste.
Nettissima, la sensazione che fosse stato lui a cercarmi e a trovarmi perché potessi rivivere attraverso le parole scritte la presenza di Lorenza.
Non potendo scendere negli Inferi come Orfeo e pietire dagli dèi la sua restituzione, potevo comunque riportarla indietro scendendo nella memoria.
Mi sono seduta davanti alla sua scrivania e ho acceso il computer di cui conosco la password.
Vi ho trovato uno scambio di email che narrano un percorso di memorie e di speranze, una sorta di viaggio tra le contraddizioni del vivere alla ricerca di una felicità sempre inseguita e mai autenticamente posseduta.
Ho preso la decisione, non so quanto saggia o presuntuosa, di raccontare questo “viaggio”, sicura di non violare la sua anima perché lei abitava nei libri e, come me, riteneva che scrivere e leggere storie siano un cammino verso il senso, un aprirsi a possibili speranze di condivisione e ad un dialogo che si teme perduto con l’altro da sé.
Una storia può essere tutte le storie; che il lettore si riconosca nello specchio lontano di chi ha vissuto in altri luoghi e altre vite e abbia sempre qualcosa da scoprire perché non tutto è chiaro e visibile anche a lui stesso, non è un’ipotesi né così originale né così azzardata come sembra.

Come può iniziare la storia di un incontro insperato e inatteso tra due persone che, come naufraghi su una zattera improvvisata, aspettano di essere salvati?
Quanti incipit si possono sperimentare prima di arrendersi o di perdere l’attenzione di chi legge?
Invero, cercare l’inizio di una storia è una fatica di Sisifo; è come volere aprire la porta di casa con la chiave sbagliata, sai che dentro c’è il tuo mondo di piccoli e grandi affetti, c’è la tua vita, ma più cresce l’ansia di entrare, più difficile diventa reperire la chiave giusta.
Oppure è come trovarsi in balia di un mare infido, in cui temi di non avere scampo e le forze sono ormai sul punto di abbandonarti, stremato da false speranze o dagli inganni della memoria finché... sulle sudate carte si intravede un approdo, a meno che non sia un miraggio o peggio un’illusione che hai creato tu stesso per ingannarti... non è semplice entrare nell’intreccio segreto di due amanti.
Proviamo.
C’era una volta un principe che un sortilegio aveva condannato alla solitudine.
Viveva in un castello arroccato sulla cima di una montagna; già i suoi capelli avevano il colore del tempo e tante albe i suoi occhi stanchi avevano spiato, eppure la speranza che qualcosa un giorno gli ridesse il respiro della vita non moriva... scontato e banale un simile incipit anche per una favola e questa non è una favola, semmai è una non favola.
C’era una volta un uomo che aveva dimenticato che cosa fossero la felicità di una carezza o di un bacio lieve. Viveva arreso alla disperata perdita di senso della sua vita... noooo, neppure questo mi convince, troppo stucchevole, cancelliamolo.
Io, che conosco questa storia, l’ho vista nascere come un gioco libero e innamorato, crescere nella bellezza e nella complicità dell’intesa e infine arenarsi, come una nave che ha perso la rotta, nei bassi fondali dell’ipocrisia e del perbenismo, temo che anche questo incipit sia sbagliato.
Forse posso iniziare così.
C’era una volta un piccolo dio nelle sembianze di un uomo dall’aspetto insignificante tranne che nello sguardo su cui si affacciava, nella trasparenza dei sentimenti ed emozioni che stava vivendo, un’anima che sapeva cogliere le vibrazioni più impercettibili di chi gli stava vicino.
Nei suoi occhi, occasione preziosa per guardare di nuovo, con occhi lavati, scompigliare abitudini e certezze, snidare l’io autentico, ci si poteva tuffare e vedere scaglie di mare in burrasca o laghi dalle acque calme e profonde in cui si specchiavano fitte trame di alberi.
Vi si leggeva tutto... bastava condividerli; erano la muta parola di stupori, di tempi sognati, di dolori e ricordi che non volevano morire.
Ma quando il suo cuore si apriva a fiducie nuove vi si potevano pescare perle preziose di calore e tenerezza che impreziosivano un sorriso dolce e malinconico.
Era un uomo venuto dal mare, ma non era un marinaio anche se in mille porti aveva sostato cercando un approdo dove placare la sua inquietudine, trovare una casa e una donna da amare.
Lunghi viaggi e lunghe attese c’erano stati nella sua vita finché un giorno capitò in una città.
Non l’aveva mai vista, eppure i suoi eleganti palazzi settecenteschi, i larghi viali alberati, il profumo dei tigli, gli odori che si sprigionavano dal chiuso di certi vicoli, il vento che giocava con le foglie ammassate sul selciato gli dissero che lì doveva fermarsi e restare in attesa di essere salvato.
Sentiva di provare una felicità di natura quasi fisica; non ricordava quando c’erano stati quel vento, quell’odore, quella carezza dell’aria, ma il suo corpo percepiva, come se ne avesse memoria, di avere già vissuto quel piacere... ed era il piacere di esistere, di esserci.
“Finalmente” si disse “sono a casa”.
Cercò e trovò anche l’amore di una donna.
Ma che cosa sopravvive e che cosa muore quando si scopre di non credere più ai baci, all’euforia del cuore, all’unicità dell’altro?
Muoiono l’amore, l’incanto di quei momenti in cui la vita pare sospesa fuori del tempo e la percezione del trascorrere svanisce; sopravvivono, dolorosi, i ricordi di un’intimità che si è lasciata sopraffare dal quotidiano e l’angoscia della solitudine.
Chiuse il suo cuore ai sogni, imparò che non si può giocare con le profondità dell’altro... si scoprono distanze segrete e incolmabili, si aprono ferite, si soffre l’assenza e non si ama più una persona cui si è sottratto il mistero.
“Meglio ritirarsi in una torre, come Montaigne” diceva a se stesso, e cercare consolazione e appagamento nel silenzio e nelle letture, ma... non era Montaigne, lui era solo un’anima inquieta che non aveva saputo accogliere la felicità, ghermirla e trattenerla quando l’occasione si era presentata.
La notte, quando il silenzio scendeva sulla città e sempre più rari erano i passanti per le strade, usciva a camminare. Lo seguiva un cane che un po’ gli somigliava, piccolo, con il pelo grigio e bianco e gli occhi buoni che chiedevano amicizia.
Insieme andavano verso il fiume. Il cane correva avanti, si infrattava in cespugli lontani, raspava il terreno con la frenesia di chi cerca un tesoro, il muso affondato nell’erba alla ricerca di ricordi di antichi amori o comunque odori che sapevano di giochi e fantasie con amici, pensava lui, che, sorridendo, aspettava che ritornasse per riprendere il cammino.
Gli piaceva ascoltare i rumori della notte in quel luogo solitario.
Dagli alberi che protendevano i rami verso l’acqua arrivavano brusii, sussurri di animaletti che cercavano il sonno e il tepore della tana. Qualche uccello tardivo volteggiava nel cielo infinito, lassù, sempre più in alto: sembrava nuotasse in una liquidità che si rispecchiava, argentea, nell’acqua.
E ancora, lontano, il pianto sommesso di un cuculo che cantava un amore perduto.
Nelle notti estive godeva di spettacoli di straordinaria suggestione: una miriade di lucciole danzavano attorno a lui, gli venivano incontro, si rincorrevano felici, in un palpitio di luci, tra le ombre degli alberi e nell’aria satura del profumo di erba umida di rugiada.
In cielo era tutto un chiacchiericcio, un richiamarsi di uccelli che cantavano la gioia di vivere.
Lui si sedeva sul greto del fiume e ascoltava rapito e rasserenato il respiro della natura sotto lo sguardo di stelle così grandi e così vicine da credere di poterle toccare con un dito.
A volte un rumore, un profumo, un lieve scalpiccio nel terreno, il lento sciabordio dell’acqua gli evocavano ricordi che credeva sopiti da una memoria ingrata, restia a richiamare i momenti felici, quelli che aiutano a rendere più leggera la vita.
Si vedeva bambino a Rio De Janeiro su una spiaggia assolata correre felice incontro al mare, giocare, quando la risacca si ritirava, a cercare conchiglie e poi finalmente tuffarsi e lasciarsi avvolgere dall’abbraccio caldo di quelle acque di trasparenza cristallina.
Teneva gli occhi aperti mentre nuotava, curioso, sott’acqua; voleva vedere i pesci colorati che guizzavano attorno al suo corpo, tentava anche di accarezzarli, ma gli scivolavano sempre via dalle mani con scatti improvvisi.
Abitava in un quartiere di piccole viuzze: le case basse dai colori vistosi, i panni stesi al sole, battuti allegramente dal vento, che gli sembravano tante vele di navi pronte a salpare lontano.
I nonni, emigranti italiani, possedevano un forno. Erano partiti in cerca di fortuna, beh... non avevano trovato l’Eldorado, ma l’attività che avevano avviato rendeva bene; il loro pane odoroso e fragrante godeva di una certa richiesta.
Amava i nonni, il loro sorriso che si apriva su volti scavati da rughe antiche, la loro ruvida tenerezza, le focaccine che gli facevano trovare la mattina prima di andare a scuola.
Forse aveva nove o dieci anni quando si era innamorato per la prima volta.
Come fluttuando dalla nebbia di un ricordo che ha perso i contorni nitidi di una realtà troppo lontana nel tempo, gli venne incontro l’immagine di lei, del suo volto quando la vide la prima volta, seminascosta dalle tende di quella casa strana in fondo al vicolo dove abitava.
Era una casa grande rispetto alle altre, sempre con le finestre illuminate la notte e risate che si confondevano con la musica.
Non capiva perché di giorno invece fosse così silenziosa e le imposte fossero chiuse.
Ma quel mattino una finestra era socchiusa e dietro le tende che danzavano al vento la vide: era incredibilmente bella o così gli parve.
Si avvicinò timidamente, voleva parlarle, ma lei si ritrasse e sparì.
Tutte le mattine alla stessa ora si avvicinava alla casa per vederla e lei era lì, sembrava attenderlo.
I loro sguardi si incrociavano: timidi e pieni di ardore i suoi, curiosi e smarriti quelli di lei che un giorno gli fece cenno di avvicinarsi e gli rivolse la parola.
“Che cosa vuoi? Perché vieni sempre qui?”
“Perché mi piaci, vorrei conoscerti, vederti tutta, sei di una bellezza incredibile, lo sai?”
“E tu lo sai che sei un ragazzino?”
“Che importa, tu mi piaci e io ti piaccio, altrimenti non saresti alla finestra ad aspettarmi”
“Mi incuriosisci... è tutto. Lo sai che io sono più grande di te?”.
“Quanti anni hai?”
“Sedici”
“Ti aspetterò fino a quando anch’io avrò sedici anni. Insieme andremo alla spiaggia, giocheremo a inseguire le onde e ci baceremo. E non ti lascerò più.”
“Ma io sarò vecchia allora per te e poi... non è possibile, io appartengo a tutti e a nessuno”.
Non capì quelle ultime parole il cui significato gli rimase oscuro finché degli amichetti più grandi, passando davanti alla casa, gli chiesero: “Tu sai che cos’è quella? è un bordello”.
Ai suoi occhi interrogativi, ridendo maliziosi, aggiunsero: “è un posto dove gli uomini vanno di notte a fare le loro schifezze con le puttane”.
Non osò chiedere che cosa fossero le schifezze e le puttane, a dire la verità non gli interessava; lui voleva solo conoscere quella ragazza dallo sguardo triste e dalle labbra morbide che avrebbe voluto baciare.
La aspettò nei suoi sogni, nei giochi sott’acqua immaginando che dai flutti emergesse lei nelle sembianze di una sirena, la vide nei volti di giovani sconosciute che gli passavano accanto, nei libri, nella riproduzione di un dipinto: era l’Ofelia di Millais che scivolava lungo il fiume con le vesti impigliate di fiori bianchi, finché una notte, aveva già quindici anni, sgattaiolò di nascosto nel vicolo e si recò nella casa.
Entrò e aspettò di vederla... non sapeva neppure come si chiamasse.
“I nomi non sono importanti” gli aveva detto un giorno, “sono la bizzarria, l’umore, il capriccio, il legame ad un ricordo, la fantasia di chi li sceglie per noi. Mi chiamano in tanti modi che quasi non ricordo quale sia il mio.”
Quando lo vide, lei non disse nulla, solo lo prese per mano.
Insieme salirono le scale ed entrarono nella penombra di una stanza dove il sesso non si era mai coniugato con l’amore.
Furono baci, carezze, abbracci che avevano il calore della brezza estiva, mani che scioglievano timori e ambiguità, gesti che cercavano l’intesa, la comprensione, l’amicizia, il piacere dell’amore... e la stanza diventò un prato, un cielo terso, il mare, la sabbia morbida e calda su cui i loro corpi si cercavano.
A quella prima volta seguirono altri incontri tutti nella magia di una felicità e libertà del cuore nuovi per entrambi.
Ma questa non è una favola, l’ho già detto all’inizio, le puttane restano puttane, i sogni sono solo sogni e i ragazzini vengono duramente redarguiti per le loro stravaganti intemperanze.
Si ritrovò una mattina al check-in dell’aeroporto con un biglietto di sola andata tra le mani: destinazione Milano.
Lì avrebbe abitato presso una zia materna, continuato gli studi e... dimenticato.
No, non dimenticò mai la sua puttana triste, la sua tenerezza, il suo amore pulito, anzi la cercò in tutte le donne che gli capitò di incontrare per le vie del mondo.

 

(...)



 
 
 

Marisa Miozzi è nata e vive a Ferrara. Laureata in Filosofia, ha svolto per diversi anni l’attività di insegnante. Le sue passioni sono i viaggi, le letture, il cinema e la sua gatta Ginevra. Oltre a questo secondo libro, ha pubblicato il romanzo “Mentre seguivo Orfeo” (Cicorivolta, 2010).