Francesca
Del Moro
Gabbiani
ipotetici
recensione
a cura di
Giacomo
Cerrai
Il
gabbiano che attraversa trasvolando con qualche incertezza, qualche
dubbio e qualche ferita, ma molta determinazione questo libro di Francesca
Del Moro è - secondo l'avvertenza di Giorgio Gaber in esergo
- l'alter ego, o meglio ancora il deuteragonista de "l'uomo inserito
che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza
quotidiana". Non sono però separati, anzi "ci si sente
come in due". Ovvero, come titola un testo, "squilibrata e
sana", qui e altrove, dentro e "fuori" la vita.
E' questa bipolarità tra il rasoterra e il volo, io credo, ad
essere creativa, questa coscienza dolorosa e sopportata, nel vero senso
del termine, portata sulle spalle. Se tu ne prendi atto e sei capace
di dargli un nome, di scriverlo, allora il dolore non è "sordo",
anzi acquista una voce. Una voce potente.
Qui la voce (poetica) è arrabbiata, anzi incazzata. Lo dico pur
sapendo che a Francesca non piace, perchè sa di clichè,
come scrive in suo testo. Ma so anche, come scriveva Bukowski da qualche
parte (cito a braccio) che la gente è matta, e se non è
matta è arrabbiata, e se non è né matta né
arrabbiata (vuol dire che) è semplicemente stupida. Cosa, quest'ultima,
che credo sia la vera discriminante, poiché esclude implicitamente
l'arte.
Se si parte da questo presupposto (o discriminante) perfino parlare
di poesia femminile ha poco senso, e questo mi solleva poiché
sono convinto che non sia un genere, esattamente come (appunto) quella
"arrabbiata" o quella "giovane". Direi che tutto
dipende dai filtri (anche psichici, e dall'intelligenza, anche ma non
basta) attraverso cui l'esperienza (magari brutta) subisce la sua metamorfosi
in significato, come un kafkiano insetto mostruoso che torna ad essere
Gregorio. Diciamo, per spiegarla diversamente, che qui, come sosterrebbero
altri, c'è una forte correlazione tra l'io analitico, quello
dolorante/corporeo/affettivo/sentimentale e quello etico, o narrante.
Insomma, per un poeta non basta prendere atto di un amore finito,
di un disagio esistenziale o femminile, della morte di un amico caro,
delle ingiustizie, della sconfitta politica e magari farsene una ragione.
Semmai, al contrario, gli interessa fare dell'esperienza qualcosa di
irragionevole. Come forse farebbe un gabbiano.
Tutto naturalmente è molto più "concreto", nei
testi, di quanto possa apparire da questo discorso. La sordità
del dolore di cui dicevamo viene contrastata dal lavoro di scrittura.
Qui in effetti la scrittura, anche con i suoi eventuali "inestetismi",
è importante perché sonora, fàtica. Diretta, éprimaria",
spesso tutta d'un fiato ("frenetica" dice Adriana Soldini
nella prefazione), a volte scatologica, apparentemente spontanea, è
fondamentalmente priva di trabocchetti metaforici, di roba da decifrare.
Dice quel che deve dire, anche in maniera percussiva, e tuttavia restituisce,
nei testi migliori, una leggerezza antieroica, una donna che non vuole
essere emblematica, semmai vorrebbe essere felice. La narrazione
è comportamento vissuto, e quindi etica. Il linguaggio è
selezionato su un registro volutamente "naturale", e quindi
scelta ideologica, di non separazione tra il dire e il poetare (e infatti
Francesca, in un testo intitolato "Soancheioscriverecazzateermetiche",
ironizza su certe maniere: "da estenuati ossari / promanano lacerti
d'urlo...")
Certo "Gabbiani ipotetici" ha le sue discontinuità,
i suoi momenti alti e quelli bassi, come naturale. Un esempio per tutti:
non è facile - non è mai facile - fare una poesia
politica o "civile" che sia anche "bella", che sia
qualcosa di più di una invettiva. Il problema, a mio avviso,
sorge quando in essa, secondo una classica distinzione, i valori secondari
(il principio di realtà, la cultura, il sociale, il politico)
prendono il sopravvento su quelli primari (la libido, i sensi, il "cuore",
l'umano, il primordiale). Il difficile sta lì, in fondo, in questo
tipo di controllo artistico di sé come autore. Eppure in una
poesia come Dimenticare Genova (v. qui sotto), Francesca ci riesce.
E lo fa semplicemente cambiando direzione, precisamente all'ultima strofa.
Il passaggio da un ricordo plurale che svanisce (avevamo paura...chi
se lo ricorda ormai...) a una singola marcatura che quel ricordo rinfocola
avviene bruscamente con la messa a fuoco di un primo piano, con una
singola metafora (il cuore) vecchia come il mondo ma efficace. Con una
specie di passaggio cine tra un campo lungo e il dettaglio le cose,
l'umano, il politico, si conciliano.
Ma a parte queste considerazioni forse marginali, questo libro si aggiunge
alle cose più interessanti che ho letto ultimamente, quasi tutte
scritte da donne. E se questo smentisce ciò che ho appena detto
sul "genere", pazienza.
Dimenticare
Genova
A un certo
punto
avevamo paura perfino
dellaria, del cielo plumbeo,
degli elicotteri-avvoltoi
che ci sorvolavano.
Stavamo stretti
per proteggerci,
coi nostri sogni
in tasca insieme ai sassi
e ai pugni chiusi,
ci infrangevamo
come onde infilzate
da fili di vento.
Chi se
lo ricorda, ormai,
per cosa marciavamo,
la giustizia globale,
come potevamo chiedere
tanto se nemmeno
su uno sputo di terra
cè giustizia.
Mi
hanno schiacciato
la faccia con gli stivali
racconta lei tra visi amici, dopo,
sentivo il sangue in bocca,
le costole rotte, ho perso due denti,
ma, dice e le si spezza la voce,
non faceva male il corpo, era il cuore,
era il cuore a fare male.