Francesca
Del Moro
Gabbiani
ipotetici
…
DI POETI IPOTETICI (PER TACER DEI GABBIANI)
di
Alessandro
Brusa
Ho
sempre amato la massima di Bukowski, quella che dice che la poesia dice
tanto in pochissimo tempo, mentre la prosa dice poco e ci mette pure
un bel po'. E sono stato felicissimo di ritrovarla nella homepage del
sito di Francesca Del Moro (http://www.delmoro.it/index.html) poetessa
dalla versificazione molto diversa dalla mia, ma che per milioni di
altri motivi trovo a me molto affine.
Ma dato che io amo confondere le acque come amo l'integrazione degli
opposti, alla massima di Bukowski aggiungo quello che diceva Shelley
(l'immenso Shelley!) ovvero che pensare che scrivere in prosa o in poesia
siano cose diverse è un volgare errore. E se avete voglia di
rileggere entrambe queste affermazioni vedrete che sono solo apparentemente
in contrasto e che la sintesi è in verità a portata di
mano.
E quindi, leggendo Francesca Del Moro, vi chiedo di buttarvi alle spalle
anche categorie come "Poesia Lirica" e "Poesia Narrativa",
categorie motivate seppur virtuali e che lasciano esattamente il tempo
che vorremmo trovare quando cerchiamo una risposta:
perché non c'è niente da fare, quando leggiamo, poesia
o prosa che sia, a tutti noi accade sempre di trovare domande quando
quello che invece andavamo cercando erano risposte.
All'improvviso
All'improvviso
capisci
che potresti perdere tutto,
anche la vita
Potrebbe scivolare via
dalla tua mano
come una moneta
da un centesimo
e non faresti la fatica
di riprenderla
facendo appena
un passo indietro.
E farvi domande è precisamente quello che potrebbe accadervi
se aveste voglia (ed io ve lo consiglio vivamente) di leggere "Gabbiani
Ipotetici" (Cicorivolta Edizioni, 2013), la nuova raccolta
poetica di Francesca Del Moro. Una raccolta che ci ha messo quattro
anni per venire alla luce (del 2009 era "Quella che resta",
la sua ultima silloge poetica) più che altro
per le infinite difficoltà che un poeta deve affrontare al momento
del parto del proprio lavoro… difficoltà che fanno spesso
dimenticare il vero e proprio dolore: la sua stessa gestazione.
da "Aborto"
Tutto
questo
in un attimo
è sparito
nei loro occhi
pieni di disprezzo
e il cestino del pattume
in mezzo alle gambe
ha fatto il resto.
Nella prefazione a "Gabbiani Ipotetici", Adriana M. Soldini
sottolinea l’esistenza di due livelli di lettura: la poetessa fuori
e quella dentro di Sé. Ed è proprio di questo sdoppiamento
e del suo rapporto con la realtà che voglio parlare con Francesca.
Francesca
dimmi, che impatto ha la realtà sulla tua poesia?
“Realtà”
è una parola difficile. Se la intendi nel senso di “accadimenti
effettivi” esterni al parlante, direi che ha un impatto considerevole.
Cerco di comportarmi come il fotografo che non dimentica mai la sua
apparecchiatura e mantiene uno sguardo aperto, vigile e curioso su tutto
ciò che lo circonda per non lasciarsi mai sfuggire uno scorcio
interessante.
Mi capita spesso di imbattermi in una scena significativa e di catturarla
con le parole che mi vengono d’istinto, per poi rielaborarla come
fa il fotografo con le moderne tecniche di image editing. Ma in definitiva
non si può parlare di una vera e propria dicotomia tra realtà
esteriore ed esperienza interiore, perché la scrittura registra
in qualche modo la mia
personale reazione a ciò che capita fuori di me, che si tratti
di una scena vista per caso, un accadimento politico, un fatto di cronaca
o l’esperienza di una persona vicina.
Nei
tuoi versi la realtà si mescola spesso con la tua vita privata..
è un difetto di impermeabilità o una tua necessità?
Né l’una né l’altra. È una scelta consapevole.
Come molti, ho cominciato a praticare seriamente la scrittura a fini
“terapeutici”, per portare alla luce una situazione dolorosa
e quasi completamente rimossa in modo da poterla osservare dal di fuori
e “addomesticarla”. Il brutto dentro di me poteva trasformarsi
in qualcosa di bello attraverso l’arte e così diventava
sopportabile, anzi acquisiva valore. Non solo per me ma anche per
gli altri, che nella mia scrittura potevano riconoscersi col risultato
di sentirsi meno soli ed essere a propria volta spinti a guardare dentro
di sé senza paura né vergogna. Il mio sogno è che
quello che scrivo lasci il segno in chi mi legge e a tal fine ritengo
necessaria la più totale sincerità.
Quanto
ti costa esplicitare così la tua vita privata?
Non
è mia intenzione scrivere un diario, desidero che le persone
si soffermino sulle esperienze descritte perché le ritengo in
qualche modo significative ma non necessariamente ricalcano il mio privato.
A volte ne prendono spunto, a volte si tratta di esperienze di altri
che ho vissuto in maniera empatica (ne è un esempio la seconda
poesia che hai citato). Capisco che soprattutto le persone che mi conoscono
possano farsi
un’idea non proprio edificante di me ed essere disturbate dai miei
versi o persino soffrirne. Ma la cosa non mi pesa affatto: è
un rischio che ho scelto di correre, ho deciso di non censurare nulla.
Sono l’esemplare della razza umana che conosco meglio, la prima
cavia che ho a disposizione per praticare la vivisezione. E, più
scavi nel personale, più diventi universale, come recita un vecchio
adagio.
Quanto
è piacere e quanto è necessità la tua scrittura?
Piacere
al 100%. Ma il piacere è pur sempre una necessità.
Chi
sono questi gabbiani ipotetici?
Sono
i gabbiani di cui parla Gaber in “Qualcuno era comunista”.
La nostra natura più autentica, che ci portiamo dentro mentre
ci trasciniamo dalla nostra casa al posto di lavoro e poi ancora a casa,
mentre ci rendiamo “presentabili” ed eseguiamo i riti che
abbiamo assimilato più o meno consapevolmente. Il gabbiano è
quella parte di noi che, anche se
siamo bloccati a terra, continua ad aprire le ali con l’intenzione
di volare. Quello che io cerco di mettere a fuoco in questa raccolta
è il quotidiano conflitto, doloroso ma ancora fonte di speranza,
tra queste nostre due nature.
da "Datemi"
Datemi
poche regole da osservare,
una fede sola e semplice,
fatemi credere, solo credere,
fatemi smettere di pensare.