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Brano
tratto da "FREDDA PELLE NERA"
(...)
uno
La stavamo
aspettando da dodici anni quella reazione biochimica. Dodici anni di sacrifici,
ma soprattutto di speranze disilluse.
Più di una volta avevamo pensato di abbandonare tutto. Eppure,
nel medesimo istante, tutti quei fallimenti non facevano che alimentare
in noi il vento della passione, della sfida all’inimmaginabile.
Quando il timer al quarzo lanciò il segnale sonoro, ero dall’altra
parte del laboratorio indaffarato nella preparazione di una soluzione
salina.
Non avevo motivi particolari per pensare che quella volta avrei ottenuto
un riscontro significativamente diverso dagli altri, se non per un innato
ottimismo - che in alcune occasioni perfino io facevo fatica a comprendere
- e una perseverante fiducia nel mio metodo di lavoro. Era il fatto che
quel giorno mi sentivo addosso una strana sensazione, un malessere fisico
difficilmente collocabile tra il ventaglio di risposte scontate all’inquietudine
mentale. Per cui, solo per caso, contrariamente alle mie abitudini non
corsi ai margini del bancone di lavoro per buttare immediato l’occhio.
Piuttosto mi ci avvicinai lentamente, con cautela.
Certo è che non appena lo sguardo si posò sulla colorazione
blu indaco del pozzetto di semina mi si annebbiò la vista; una
patina umida, quasi viscosa, rese sfocata e tremolante l’immagine
che stavo cercando da una vita.
Mi sedetti con movimenti controllati sullo sgabello, cercandolo con la
mano. Asciugai gli occhi con la manica del camice e restai incredulo a
meditare, le pupille incollate a quel pezzetto di plastica. Mi dimenticai
perfino di fissare la reazione con l’acido solforico. Un passaggio
fondamentale che avrebbe consentito alla sfumatura di non svanire nei
minuti successivi, e di sancire quindi il positivo epilogo di una decennale
battaglia scientifica.
Ma tutto questo non aveva importanza ora. Ogni singola operazione del
processo era indelebilmente impressa nella mia mente. Sarebbe stata semplice
routine il riprodurle. Ciò che contava adesso era l’accaduto.
“Biagio, Tommy...” provai a chiamare i due colleghi, ma nonostante
fossero a pochi metri da me non fui in grado di farmi sentire.
“Biagio. Tommy.” Alzai un po’ la voce, incerta per l’emozione.
“Che c’è?” fu Tommaso a rispondere.
“Venite qua.”
Biagio arrivò per primo e il suo sguardo fu guidato sul pozzetto
non tanto da un gesto o da parole, quanto dai miei occhi; biglie marmoree
a suggello di un’espressione incredula. “Non può essere...”
sussurrò.
“Ce l’abbiamo fatta Athos! ce l’abbiamo fatta!” a
fendere l’aria satura di tensione furono le urla di Tommy, giunto
a sua volta.
Sì, ce l’avevamo fatta.
Ora non restavano che due cose da portare a termine: la prima era quella
di riprendersi, di mettere a fuoco la realtà, di realizzare il
momento vissuto; la seconda di riprovare all’infinito l’esperimento,
di accertarsi che non ci fosse stata casualità, di mettere a punto
la procedura d’esecuzione.
Alzai la cornetta e composi un numero della linea interna. “Signor
Dudda?”
“Sì?”
“Sono io. Ci sono novità. Forse...” la voce mi tremava.
Sapevo di dare un duro colpo alle coronarie di quell’uomo. “Forse
ci siamo.”
Un attimo di silenzio. Poi la risposta. “Arrivo.”
Joachim Dudda prima ancora che un medico era un imprenditore. Anzi, medico
non lo era per niente, visto che non aveva mai preso la laurea. Imprenditore
invece lo era stato fin da giovane, quando, mosso forse da autentica passione
e sicuramente da un’accertata possibilità, aveva fondato un
istituto di ricerca biomedica con lo scopo di scandagliare possibili percorsi
alternativi alle tradizionali metodiche di prevenzione e cura delle malattie
genetiche. Contestualmente aveva potuto attingere dalle casse dello Stato
le sovvenzioni elargite a tal riguardo dal Ministero della Sanità.
Erano gli anni Cinquanta.
Nel tempo aveva diversificato la sua attività dedicando energie
e capitali in settori meno filantropici, ben distanti dalla linea di confine
dell’avanguardia tecnologica e di pensiero, ma di certo più
remunerativi.
Quel che restava dell’istituto di ricerca era stato trasferito nel
piccolo laboratorio ai margini di Ivrea, all’interno del quale lavoravamo
senza sosta io e i miei colleghi, a sentire Dudda tre delle menti più
geniali che avesse mai avuto modo di conoscere. Ora, dopo dodici anni,
ci poteva considerare quasi come figli.
Dei tanti progetti a cui ci eravamo dedicati ne era rimasto soltanto più
uno, sul quale avevamo concentrato tutti i nostri sforzi. Il più
importante di tutta la sua vita, e visto che aveva da poco compiuto i
settantatre anni, poteva dirsi certo che sarebbe stato l’ultimo.
Adesso quella telefonata.
Si infilò il cappotto e uscì dall’ufficio. Percorse
lungo il marciapiede i cinquanta metri che lo separavano dal laboratorio,
urtando i pochi passanti noncurante delle invettive che questi gli rivolgevano,
gli occhi a fissare il vuoto davanti a sé.
Faceva freddo, era gennaio, e il termometro segnava quattro gradi sotto
zero. Contrariamente alle sue abitudini non aveva indossato il cappello
di pelliccia. Probabilmente non se ne era ricordato. D’altronde la
mia telefonata, la mia voce stranamente incerta, lo avevano scosso, ma
era perfettamente comprensibile.
“Ragazzi, spero proprio che non sia uno scherzo” sibilò
con tono teso non appena varcata l’entrata del piccolo locale. Intanto
con movimenti nervosi si tolse il cappotto.
“Sa bene che scherziamo su tutto fuorché su questo argomento.”
A rispondere, come al solito, fui proprio io. Ero io che intrattenevo
i rapporti quotidiani col capo, le estenuanti relazioni sull’evoluzione
delle ricerche.
Non avevamo mai visto Dudda in quello stato emotivo; l’uomo sembrava
aver somatizzato l’ansia derivante dalla propria condizione di individuo
perennemente in attesa, scaricando nelle rughe del viso la tensione accumulata
in oltre due lustri di tentativi finalizzati a un unico obiettivo. Tentativi
peraltro mai riusciti.
Finora.
“Da questa parte” indicai.
Dudda si avvicinò al banco di lavoro guardandosi tutt’intorno,
quasi che non avesse mai visto quel posto quando invece lo aveva progettato
lui, quasi come fosse la prima volta che entrava lì dentro. Era
frastornato.
La piastra di diluizione con la fila degli otto pozzetti di semina, tra
i quali quello che aveva accolto gli agenti della miracolosa reazione,
era in bella vista sul piano sgombro.
La colorazione era quasi svanita, ma quel che restava era un’eloquente
dimostrazione di vittoria.
“Il J.D. factor...” balbettò Joachim Dudda con lo sguardo
alienato. “Non ci può essere errore? Un subdolo, ingannevole
errore?” domandò con uno scatto improvviso fissandomi negli
occhi con viva apprensione.
“Un errore sicuramente no. Adesso dovremo verificare con calma se
sia intervenuto un qualche fattore di casualità. Ipotesi per la
quale sarebbe praticamente impossibile isolarlo.”
Erano parole che lasciavano la porta aperta all’incertezza. Era altrettanto
vero però, che conoscendo la metodicità e il rigore procedurale
con cui noi lavoravamo, il margine concesso al caso non poteva che dirsi
irrisorio.
Ora, tutti e quattro ci trovavamo intorno al bancone a contemplare cinque
microlitri di sostanza organica, carichi di adrenalina e frementi come
mai prima di allora.
D’altronde ognuno di noi sapeva bene che la scoperta avrebbe permesso
di debellare gran parte delle patologie neonatali, nonostante il campo
dell’esperimento fosse circoscritto a un solo ceppo etnico, quello
per il quale avevamo ricevuto l’autorizzazione dall’OMS. Non
sarebbe stato difficile infatti traslare le conoscenze acquisite finora
su tutte le altre specie umane. Per noi poi sarebbe stata la consacrazione
professionale e nel medesimo istante un aiuto non indifferente al lavoro
del Signore. Avremmo così esaudito un’intima quanto edonistica
richiesta di gratificazione morale. Una concessione scontata al valore
della ricerca.
Viceversa, tutti e quattro sapevamo altrettanto bene che se utilizzato
in modo improprio il ‘fattore J.D.’ avrebbe potuto rappresentare
un pericolo per l’intera umanità. Sarebbe stato tragicamente
deduttivo infatti ipotizzare un vero e proprio olocausto.
Un olocausto silenzioso.
Quando rientrò in ufficio Joachim Dudda, l’uomo le cui iniziali
sarebbero rimaste impresse per l’eternità sul papiro arrotolato
della storia scientifica, si buttò a peso morto sulla poltrona.
Si portò l’indice alla bocca per mordicchiarsi l’unghia,
fissando la parete innanzi a sé. Poi si strinse il capo tra le
mani, in un gesto che significava disperazione. Ora doveva necessariamente
affrontare una questione dai risvolti angosciosi e per certi versi drammatici.
Era una problematica legata a doppio filo alla riuscita dell’esperimento
e finora, per dodici anni, non aveva dovuto che sfiorarla solo col pensiero,
per rimuoverla subito dopo.
Si trattava dell’unico aspetto negativo di tutta la vicenda, ma lui
sapeva che era imprescindibile al fine ultimo del progetto.
Una fila di libri stranamente tutti uguali, che lui stesso aveva provveduto
a sistemare in perfetto ordine un paio di anni prima sul ripiano della
libreria, faceva da scenografia al personale momento di debolezza di un
uomo apparentemente confuso.
Fu la vista di quei libri che gli fece abbandonare ogni remora.
Alzò la cornetta del telefono e compose con la mano tremante un
numero di nove cifre con un prefisso internazionale.
Al terzo squillo qualcuno rispose: “Sì?”
“Il camaleonte ha cambiato colore.” Joachim Dudda scandì
con voce fiera la frase che non avrebbe mai voluto pronunciare. Non attese
la risposta. Sapeva che non ci sarebbe stata replica.
Solo allora il magnate si rese conto che per la prima volta nella vita
aveva fatto qualcosa di veramente irreversibile, che non avrebbe potuto
arrestare neanche usando l’immenso potere di cui era depositario.
Appena posò il ricevitore si precipitò davanti allo specchio
ovale dello studio; fissò lo sguardo sulle rughe di una pelle segnata
dal tempo per poi soffermarsi sugli occhi castani inumiditi dalle lacrime
trattenute a stento: la sola certezza che poteva dire di possedere adesso
era che Joachim Dudda non era più lo stesso uomo.
(...)
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