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Brano
tratto da: "L'arcano minore"
(...)
Il vento
di maestrale tirava forte, portando fin sopra la collina l’odore
del mare, appiccicandole addosso le vesti nere, che malamente le ricadevano
sul corpo, come consunto da un’antica malattia; ondeggiando sotto
la sferza del vento, quella figura pareva uno spirito maligno scaturito
da una voragine della terra sottostante.
Dal foulard nero emergeva lo spettrale livore di un viso indurito come
da un gelo di morte.
Non poteva di più stridere, quell’oscura e funebre figura,
con l’esplosione di vita che tutto intorno increspava le onde dorate
di spighe, con il rosso acceso dei papaveri che, dalla pianura che si
stendeva a perdita d’occhio alle sue spalle, salivano a vestire di
festa la collina.
Ai suoi occhi le palme che, dal vasto parco della villa, giungevano fino
al mare, anch’esse sferzate dal maestrale, le si mostrarono come
supplici disperate in un inutile opporsi alla tragedia che già
si consumava.
Anche il mare, nel punto dell’orizzonte in cui convergeva con il
cielo, quietando un ribollire di turchese e bianco, le parve gonfiarsi
quasi a comporre la figura di un antico dio, adirato dall’empietà
incombente.
Lo intese pronto all’implacabile vendetta per il gesto terribile
che andava a compiersi in spregio di ogni legge: umana, come divina.
Ma lei non ebbe orecchie per le supplici, né timore di Dio, e rimase
senza muovere muscolo a fissare l’auto scura che, percorrendo il
lungo sentiero del parco, era già giunta alla porta della grande
villa.
Dal retro di essa era uscito poco prima un uomo che la vita aveva appena
sconfitto: anche l’ultima speranza era morta.
Non sarebbe mai riuscito a portare via da lì la donna che vi abitava:
la madre che era diventata aveva vinto su tutto, sulla donna che era stata,
sullo stesso istinto di sopravvivenza.
Inutilmente, egli aveva, anni prima, lasciato l’Isola per costruire
un futuro che avrebbe strappato la donna che amava da un matrimonio impostole
con un ricatto spregevole.
L’aveva saputo,certo che lo aveva saputo, che lei era diventata madre.
Ma nell’ostinazione del suo amore egli aveva pensato a quella creatura,
a quella bambina, come a sua figlia e anche per lei aveva alacremente
lavorato.
Si era costruito una posizione e un rifugio sicuro, al di là dell’oceano,
dove nessuno li avrebbe mai più rintracciati.
Dopo tre anni, un tempo esiguo che gli era parso smisurato, infine era
tornato per portarsi via la madre e la figlia.
Quando si era trovato dinnanzi la donna che così tenacemente amava,aveva
compreso che tutto era stato inutile: per quanto quella lo avesse amato
o lo amasse, per quanto fosse ridotta all’ombra di sé stessa
nella prigione di quella casa, a tutto ciò non si sarebbe sottratta.
Troppa in lei la paura di essere cercata e trovata, troppa la paura che
le avrebbero strappato sua figlia: aveva rinunciato a tutto, agli studi
universitari, al suo amore, alla sua stessa vita; ma non avrebbe mai corso
il rischio che sua figlia, l’unico bene veramente suo rimastole sulla
terra, le fosse sottratta per essere allevata da mani assassine.
Dalla macchina scese l’anziano signore nel suo impeccabile abito
scuro, dopo che l’autista gli ebbe aperto la portiera; la domestica
era già corsa all’uscio ad accogliere il suo padrone e questi
entrò quasi senza guardarla, dirigendosi verso il salottino da
cui proveniva il garrulo vocio dell’adorata nipote.
Fu sull’uscio: alto, diritto, un viso insieme antico e nobile, come
il suo portamento.
Nessuno, che non ne conoscesse la fama o non ne avesse sperimentato le
gesta, avrebbe mai indovinata o creduta l’implacabile e spietata
condotta che lo aveva reso, nel tempo, ricco, temuto e onnipotente.
Vide sua nuora seduta sul divano di broccato rosso su cui spiccavano le
trame di dorati ricami, pallida ancora più di sempre: recava sul
viso i segni di un troppo recente pianto.
Sullo stesso divano sedeva il fratello di lei, magro e nervoso, mentre
tentava di sfogliare una rivista, con la piccola Lucrezia che sedeva al
centro.
“Don Tano…Siete voi. Bentornato a casa” tentò di
dire l’uomo stentatamente e in modo così nervoso che avrebbe
immancabilmente ingenerato sospetto in un uomo come don Tano, se questi
non avesse già avuto le sue certezze.
Questi non gli rispose, alzò un poco lo sguardo sino all’antico
dipinto che sovrastava il divano raffigurando un volto di Madonna così
triste che sempre egli aveva pensato essere il volto dell’Addolorata.
“Nonno, nonnino, guarda che bella macchina!” balzò in
piedi la piccola Lucrezia, strappando di mano allo zio la rivista su cui
faceva bella mostra un’auto rossa.“Diglielo tu allo zio che
è vero che domani la compriamo!”.
Solo allora don Tano parlò con una voce velata, come velati erano
i suoi occhi.
Lentamente, estraendo l’arma dalla giacca, rispose: “Non c’è
il tempo, amore del nonno…Non c’è più tempo, tesoro
mio” e, abbracciando la piccina, premette il grilletto.
Lo sparo trapassò i gemiti del palmizio sino al mare e dal petto
del dio rimbombò,portato dal suo urlo di vendetta,sino alla collina
ai piedi della nera figura, fino al viso, come un bruciante e subitaneo
schiaffo.
Il volto ancor più s’indurì in un ghigno, accompagnato
dall’assenso del capo, mentre il corpo, le pareva, si liberava dalla
malattia che lo aveva, fino ad ora, consumato.
La donna sussultò, come rinvenendo da una secolare apnea.
Infine corse via, giù dalla collina, incespicando, ferendosi, senza
nulla sentire, avvolta nel nero del suo odio.
Ai piedi della collina, s’accorse della ragazzina e la riconobbe.
La piccola cercò di scappare, ma lei l’avvinghiò, la
sollevò di peso.
“Mi hai seguito, maledetta strega… Strega sei, come a tua madre!
Ma che vai cercando? Bada bene che se fiati ti ammazzo. Anche una sola
parola e io ti trovo anche all’inferno!”.
La ragazzina tremava, eppure cercava in ogni modo di divincolarsi.
La donna la strattonò ancor di più.
“Capisti, ah? Capisti? All’inferno vi trovo, a te e a tua madre!”.
La ragazzina s’irrigidì, la guardò come se volesse
incenerirla con lo sguardo, ma assentì col capo.
Veniva gente. Lei la spinse a terra e continuò a scappare.
La ragazzina rimase lì, tremando per un freddo che le si spandeva
in corpo dalle ossa: la trovò un contadino ancora in quello stato
e alla domanda “Ma chi fu, chi successi?”, la ragazzina disse
solo tre parole: “La Regina Nera”.
“A Rigina nira!”. Il contadino si portò le mani ai capelli.
“A Rigina Nira!”, e si precipitò a rotta di collo al
paese, trascinandosi appresso la ragazzina, quasi fosse stata niente più
che una “pupa” di pezza.
Sul tappeto color giallo oro una macchia carminia si allargava ai piedi
dell’uomo, come se il vento avesse scoperto fra le spighe un rigoglio
di papaveri.
Mentre abbassava il braccio lentamente, con l’arma ancora stretta
in pugno, sordo alle urla, fermo nello scompiglio, gli penetrava dentro
il dolore d’ogni vittima di cui negli anni aveva ordinato la morte
ai suoi sicari, lo strazio, fin nelle carni, di ogni familiare lasciato
nel lutto.
Fissò lo sguardo sul dipinto della Madonna Addolorata: fu l’ultima
immagine che serbò della sua casa.
Una Madonna
Addolorata pareva pure quella donna, irrefrenabilmente scossa lungo ogni
muscolo dai singhiozzi, senza più voce, senza più lacrime,
senza più sangue, avvinghiata alla piccola bara bianca posta ai
piedi dell’altare della navata centrale dell’antica cattedrale.
Nessuno riusciva a strapparla da lì, né con la forza, né
con le preghiere: pareva essa stessa parte di quel legno che accoglieva
il corpicino della sua bambina.
Suo marito, Filippo Riela, vagava impazzito per le campagne.
Invano i carabinieri lo stavano ancora cercando.
Quando le campane suonarono a morto, don Tano ne udì ogni rintocco,
velenose serpi che, insinuandosi dalle sbarre confitte nella pietra arenaria,venivano
a inseguirlo e a morderlo fino nella sua cella.
Nello sforzo sovrumano di trattenere un disperato urlo, una sorta di ruggito
parve squarciargli il petto: s’appoggiò al muro, ansimante.
Empio, ma tale non riconoscendosi, egli si reputava tre volte giusto.
Per aver impartito il giusto, implacabile castigo alla nuora: a ché
quella vivesse tutta la vita con la consapevolezza che lei, lei sola,
con la sua dissennata condotta, disonorando la sua casa, aveva perduto
la figlia; tutta la vita con quel tormento.
Il giusto castigo al figlio: privato del presente, poiché senza
sua moglie; privato del futuro, per sempre senza sua figlia; privato del
passato, perché ormai senza suo padre; diseredato dei beni che
egli non aveva saputo custodire, da quella “cosa inutile” che
era.
Il giusto castigo a se stesso: col lutto di sua nipote aveva saldato i
conti col suo Dio per gli altri, troppi, lutti da lui inflitti nei suoi
lunghi anni.
Era stato pressoché invincibile l’istinto di rivolgere contro
di sé l’arma, dopo aver ucciso quella bambina che era stata
l’unico legame con la sua dimenticata umanità.
Pure egli l’aveva vinto, per vivere tutti gli anni che gli restavano
nello strazio lancinante di quel dolore che a ogni minuto rinfocolava.
Quella era stata l’ultima volta che la Regina Nera era stata vista
in paese e oramai erano passati quasi vent’anni.
L’ultima volta che Adelina aveva parlato con la professoressa Raja,
era stata lei a narrarle la storia della Regina Nera.
Ora si sforzava di ricordare come ci fossero arrivate a parlare di questa
leggenda che nel posto aveva radici antiche; rimise insieme le immagini
di quella giornata: stavano conversando della tragedia greca.
Si ricordò di un’osservazione della Raja su come mito e storia
fossero per gli antichi greci la medesima cosa.
“E del resto” aveva aggiunto la professoressa,“ancor oggi
questo modo di interpretare la vita non è così cambiato.
In questo posto, almeno, pare che non sia mutato affatto”.
Era nato così il racconto di quella storia.
Tuttavia, prima che la Raja potesse spiegarle cosa c’entrasse con
il suo ragionamento, anzi ancor prima che Adelina se ne rinvenisse dall’incanto
in cui l’aveva messa l’affabulazione, erano state interrotte.
Il cellulare della Raja aveva squillato e Adelina aveva ascoltato senza
volere le sue ultime parole: “Va bene, ti raggiungo lì, il
tempo della strada”.
Ignorava, Adelina, chi fosse l’altro interlocutore della conversazione,
ma ricordava bene di aver visto la Raja nervosa e turbata, mentre si allontanava
dopo un affrettato e distratto commiato.
Quella vicenda l’aveva raccontata cento volte al commissario e altre
cento al Procuratore, che l’avevano entrambi sentita in ragione della
scomparsa della Raja, ma nessuno ne aveva cavato alcunché.
Per l’ennesima volta si tormentava il cervello, cercando di rivedere
ogni fotogramma di quella giornata per verificare se ne avesse dimenticato
qualcuno che potesse, invece, rivelarsi utile.
Aveva percorso così un bel tratto di spiaggia, con i piedi scalzi
e i sandali in mano, mentre il quieto andare e venire dell’acqua
le lambiva ora le caviglie ora l’orlo della lunga gonna di garza.
Era minuta Adelina: minuto il viso bello e limpido, incorniciato da una
zazzera corvina.
Minute le sue ossa, minuti i seni, quasi adolescenziali, minuta sin nei
movimenti che esprimevano la grazia propria di una danzatrice, figura
che Adelina molto ricordava, come di certe étoiles parigine.
Era giunta, senza avvedersene, dove la spiaggia terminava in un’insenatura,
chiusa su un lato da un grosso scoglio.
Esso sbarrava l’accesso all’altro tratto di mare che proseguiva
ancora ma, mano a mano, arginato da una sempre più ripida scogliera.
A fare da ponte fra la scogliera e la verde campagna soprastante, stava
una piccola casa,con la facciata in pietra viva sbiancata dalla salsedine.
A quella casa, dal punto dove era Adelina, non si poteva accedere se non
entrando in acqua per aggirare lo scoglio massiccio, per poi percorrere
un pontile di legno dove stava ormeggiata una barchetta a remi.
Dal pontile si arrivava sin sulla piattaforma, antistante la casa di pietra,
sulla quale, con legno, reti da pesca e teli bianchi, era allestito una
sorta di patio.
Benché precario, pure esso faceva l’opera sua, consentendo
alla donna che lì abitava di godere, nell’ombra, la frescura
e il suono del mare.
Adelina risalì il pontile sin sulla piattaforma, con le gambe nude
su cui si appiccicava la garza della gonna.
Si trovò di fronte una donna che pareva senza tempo, magra, dinoccolata
:i capelli raccolti in una crocchia da cui tentavano di sfuggire;e a sfuggire,
talora,riuscivano raggiungendo le spalle di lei sin quasi alle reni.
“Buongiorno” salutò Adelina, esitante per essersi resa
conto di non sapere affatto cosa c’era andata a fare fin là,
fino alla casa della “magara”.
Già
perché quella era nota come la casa della “magara”,
termine che individuava la strega nella duplice accezione di guaritrice,
come di dispensatrice di morte: il senso dipendeva solo dal tono con cui
la parola si pronunciava; e del resto, in quel piccolo paese che viveva
di terra e di mare, quella donna, tanto sui generis, non meno che la fama
di maga, poteva essersi guadagnata.
“Buona giornata a te, Adelina” rispose per niente scomposta
la donna.
“Ma… Ma lei… Signora, mi conosce, io… Mi scusi, io
non la ricordo”, si stupì Adelina.
“Io di questa terra conosco uomini e cose, figghia mia! Ogni pietra,
ogni animale, ogni luna e ogni marea; di ciascuna cosa conservo la storia…
Vinisti pi canusciri a sorti?” concluse, indicando col capo i tarocchi
che teneva sul tavolino.
“No, no!” si spaventò Adelina, che di queste cose aveva
un istintivo terrore; nemmeno la stessa Raja, pure lei appassionata di
tarocchi, era riuscita a vincerlo.
“Passavo…” disse.
Si rese conto, appena l’ebbe terminata, di quanto stupida fosse stata
la sua frase, posto che in quel luogo ci si doveva voler andare, perché
passare, proprio, non ci si poteva.
La donna sorrise, dondolando il capo e abbandonando la prosopopea che
era riservata agli ospiti che lì si recavano per farsi leggere
le carte.
“Adelinuzza, non c’è peccato nella conoscenza. Forse
non è vero che tu ti stai lambiccando nel cercare qualcosa? E se
no qua non ci saresti venuta…È l’ansia di sapere che
ti ci portò”.
Adelina cercò di essere più franca, come il parlare tranquillo
della donna meritava.
“Io non credo nella magia, è solo quello signora”.
La donna si fece seria e scura. “E sbagli… considera, Adelina,
qual è la magia più potente?”.
Adelina alzò le spalle, il discorso prendeva una piega imprevista.
La donna continuò: “È la memoria, Adelina, la memoria…
Chi conosce il passato, solo chi conosce il passato, ha speranza di comprendere
il presente, e perciò il dono di divinare il futuro, mi capisti?
E ora vattinni, va’! E metti a frutto quanto ti dissi”.
La frase della donna pareva quasi una divinazione, era come se avesse
veduto la grande angoscia che la rodeva.
La ragazza, quasi d’istinto, ripensò al suo passato: c’era
come una sorta di maledizione nella sua vita. In un modo o nell’altro,
le persone che più aveva amato la lasciavano.
Prima la malattia di sua madre, che ormai era a un punto tale che erano
rari i suoi momenti di lucidità, poi la morte di suo padre.
Nei suoi brillanti studi universitari aveva conosciuto la professoressa
Raja.
Era subito scattato qualcosa tra le due. La Raja rappresentava il nord
di Adelina, Adelina la figlia che la Raja non aveva avuto; ma al di là
dell’affetto, c’era fra le due un’affinità intellettuale,
un medesimo sentire, che le rendeva sorprendentemente vicine, come se
l’una fosse il divenire dell’altra.
E adesso anche la Raja se n’era andata.
Non un biglietto, non una telefonata, non un abbraccio.
Era sparita così, come inghiottita dal mare.
Adelina non se ne capacitava, né dava retta alle voci del paese:
non se ne sarebbe andata mai così di propria volontà, le
era di certo accaduto qualcosa; ma, nonostante le ricerche, sino a quel
punto nessuno aveva saputo cosa.
No, non si sarebbe rassegnata.
Questa volta Adelina non si voleva rassegnare affatto. Per conto suo,
diffidando degli “sbirri”, s’incaponì nella volontà
di ritrovare, da sola, la Raja.
(...)
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