i quaderni di Cico
 
 

 

"Il vento di maestrale tirava forte, portando fin sopra la collina l’odore del mare, appiccicandole addosso le vesti nere, che malamente le ricadevano sul corpo, come consunto da un’antica malattia; ondeggiando sotto la sferza del vento, quella figura pareva uno spirito maligno scaturito da una voragine della terra sottostante".

titolo: "L'arcano minore"
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ollana i quaderni di Cico
autore: Francesca Garigliano
ISBN 978-88-97424-63-5
€ 13,00 - pp.205 - © 2013 - in copertina,“Reina Negra”, by Sebastiano Bongi Tomà - (www.sbtphotographer.eu)


In un quieto paesino sul mare della Sicilia, un empio delitto d’onore, che vendica un torto (solo supposto) su una innocente creatura, turba le coscienze di ciascuno, al punto da riportare alla memoria un altro delitto remoto nel tempo, legato a una tragica leggenda, quella della “Regina Nera”, mefitica presenza che, di secolo in secolo, si tramanda ammorbi l’intera comunità. Agueda Alonso Raja, che in paese è tornata a vivere dopo molti anni di assenza e che lavora come docente universitaria nel vicino capoluogo, narra l’uno e l’altra all’allieva preferita, Adelina Arangio, nel corso del loro ultimo incontro. Dopodiché, misteriosamente, la professoressa scompare...


ordinalo senza spese di spedizione

 

Tuttavia, dalle pagine della tesi di laurea di Adelina, custodita tra i documenti della professoressa e consegnati all’ostinato Commissario Cutaia, scivola fuori una carta, il 12 di picche, una Regina Nera. La carta è un arcano minore che appartiene a un misterioso mazzo di tarocchi: essa diventa la cifra per decodificare una criptica serie di coincidenze tutte accomunate da uno stesso filo rosso...

 
Leggi l'intervista all’autrice a cura di Giuseppe Iannozzi

 

 

Brano tratto da: "L'arcano minore"

(...)

Il vento di maestrale tirava forte, portando fin sopra la collina l’odore del mare, appiccicandole addosso le vesti nere, che malamente le ricadevano sul corpo, come consunto da un’antica malattia; ondeggiando sotto la sferza del vento, quella figura pareva uno spirito maligno scaturito da una voragine della terra sottostante.
Dal foulard nero emergeva lo spettrale livore di un viso indurito come da un gelo di morte.
Non poteva di più stridere, quell’oscura e funebre figura, con l’esplosione di vita che tutto intorno increspava le onde dorate di spighe, con il rosso acceso dei papaveri che, dalla pianura che si stendeva a perdita d’occhio alle sue spalle, salivano a vestire di festa la collina.
Ai suoi occhi le palme che, dal vasto parco della villa, giungevano fino al mare, anch’esse sferzate dal maestrale, le si mostrarono come supplici disperate in un inutile opporsi alla tragedia che già si consumava.
Anche il mare, nel punto dell’orizzonte in cui convergeva con il cielo, quietando un ribollire di turchese e bianco, le parve gonfiarsi quasi a comporre la figura di un antico dio, adirato dall’empietà incombente.
Lo intese pronto all’implacabile vendetta per il gesto terribile che andava a compiersi in spregio di ogni legge: umana, come divina.
Ma lei non ebbe orecchie per le supplici, né timore di Dio, e rimase senza muovere muscolo a fissare l’auto scura che, percorrendo il lungo sentiero del parco, era già giunta alla porta della grande villa.
Dal retro di essa era uscito poco prima un uomo che la vita aveva appena sconfitto: anche l’ultima speranza era morta.
Non sarebbe mai riuscito a portare via da lì la donna che vi abitava: la madre che era diventata aveva vinto su tutto, sulla donna che era stata, sullo stesso istinto di sopravvivenza.
Inutilmente, egli aveva, anni prima, lasciato l’Isola per costruire un futuro che avrebbe strappato la donna che amava da un matrimonio impostole con un ricatto spregevole.
L’aveva saputo,certo che lo aveva saputo, che lei era diventata madre.
Ma nell’ostinazione del suo amore egli aveva pensato a quella creatura, a quella bambina, come a sua figlia e anche per lei aveva alacremente lavorato.
Si era costruito una posizione e un rifugio sicuro, al di là dell’oceano, dove nessuno li avrebbe mai più rintracciati.
Dopo tre anni, un tempo esiguo che gli era parso smisurato, infine era tornato per portarsi via la madre e la figlia.
Quando si era trovato dinnanzi la donna che così tenacemente amava,aveva compreso che tutto era stato inutile: per quanto quella lo avesse amato o lo amasse, per quanto fosse ridotta all’ombra di sé stessa nella prigione di quella casa, a tutto ciò non si sarebbe sottratta.
Troppa in lei la paura di essere cercata e trovata, troppa la paura che le avrebbero strappato sua figlia: aveva rinunciato a tutto, agli studi universitari, al suo amore, alla sua stessa vita; ma non avrebbe mai corso il rischio che sua figlia, l’unico bene veramente suo rimastole sulla terra, le fosse sottratta per essere allevata da mani assassine.
Dalla macchina scese l’anziano signore nel suo impeccabile abito scuro, dopo che l’autista gli ebbe aperto la portiera; la domestica era già corsa all’uscio ad accogliere il suo padrone e questi entrò quasi senza guardarla, dirigendosi verso il salottino da cui proveniva il garrulo vocio dell’adorata nipote.
Fu sull’uscio: alto, diritto, un viso insieme antico e nobile, come il suo portamento.
Nessuno, che non ne conoscesse la fama o non ne avesse sperimentato le gesta, avrebbe mai indovinata o creduta l’implacabile e spietata condotta che lo aveva reso, nel tempo, ricco, temuto e onnipotente.
Vide sua nuora seduta sul divano di broccato rosso su cui spiccavano le trame di dorati ricami, pallida ancora più di sempre: recava sul viso i segni di un troppo recente pianto.
Sullo stesso divano sedeva il fratello di lei, magro e nervoso, mentre tentava di sfogliare una rivista, con la piccola Lucrezia che sedeva al centro.
“Don Tano…Siete voi. Bentornato a casa” tentò di dire l’uomo stentatamente e in modo così nervoso che avrebbe immancabilmente ingenerato sospetto in un uomo come don Tano, se questi non avesse già avuto le sue certezze.
Questi non gli rispose, alzò un poco lo sguardo sino all’antico dipinto che sovrastava il divano raffigurando un volto di Madonna così triste che sempre egli aveva pensato essere il volto dell’Addolorata.
“Nonno, nonnino, guarda che bella macchina!” balzò in piedi la piccola Lucrezia, strappando di mano allo zio la rivista su cui faceva bella mostra un’auto rossa.“Diglielo tu allo zio che è vero che domani la compriamo!”.
Solo allora don Tano parlò con una voce velata, come velati erano i suoi occhi.
Lentamente, estraendo l’arma dalla giacca, rispose: “Non c’è il tempo, amore del nonno…Non c’è più tempo, tesoro mio” e, abbracciando la piccina, premette il grilletto.
Lo sparo trapassò i gemiti del palmizio sino al mare e dal petto del dio rimbombò,portato dal suo urlo di vendetta,sino alla collina ai piedi della nera figura, fino al viso, come un bruciante e subitaneo schiaffo.
Il volto ancor più s’indurì in un ghigno, accompagnato dall’assenso del capo, mentre il corpo, le pareva, si liberava dalla malattia che lo aveva, fino ad ora, consumato.
La donna sussultò, come rinvenendo da una secolare apnea.
Infine corse via, giù dalla collina, incespicando, ferendosi, senza nulla sentire, avvolta nel nero del suo odio.
Ai piedi della collina, s’accorse della ragazzina e la riconobbe.
La piccola cercò di scappare, ma lei l’avvinghiò, la sollevò di peso.
“Mi hai seguito, maledetta strega… Strega sei, come a tua madre! Ma che vai cercando? Bada bene che se fiati ti ammazzo. Anche una sola parola e io ti trovo anche all’inferno!”.
La ragazzina tremava, eppure cercava in ogni modo di divincolarsi.
La donna la strattonò ancor di più.
“Capisti, ah? Capisti? All’inferno vi trovo, a te e a tua madre!”.
La ragazzina s’irrigidì, la guardò come se volesse incenerirla con lo sguardo, ma assentì col capo.
Veniva gente. Lei la spinse a terra e continuò a scappare.
La ragazzina rimase lì, tremando per un freddo che le si spandeva in corpo dalle ossa: la trovò un contadino ancora in quello stato e alla domanda “Ma chi fu, chi successi?”, la ragazzina disse solo tre parole: “La Regina Nera”.
“A Rigina nira!”. Il contadino si portò le mani ai capelli. “A Rigina Nira!”, e si precipitò a rotta di collo al paese, trascinandosi appresso la ragazzina, quasi fosse stata niente più che una “pupa” di pezza.
Sul tappeto color giallo oro una macchia carminia si allargava ai piedi dell’uomo, come se il vento avesse scoperto fra le spighe un rigoglio di papaveri.
Mentre abbassava il braccio lentamente, con l’arma ancora stretta in pugno, sordo alle urla, fermo nello scompiglio, gli penetrava dentro il dolore d’ogni vittima di cui negli anni aveva ordinato la morte ai suoi sicari, lo strazio, fin nelle carni, di ogni familiare lasciato nel lutto.
Fissò lo sguardo sul dipinto della Madonna Addolorata: fu l’ultima immagine che serbò della sua casa.

Una Madonna Addolorata pareva pure quella donna, irrefrenabilmente scossa lungo ogni muscolo dai singhiozzi, senza più voce, senza più lacrime, senza più sangue, avvinghiata alla piccola bara bianca posta ai piedi dell’altare della navata centrale dell’antica cattedrale.
Nessuno riusciva a strapparla da lì, né con la forza, né con le preghiere: pareva essa stessa parte di quel legno che accoglieva il corpicino della sua bambina.
Suo marito, Filippo Riela, vagava impazzito per le campagne.
Invano i carabinieri lo stavano ancora cercando.
Quando le campane suonarono a morto, don Tano ne udì ogni rintocco, velenose serpi che, insinuandosi dalle sbarre confitte nella pietra arenaria,venivano a inseguirlo e a morderlo fino nella sua cella.
Nello sforzo sovrumano di trattenere un disperato urlo, una sorta di ruggito parve squarciargli il petto: s’appoggiò al muro, ansimante.
Empio, ma tale non riconoscendosi, egli si reputava tre volte giusto.
Per aver impartito il giusto, implacabile castigo alla nuora: a ché quella vivesse tutta la vita con la consapevolezza che lei, lei sola, con la sua dissennata condotta, disonorando la sua casa, aveva perduto la figlia; tutta la vita con quel tormento.
Il giusto castigo al figlio: privato del presente, poiché senza sua moglie; privato del futuro, per sempre senza sua figlia; privato del passato, perché ormai senza suo padre; diseredato dei beni che egli non aveva saputo custodire, da quella “cosa inutile” che era.
Il giusto castigo a se stesso: col lutto di sua nipote aveva saldato i conti col suo Dio per gli altri, troppi, lutti da lui inflitti nei suoi lunghi anni.
Era stato pressoché invincibile l’istinto di rivolgere contro di sé l’arma, dopo aver ucciso quella bambina che era stata l’unico legame con la sua dimenticata umanità.
Pure egli l’aveva vinto, per vivere tutti gli anni che gli restavano nello strazio lancinante di quel dolore che a ogni minuto rinfocolava.

Quella era stata l’ultima volta che la Regina Nera era stata vista in paese e oramai erano passati quasi vent’anni.
L’ultima volta che Adelina aveva parlato con la professoressa Raja, era stata lei a narrarle la storia della Regina Nera.
Ora si sforzava di ricordare come ci fossero arrivate a parlare di questa leggenda che nel posto aveva radici antiche; rimise insieme le immagini di quella giornata: stavano conversando della tragedia greca.
Si ricordò di un’osservazione della Raja su come mito e storia fossero per gli antichi greci la medesima cosa.
“E del resto” aveva aggiunto la professoressa,“ancor oggi questo modo di interpretare la vita non è così cambiato. In questo posto, almeno, pare che non sia mutato affatto”.
Era nato così il racconto di quella storia.
Tuttavia, prima che la Raja potesse spiegarle cosa c’entrasse con il suo ragionamento, anzi ancor prima che Adelina se ne rinvenisse dall’incanto in cui l’aveva messa l’affabulazione, erano state interrotte.
Il cellulare della Raja aveva squillato e Adelina aveva ascoltato senza volere le sue ultime parole: “Va bene, ti raggiungo lì, il tempo della strada”.
Ignorava, Adelina, chi fosse l’altro interlocutore della conversazione, ma ricordava bene di aver visto la Raja nervosa e turbata, mentre si allontanava dopo un affrettato e distratto commiato.
Quella vicenda l’aveva raccontata cento volte al commissario e altre cento al Procuratore, che l’avevano entrambi sentita in ragione della scomparsa della Raja, ma nessuno ne aveva cavato alcunché.
Per l’ennesima volta si tormentava il cervello, cercando di rivedere ogni fotogramma di quella giornata per verificare se ne avesse dimenticato qualcuno che potesse, invece, rivelarsi utile.
Aveva percorso così un bel tratto di spiaggia, con i piedi scalzi e i sandali in mano, mentre il quieto andare e venire dell’acqua le lambiva ora le caviglie ora l’orlo della lunga gonna di garza.
Era minuta Adelina: minuto il viso bello e limpido, incorniciato da una zazzera corvina.
Minute le sue ossa, minuti i seni, quasi adolescenziali, minuta sin nei movimenti che esprimevano la grazia propria di una danzatrice, figura che Adelina molto ricordava, come di certe étoiles parigine.
Era giunta, senza avvedersene, dove la spiaggia terminava in un’insenatura, chiusa su un lato da un grosso scoglio.
Esso sbarrava l’accesso all’altro tratto di mare che proseguiva ancora ma, mano a mano, arginato da una sempre più ripida scogliera.
A fare da ponte fra la scogliera e la verde campagna soprastante, stava una piccola casa,con la facciata in pietra viva sbiancata dalla salsedine.
A quella casa, dal punto dove era Adelina, non si poteva accedere se non entrando in acqua per aggirare lo scoglio massiccio, per poi percorrere un pontile di legno dove stava ormeggiata una barchetta a remi.
Dal pontile si arrivava sin sulla piattaforma, antistante la casa di pietra, sulla quale, con legno, reti da pesca e teli bianchi, era allestito una sorta di patio.
Benché precario, pure esso faceva l’opera sua, consentendo alla donna che lì abitava di godere, nell’ombra, la frescura e il suono del mare.
Adelina risalì il pontile sin sulla piattaforma, con le gambe nude su cui si appiccicava la garza della gonna.
Si trovò di fronte una donna che pareva senza tempo, magra, dinoccolata :i capelli raccolti in una crocchia da cui tentavano di sfuggire;e a sfuggire, talora,riuscivano raggiungendo le spalle di lei sin quasi alle reni.
“Buongiorno” salutò Adelina, esitante per essersi resa conto di non sapere affatto cosa c’era andata a fare fin là, fino alla casa della “magara”.

Già perché quella era nota come la casa della “magara”, termine che individuava la strega nella duplice accezione di guaritrice, come di dispensatrice di morte: il senso dipendeva solo dal tono con cui la parola si pronunciava; e del resto, in quel piccolo paese che viveva di terra e di mare, quella donna, tanto sui generis, non meno che la fama di maga, poteva essersi guadagnata.
“Buona giornata a te, Adelina” rispose per niente scomposta la donna.
“Ma… Ma lei… Signora, mi conosce, io… Mi scusi, io non la ricordo”, si stupì Adelina.
“Io di questa terra conosco uomini e cose, figghia mia! Ogni pietra, ogni animale, ogni luna e ogni marea; di ciascuna cosa conservo la storia… Vinisti pi canusciri a sorti?” concluse, indicando col capo i tarocchi che teneva sul tavolino.
“No, no!” si spaventò Adelina, che di queste cose aveva un istintivo terrore; nemmeno la stessa Raja, pure lei appassionata di tarocchi, era riuscita a vincerlo.
“Passavo…” disse.
Si rese conto, appena l’ebbe terminata, di quanto stupida fosse stata la sua frase, posto che in quel luogo ci si doveva voler andare, perché passare, proprio, non ci si poteva.
La donna sorrise, dondolando il capo e abbandonando la prosopopea che era riservata agli ospiti che lì si recavano per farsi leggere le carte.
“Adelinuzza, non c’è peccato nella conoscenza. Forse non è vero che tu ti stai lambiccando nel cercare qualcosa? E se no qua non ci saresti venuta…È l’ansia di sapere che ti ci portò”.
Adelina cercò di essere più franca, come il parlare tranquillo della donna meritava.
“Io non credo nella magia, è solo quello signora”.
La donna si fece seria e scura. “E sbagli… considera, Adelina, qual è la magia più potente?”.
Adelina alzò le spalle, il discorso prendeva una piega imprevista.
La donna continuò: “È la memoria, Adelina, la memoria… Chi conosce il passato, solo chi conosce il passato, ha speranza di comprendere il presente, e perciò il dono di divinare il futuro, mi capisti? E ora vattinni, va’! E metti a frutto quanto ti dissi”.
La frase della donna pareva quasi una divinazione, era come se avesse veduto la grande angoscia che la rodeva.
La ragazza, quasi d’istinto, ripensò al suo passato: c’era come una sorta di maledizione nella sua vita. In un modo o nell’altro, le persone che più aveva amato la lasciavano.
Prima la malattia di sua madre, che ormai era a un punto tale che erano rari i suoi momenti di lucidità, poi la morte di suo padre.
Nei suoi brillanti studi universitari aveva conosciuto la professoressa Raja.
Era subito scattato qualcosa tra le due. La Raja rappresentava il nord di Adelina, Adelina la figlia che la Raja non aveva avuto; ma al di là dell’affetto, c’era fra le due un’affinità intellettuale, un medesimo sentire, che le rendeva sorprendentemente vicine, come se l’una fosse il divenire dell’altra.
E adesso anche la Raja se n’era andata.
Non un biglietto, non una telefonata, non un abbraccio.
Era sparita così, come inghiottita dal mare.
Adelina non se ne capacitava, né dava retta alle voci del paese: non se ne sarebbe andata mai così di propria volontà, le era di certo accaduto qualcosa; ma, nonostante le ricerche, sino a quel punto nessuno aveva saputo cosa.
No, non si sarebbe rassegnata.
Questa volta Adelina non si voleva rassegnare affatto. Per conto suo, diffidando degli “sbirri”, s’incaponì nella volontà di ritrovare, da sola, la Raja.

(...)

 

 

 

Francesca Garigliano, avvocato penalista, ha difeso nei principali processi per mafia celebratisi a Catania negli ultimi vent’anni.
Del 2009 è il suo primo romanzo “L’estate di Mirissi”, che ha ottenuto una segnalazione al premio letterario Gesualdo Bufalino ed è stato premiato al concorso letterario L’Iride - Città di Cava de’ Tirreni. Dal 2012 è socia del Circolo Unione di Racalmuto, in pratica la “casa” di Leonardo Sciascia.

Questo è il suo secondo libro.