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Brano
tratto da "GENESI DI UN DELIRIO"
19 febbraio
Nonostante
l’evidente reticenza, le bertucce vennero fatte accomodare nella
gabbietta a tenuta stagna con le pareti di vetro temperato.
Betty era un esemplare vivace e spigliato, dotato di un’intelligenza
acuta, al punto che Aimo Viale si convinse fosse in grado di percepire
che quella dimora provvisoria, in realtà, sarebbe potuta presto
diventare definitiva; la diffidenza con cui vi si era avvicinata la si
poteva intuire chiaramente dagli atteggiamenti.
Casper invece aveva un’indole più mansueta, ma non per questo
dimostrava minore perspicacia, semmai un atteggiamento misurato che sfociava
nella tenerezza.
Forse fu solo una forma di suggestione, ma gli occhietti vispi dei primati
sembrarono impregnarsi di consapevole tristezza nel momento stesso in
cui incrociarono quelli del professore, il quale si stava apprestando
ad aprire la valvola che avrebbe permesso alla sostanza nebulizzata di
insinuarsi subdolamente nella gabbia e immediatamente dopo, con imbarazzante
efficacia, nei polmoni delle scimmiette.
Nonostante Viale, nella sua decennale carriera di ricercatore, avesse
sperimentato ogni forma di shock indotto da gas nervini su cavie, la reazione
di Betty all’inalazione dell’aerosol non lo lasciò indifferente.
La piccola bertuccia iniziò a dibattersi convulsamente, emettendo
strazianti versi colmi di sofferenza. Subito dopo cadde per terra in uno
stato di apparente catalessi, ma in preda a incontrollabili contrazioni
muscolari di chiara derivazione tetanica. Aveva gli occhi spalancati.
Poi cercò di trattenere dei colpi di tosse - almeno così
a lui parve - senza riuscirvi, e dalla bocca le fuoriuscì un rivolo
di sangue.
Casper la guardava con apprensione, ma senza presentare il benché
minimo segnale di disagio fisico. Per Aimo Viale era la prova provata
di un successo insperato ma fortemente voluto, anche se finora soltanto
parziale. L’uomo guardò l’orologio e decise che poteva
bastare; chiuse la valvola del gas e aprì il condotto di aspirazione
affinché le particelle residue confluissero nella camera di decontaminazione.
Quindi si sistemò la mascherina su bocca e naso e, con una cautela
che non gli apparteneva, aprì la gabbia. Estrasse con delicatezza
Betty, ancora sotto l’effetto degli spasmi muscolari. Doveva fare
in fretta, aveva a disposizione meno di tre minuti. Adagiò la scimmia
sul lettino metallico e prese dal frigo un piccolo flacone di vetro contenente
una soluzione incolore. Lo scaldò per pochi attimi nel palmo della
mano chiusa a pugno, quindi lo aspirò con una siringa per iniezioni
insuliniche e si accostò a Betty. Con l’indice cercò
l’arteria omerale sulla zampa anteriore e vi iniettò il liquido.
Guardò nuovamente l’orologio; se aveva fatto bene i calcoli
ci sarebbero voluti al massimo trenta secondi.
La bertuccia sembrò rilassarsi. Decontrasse ogni muscolo del corpo,
smise di tossire e abbassò le palpebre.
Venti secondi.
Viale venne sopraffatto da un senso di scoramento; Betty sembrava volesse
abbandonarlo.
Trenta secondi.
Il tempo era scaduto, la scimmia esanime. Era un peccato, un vero peccato.
Per la bertuccia e per le sue aspettative, per i kurdi, per i tutsi, e
per decine di etnie sparse in ogni angolo della Terra.
Poi la vide. Vide la zampa che si muoveva, subito dopo la testa, le palpebre,
il goffo tentativo di tirarsi su. Sì, sì, Betty ce l’aveva
fatta! E lui insieme a lei.
Casper, che sembrava aver seguito l’evolversi della situazione con
aria sconsolata, ebbe un sussulto quasi che si fosse perfettamente reso
conto dell’accaduto. Lui, per Viale, era davvero il frutto maturo
di una lunga sperimentazione. Nei tre mesi precedenti gli erano state
somministrate due dosi di una soluzione proteica satura di cereolisina,
una tossina sintetizzata dalle spore del Bacillus anthracis, nella quale
la carica batterica del bacillo era stata ridotta al dieci per cento della
sua normale potenzialità tossica, quel tanto necessario per stimolare
il sistema immunitario del primate alla produzione di anticorpi specifici,
senza provocare gli effetti sintomatici tipici del ceppo in questione
e dei quali era stata invece sopraffatta Betty; crisi tetaniche, febbre
emorragica bronchiale, lesioni granulomatose, che avrebbero indotto in
pochi minuti a una morte atroce quanto inevitabile. Fino ad allora. Un
vaccino contro il più letale dei batteri presenti in natura e un
antidoto per renderlo inoffensivo.
Aimo Viale era un accanito sostenitore dei diritti umani e della pace
nel mondo e il suo progetto non aveva alcunché di autocelebrativo
né, tanto meno, puzzava di business; al contrario sarebbe stata
un’opportunità di salvezza per tutte quelle minoranze discriminate,
costantemente sotto la minaccia di sanguinarie dittature che avevano individuato
nella guerra biologica il mezzo più efficace per lo sterminio di
massa. E ora, alla faccia di tutti questi psicopatici che rivendicavano
per tramite del fondamentalismo religioso un pretesto morale per la pulizia
etnica, non restava che un ultimo passaggio; la sperimentazione clinica.
Aveva già contattato qualche volontario, che a suon di euro e di
rassicurazioni era stato convinto a testare il vaccino.
Nel frattempo
lo scienziato aveva una missione ancora più importante da compiere
ed entro pochi giorni avrebbe saputo se il suo nome sarebbe rimasto impresso
per sempre nelle pagine della storia.
PARTE
PRIMA
paradigma genetico
30 marzo
Quando Aimo
Viale varcò l’uscita secondaria dell’ufficio al piano
terra in Via Lungo Tevere Ripa, aveva stampata sul volto l’espressione
inebetita dell’ingenuo scolaretto che strappa il primo appuntamento
alla più bella della classe. Eppure, come biasimare la naturalezza
con cui un uomo navigato lasciava trasparire l’emozione; in fondo,
era l’avverarsi di un desiderio.
“L’importante, caro Viale,” gli aveva confidato il Presidente
del Consiglio Superiore di Sanità, “è che questa conversazione...
lei intende, che questa conversazione non abbia mai avuto luogo.”
Beh, fosse stato per lui, non l’avrebbe saputo neppure San Pietro
quando l’avesse accolto sulla soglia del Paradiso. Già, perché
lui in Paradiso ci sarebbe andato di sicuro.
Non era stato facile. Per convincere il Ministro a concedergli l’udienza
con il Presidente aveva mobilitato, in via del tutto informale s’intende,
i conoscenti dell’ambiente diplomatico milanese che lui, bontà
sua, aveva modo di frequentare. Il fatto è che non si trattava
soltanto di una questione burocratica; era soprattutto un problema di
ordine morale. Nel mondo scientifico si vociferava da tempo del suo progetto
e un coinvolgimento delle cariche politiche, o peggio, il benestare istituzionale,
sarebbe stato il fondato pretesto per puntare l’indice contro la
maggioranza - del cui appoggio si era giovato, e non poco, nel corso delle
sue iniziative sperimentali - e reclamare a gran voce una crisi di governo.
Sapeva bene che l’opposizione non aspettava altro.
“Lei capisce che lo stanziamento di fondi statali dipende dall’apertura
di una pratica… insomma, si tratta di un atto ufficiale. Ogni movimento
di bilancio richiede un criterio di rintracciabilità…”
“Ma io non vi sto chiedendo un finanziamento! Il Ministro lo sa bene,
pensavo ne fosse al corrente anche lei. Ormai sono nella fase terminale
del mio percorso. è sufficiente l’autorizzazione a procedere
e il passaporto per aprire le porte delle stanze in cui adesso mi è
proibito entrare. Nient’altro.”
“Senta, in realtà il Ministro mi ha fatto intendere di aver
già deciso. Se non si tratta di una questione prettamente economica,
per sbrigare le formalità tecniche credo di poterle dare l’appoggio
di cui necessita.”
E così aveva ottenuto le chiavi di accesso. Telefonate sicure piuttosto
che messaggi scritti su carta priva del timbro ministeriale e di firma
in calce.
Tanto gli bastava.
All’incontro
organizzato presso la sala del Consiglio del Ministero della Salute parteciparono
soltanto in tre, gli unici a esserne a conoscenza. Erano le 23,15 del
30 marzo.
Il Ministro era seduto in testa al lungo tavolo di mogano, con il capo
chino e le mani intrecciate sul piano, quasi che stesse pregando. In realtà
stava facendo roteare vorticosamente i pollici, al ritmo dei suoi mille
pensieri.
L’atmosfera che permeava la stanza era carica di tensione e, nonostante
la famigliarità, nessuno sembrava avere il coraggio di violare
il silenzio con parole forse inopportune.
Un uomo alto, magrolino, leggermente ingobbito, tisico si sarebbe detto
solo qualche decennio addietro, camminava nervosamente con le mani in
tasca, lasciandosi alle spalle il rumore dei passi veloci sul pavimento
in cotto fiorentino. “Hai fatto la cosa giusta, Adalberto” interruppe
l’imbarazzo il Presidente del C.S.S., rivolgendosi al Ministro.
“Non so. Non credo che neppure le dittature più sanguinarie
abbiano mai concesso tanto alla scienza. Cercando di leggere nel futuro,
voglio dire. Se mai dovesse venire a sapersi negli ambienti vaticani…”
“Andiamo! La tua è la prospettiva più infausta! D’altronde
la storia insegna. Essere buoni cattolici non vuol dire necessariamente
restare fedeli a teorie retrograde e ottuse. E poi hai detto bene tu,
non dimentichiamolo mai, si tratta di una concessione fatta in assoluta
buona fede e con propositi umanitari e progressisti.”
“La buona fede potrebbe essere una giustificazione insufficiente.”
“Sono sicuro che tra qualche anno ti sentirai completamente gratificato
da questa scelta.” Il Presidente era un uomo assolutamente pragmatico,
eletto dal Ministro a propria guida e mentore qualche anno prima, quando
una sua intuizione gli aveva permesso di aggirare un ostacolo compromettente
legato alla privacy sulla via che l’avrebbe portato alla leadership
del partito.
Il favore gli era stato elargito in buona fede, con formula del tutto
altruistica, senza il seppur minimo, giustificabile, intento opportunistico.
Lui l’aveva capito, rendendolo oggetto della sua incondizionata gratitudine.
“Auguriamoci solo che non ci siano risvolti imprevisti e… soprattutto
incontrollabili.” A parlare fu per la prima volta il Sottosegretario
di Stato del Ministero della Salute, il solo dei tre che fin da subito
non aveva espresso soltanto perplessità, bensì insindacabile
contrarietà al progetto. “Basterebbe una fuga di notizie.”
Lo sguardo del Ministro andò subito a cercare il volto amico, in
attesa di parole ed espressioni rassicuranti.
“Non accadrà. Siamo solo in cinque a sapere.”
“Al laboratorio ci sono gli assistenti…”
“Gli assistenti, tranne uno, conoscono solo una verità parziale,
lo sai bene. Non hanno elementi sufficienti per arrivare a conclusioni
di pericolosa pertinenza. E non ne hanno nemmeno il motivo.”
“Questo è quanto ti ha assicurato Viale. Tu sottovaluti l’avidità
dell’animo umano, mio caro. E il direttore del carcere? E la psicologa
che ha seguito il caso?”
“Al direttore verrà propinata una verosimile storiella di
sperimentazioni in vitro; non farà domande. Quanto alla psicologa,
ne ha più di trecento da seguire. Cosa ti fa pensare che abbia
voglia di ficcare il naso in affari che non sono più di sua competenza?”
“Tu lo sai su cosa vuole intervenire Viale?”
“L’esperto non sono io. Conosco il progetto nelle sue linee
generali, ma so a quali benefici può farci arrivare.”
“Bene, allora lascia che te lo dica. Lui interverrà andando
a stimolare l’amigdala, una piccola porzione della parte corticale
del cervello. Modificazioni dell’amigdala possono indurre reazioni
controverse. Stimola il rilascio di ormoni che innescano reazioni emozionali
in grado di scatenare fenomeni imponderabili quali la collera piuttosto
che la gioia, l’aggressività invece della tolleranza, impulsività
al posto del raziocinio. Non è assolutamente gestibile in concomitanza
con patologie neuropsichiatriche in atto. In sostanza, non sappiamo dove
si andrà a parare.”
“è indispensabile che quell’uomo, quel carcerato, non
risulti mai esistito.” Il Ministro si inserì nella discussione
con voce pacata. “Ogni informazione che lo riguarda va fatta sparire,
atti giudiziari e processuali inclusi. Nome, cognome, certificato di nascita,
impronte digitali. Non è mai nato né vissuto.”
“è stato scelto proprio perché nessuno possa ricordarsi
di lui. Non ha famiglia né amici; in tredici anni nessuno è
mai andato a trovarlo, e io ho l’uomo giusto in grado di cancellare
ogni traccia della sua esistenza in questo mondo. E poi, con il terremoto
che è successo in quelle zone nel novanta, non esisteranno neppure
più gli archivi. Il suo passato non è assolutamente ricostruibile.”
“Torno a ripetere che è un azzardo!” Il Sottosegretario
restava in totale disaccordo. “Io credo solo che questa esasperata
ricerca dell’immortalità non potrà che condurci al
parossismo genetico!”
“La tua è soltanto un’affermazione che avvalora l’inconfutabile
paradosso del tuo pensiero conservatore!”
“Adesso basta! Comunque sia,” il Ministro intervenne, questa
volta con autorità, quasi a stemperare un confronto che non aveva
più motivo d’essere, “il dovere supremo di guardare al
di là dell’orizzonte cui può arrivare il nostro stanco
sguardo, ci darà il coraggio di camminare sempre a testa alta.
Ricordiamoci che questa è la nostra vera missione. Adesso, se mi
scusate, sono molto provato, ho bisogno di riposare…” La decisione
era insindacabile, il politico non aveva nulla da aggiungere, piuttosto
sentiva il dovere di doversi confrontare con la propria coscienza da solo.
Così, con aria pensierosa, scostò la sedia e si alzò,
trascinandosi stancamente fuori dalla stanza senza nemmeno accennare a
un saluto.
28 aprile
La strada
che conduceva al penitenziario era decisamente dissestata, costellata
da enormi crateri ricolmi dell’acqua piovana del recente acquazzone.
Era stato, quello appena trascorso, un inverno per certi versi anomalo;
freddo pungente ai primi di novembre, e poi temperature relativamente
miti per il resto della stagione, con frequenti precipitazioni, anche
intense. La primavera, dal canto suo, non stava lesinando sulla quantità
di acqua piovana da riversare su quel fazzoletto di Canavese. Aimo Viale
era un fine osservatore, sospinto costantemente dalla sua innata curiosità,
ma al momento non poteva godersi il paesaggio rurale della campagna ai
margini di periferia; era troppo intento nell’evitare le infide buche
nell’asfalto in degrado.
Fu accompagnato al colloquio col direttore dopo le severe procedure di
controlli e accertamenti; d’altra parte si trattava di un carcere
di massima sicurezza e non c’era premura che poteva dirsi superflua.
Era pur vero che, contrariamente alla prassi, la sua visita non era stata
preannunciata dall’invio di documentazione per la canonica trafila
cartacea, fatta di firme autenticate e timbri del Corpo, prevista dalla
relativa norma dell’Ordinamento Penitenziario.
Attraversando i corridoi della struttura per raggiungere la direzione
nell’ala opposta, superando le barriere che di volta in volta l’agente
accompagnatore provvedeva a rimuovere, Aimo Viale ebbe modo di elaborare
una serie di considerazioni, certo non pertinenti con la sua missione,
piuttosto con la presa di coscienza delle crude emozioni scatenate dall’ansietà
di cui quelle mura sembravano impregnate. Senza timore di imbattersi nei
luoghi comuni più frequenti, si domandò dove realmente finiva
la libertà prima di diventare prigionia. Non certo quella dell’essere
in quanto soggetto, la risposta in quel caso era evidente, quanto piuttosto
quella di relazione, quella dei sentimenti, quella su cui poggiava le
fondamenta la nostra capacità decisionale. C’era un confine
al di là del quale l’autonomia di ognuno di noi subiva dei
condizionamenti determinanti? Se sì, chi, cosa ci forzava la mano?
Sì, sì, l’educazione, l’ambiente, le amicizie
e la nostra genetica, d’accordo, valenti luoghi comuni, ma non era
sufficiente a giustificare i comportamenti più estremi.
Fu l’urlo di ribellione di un detenuto, rinchiuso chissà dove
e chissà da quando – lui certo non ne poteva vedere alcuno
– che gli suggerì lo spunto per poter sostenere di conoscere
la risposta; era la sofferenza. Psicologica, sentimentale, fisica. Il
che lo riportò – adesso sì c’era pertinenza –
al motivo stesso della sua presenza al carcere di Ivrea. La sofferenza
era quella di sua moglie, morta dopo un atroce calvario doloroso per un
tumore al cervelletto nove anni prima. La sofferenza con la esse maiuscola,
quella che lui, da allora, stava vivendo in prima persona e che l’aveva
indotto a concederle l’eutanasia all’insaputa dei medici. Ma
era stata un’eutanasia di coppia, e per lui un processo di morte
lento, silenzioso e irreversibile. Nonostante tutto, qualche anno dopo
aveva trovato nuova linfa vitale in un progetto di speranza.
“Il
detenuto Zelko Pavic era un pessimo soggetto, violento e imprevedibile,
ma credo che in fondo a lei non importi nulla” esordì il direttore
subito dopo i convenevoli di rito.
“No, diciamo che la sfera comportamentale mi interessa solo marginalmente”
replicò Aimo Viale non conoscendo affatto quali informazioni erano
state passate all’uomo sulla natura del suo intervento.
“Non potrà però esimersi dal colloquio con la psicoterapeuta
che si occupa dell’assistenza mentale ai carcerati, è una
formalità che va sbrigata, se non altro per evitare la curiosità
che si può innescare dall’eccezione.”
“Non è un problema.”
Poi ci fu un attimo di imbarazzante silenzio. Sembrava quasi che il direttore
stesse aspettando una spiegazione dovuta, mentre lui non sapeva fino a
che punto avrebbe potuto spingersi.
“Lei è la prima persona che riesce a entrare in questo istituto
senza un’autorizzazione scritta” affermò sottovoce l’uomo
attempato, “ma non mi deve chiarimenti, so stare al mio posto. Certo
è che mi riesce difficile credere a una sperimentazione di routine,
visto che questo non è un canale abituale, per usare un eufemismo...
lei intende, dal quale attingere il vostro materiale di lavoro. Sarà
che qui da noi non necessitate del permesso dei genitori.”
“Diciamo che non sono nelle condizioni di aggiungere molto a quanto
le è stato detto.”
“Va bene. Quando prevede di procedere con il prelievo? Tenga conto
che il cappellano ha fissato il funerale per dopodomani e dovendolo posticipare
mi occorrerebbe una motivazione più che plausibile.”
“Non sarà necessario. Domani mattina. Alle otto. Verrò
qua con l’attrezzatura e un mio assistente.”
“Bene, adesso venga con me,” disse l’uomo alzandosi dalla
sedia, “andiamo a incontrare la dottoressa Negri.”
Il suo compito
era assolutamente ingrato, ma lei lo aveva fatto per scelta o, come sosteneva
nelle discussioni con gli amici, per vocazione.
Più che di supporto psicologico si trattava di assistenza mentale
e i soggetti delle terapie non erano certo adolescenti disagiati, piuttosto
criminali di varia natura, dagli stupratori agli assassini, dagli spacciatori
ai camorristi.
“Buon giorno, professor Viale” gli porse la mano dalle lunghe
dita affusolate e priva di anelli. “Conosco e apprezzo la natura
dei suoi studi.”
‘Possibile?’ si chiese l’uomo.
“Ho letto alcuni dei suoi trattati.”
‘Ah, Ecco!’
Barbara Negri aveva uno sguardo penetrante che lasciava intuire una sicura
intraprendenza. Anche nei modi pareva spigliata, e nonostante l’ossequiosa
accoglienza, non sembrava affatto a disagio. “Immagino che il tessuto
non verrà utilizzato come substrato sperimentale in ambito clinico,
visto che la legge non consente…”
“Non credo di dover rendere conto proprio a lei del mio operato,
signorina… signorina?” l’interruppe bruscamente lo scienziato.
“Era pura curiosità” sembrò non risentirsi lei.
“Barbara. Barbara Negri.”
Aimo Viale non l’avrebbe definita una bella donna. Tuttavia, il modo
in cui si era proposta aveva sollecitato un nervo scoperto del suo carattere
dominante, per quanto sopito. Del resto era certo che la considerazione
appena esternata non fosse casuale. E sarebbe stato il caso, volle augurarsi
Aimo, che d’ora in avanti quell’insolente avesse tenuto a bada
la lingua.
“Vede professore, il detenuto Zelko Pavic era un soggetto in qualche
modo… particolare. Soffriva di crisi schizofreniche maniacali.”
“Bipolarismo?”
“Sì. Era senza dubbio afflitto da sindrome maniaco-depressiva.
I suoi disturbi dell’umore erano stati scatenati con buona probabilità
da problematiche affettive, in particolare dal rapporto con il padre.
è stato lui stesso a confidarmelo. Violenze. Fisiche e psicologiche,
perpetrate con assiduità nel corso della sua adolescenza.”
“Quindi il soggetto oscillava tra fasi maniacali e altre di depressione.”
“E nei tempi intermedi era assolutamente normale. Caratteristico.”
“Non mi dice nulla di nuovo, ma nella sua premessa aveva accennato
a un soggetto particolare.”
“Il complesso edipico.”
“Il complesso di Edipo? è sicura di voler scomodare Freud
per una patologia neurologica?”
“Vede, Pavic non ha fantasticato l’uccisione del padre. L’ha
messa in atto.”
Viale mostrò un’espressione perplessa. “Per possedere
la madre?”
“Si, dopo averla idealizzata. La particolarità sta nel fatto
che i suoi sintomi maniacali sfociavano sempre in deliri di onnipotenza
associati a disinibizione sessuale.”
“Cronico e delirante.”
“Ma soprattutto reattivo. Aveva bisogno di donne appartenenti a gruppi
ben definiti. Indirizzava la sua aggressività su giovani ragazze
indifese come sublimazione del delirio di grandezza, e poi infieriva con
delle firme corporali, delle quali a onor del vero sono venuta a conoscenza
più per deduzione che per una vera confessione. In realtà
non sarei in grado di descriverle.”
“Va bene, molto interessante, ma ci stiamo spingendo un po’
oltre ciò di cui mi serve sapere. A me interessa solo che la sua
condizione neuropsichiatrica non sia da ricondurre a problematiche anatomo-patologiche,
malattia di Hartington o metastasi cerebrali su tutto.”
“No, lo escluderei a priori.”
“Crisi di epilessia?”
“Mai registrate. Senta professore,” la psichiatra si avvicinò
all’uomo con fare suadente, “mi può confidare quale porzione
di tessuto intende prelevare? Sa, sono molto curiosa, ma al tempo stesso…”
si allontanò di scatto, “anche molto discreta.”
A Viale quella donna non era affatto simpatica, ma dovette riconoscere
che aveva la capacità di riuscire là dove pochi altri erano
stati in grado di far breccia; quel suo atteggiamento sfrontato, quel
fissarlo con insistenza negli occhi per parlargli e nell’ascoltarlo,
l’avevano messa nelle condizioni di procurargli una sorta di inquietudine
interiore, e in questo lui intravide un potenziale pericolo in vista della
fase cruciale del progetto. La sua perspicacia e la sua testardaggine
avrebbero potuto indurla a cercare una risposta a quella domanda, la qual
cosa avrebbe comportato il rischio di un’interferenza non accettabile.
Ora, lui aveva due possibilità; o non risponderle affatto, scatenando
l’ipotesi di cui sopra, o mentirle. Con un veloce ragionamento, tuttavia,
optò per la terza. Le avrebbe detto la verità, placando
così la sua inopportuna curiosità. “Parte dell’amigdala
sinistra.”
La donna corrucciò la fronte. “L’amigdala analizza le
esperienze correnti, confrontandole con il vissuto passato attraverso
un metodo associativo, giusto?”
“Eccellente preparazione, signorina. Adesso possiamo concludere…”
“L’amigdala,” lo incalzò lei “può scatenare
reazioni come il delirio prima che la corteccia sia in grado di elaborare
gli stimoli esterni su ciò che sta accadendo, in maniera del tutto
indipendente dal pensiero razionale, soprattutto nei soggetti sottoposti
a eventi traumatici affettivi nei primi anni di vita. Come Pavic.”
“Signorina! Signorina! Io ho risposto alla sua domanda e pensavo
che questo potesse bastare. Non sono venuto qua per fare un seminario
sull’importanza del sistema limbico nella fobia sociale. Per cui,
passiamo oltre! Avrei una certa fretta.”
“Senta, io non conosco come lei la chimica del cervello, ma più
volte mi è sorto il dubbio che i neuroni di Pavic potessero aver
subito delle modificazioni strutturali, non voglio dire una forma di mutazione
genetica, ma… è possibile che nel suo cervello l’influenza
dell’amigdala abbia preso il sopravvento sulla funzione di equilibrio
esercitata dalla neurocorteccia dei lobi frontali.”
“Non diciamo sciocchezze, dottoressa!” ‘Dove diavolo voleva
andare a parare quella donna?’ “Lei sa bene quanto me che l’unica
modificazione dimostrabile è quella della trasmissione elettrica
dell’impulso nervoso. è il suo campo di lavoro, se non sbaglio!
Per quanto riguarda l’azione dell’amigdala poi… lasciamo
perdere!” sbottò lo scienziato un po’ infastidito da
questa interferenza.
“Non sia così severo con me” ribatté lei con una
punta di sottile sarcasmo. “In fondo, a volte, con un’intuizione
si è cambiato il volto della storia.”
“Non credo sia questo il caso” liquidò il discorso Aimo
Viale.
“Se vogliamo venire al dunque…” intervenne finalmente il
direttore prevedendo aria di tempesta.
“Buon’idea” asserì insofferente il neurochirurgo.
“Innanzi tutto dovrei sapere in che modo è sopraggiunta la
morte.”
“Le interessa per una questione biochimica?” domandò
la donna con una tonalità che invitava all’armistizio.
“Sì. è una problematica legata al rilascio di endorfine
relazionabili al tipo di decesso; per cause naturali o patologiche? C’è
una sostanziale differenza nella quantità e nella tipologia.”
“Il che potrebbe interagire con la funzionalità del tessuto
e indurre modificazioni dell’integrità anatomica.”
“è un’ipotesi verosimile, ma deve essere confermata”
tagliò corto Viale
Barbara lanciò uno sguardo titubante al direttore. Toccava a lui
prendere la parola. “Ufficialmente,” attaccò con una
punta di incertezza nella voce, “è morto per arresto cardiaco.
Il detenuto era iperteso. Nella documentazione che le ha preparato la
dottoressa c’è anche il certificato di morte rilasciato dal
medico di turno. Come potrà vedere, non è stata predisposta
l’autopsia.”
“Nella realtà?” Aimo Viale aveva intuito dalla premessa
che le cose non erano andate del tutto lisce.
“Traumi ripetuti da colluttazione.”
Il professore inarcò le sopracciglia.
“C’è stato un tentativo di aggressione da parte di Pavic
a un agente, con conseguente corpo a corpo. Dopodiché è
accaduto l’inevitabile. Un paio di colleghi sono accorsi in aiuto
alla guardia e… sa come accade. Tutti loro sono animati da un considerevole
spirito di gruppo. Un calcio di troppo, in mezzo al torace. L’arresto
cardiaco non è un’invenzione.”
Aimo Viale ascoltava il racconto con espressione allibita. Il direttore
sembrava sinceramente dispiaciuto, ma nel contempo non riusciva a nascondere
un’orgogliosa soddisfazione per lo sviluppo positivo, a suo modo
di vedere, della vicenda. In cuor suo sapeva che, con un minimo di autocontrollo
– e forse di pietà – si sarebbe potuto evitare l’incidente,
ma tanti anni di esperienza e di vita carceraria l’avevano portato
ad approvare l’accaduto con solidale coscienza.
Fortuna loro, l’episodio era avvenuto in una zona isolata dell’ala
nord, lontano da occhi e orecchie indiscreti; diversamente, e il direttore
lo sapeva bene, si sarebbe scatenata una rivolta, con buona pace sua e
di una carriera nei quadri dirigenziali del Corpo.
“è naturale che le chiediamo cortesemente la massima discrezione
sull’accaduto.”
“Naturalmente” annuì lui con una convinzione del tutto
utilitaristica. “Bene dottoressa, immagino che quello che ha da dirmi
sia tutto contenuto lì dentro.”
“Esatto. E io la inviterei a leggere attentamente l’intero dossier,
anche se so che ai fini pratici potrebbe risultare una fatica inutile.”
“Seguirò scrupolosamente il suo consiglio” fu la garbata
reazione di Viale. Era evidente che entrambi conoscevano la sorte che
avrebbe fatto il plico di carta; sarebbe finito quanto prima nel contenitore
del riciclo nell’ufficio dell’uomo. è solo che in quel
momento ognuno di loro aveva adoperato con professionalità e in
maniera inappuntabile al proprio dovere. “Credo che io e lei non
avremo più modo di vederci” disse infine mentre si alzava
dalla sedia tendendole la mano per accomiatarsi.
“Sì, probabilmente sarà così. Ma stia tranquillo,
seguirò con interesse lo sviluppo delle sue ricerche. In fondo,
adesso posso dire di avervi partecipato anch’io” si congedò
Barbara Negri strizzando l’occhio all’illustre interlocutore.
Poi, e senza attenderne la reazione, si girò verso l’uscita,
lasciando che un eloquente sorriso di soddisfazione le illuminasse il
volto.
(...)
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