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i quaderni di Cico
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titolo:"fiori
di broca" *“Il
centro di Broca è il centro del linguaggio articolato, che risiede
nella parte inferiore ed esterna della circonvoluzione frontale del
lobo sinistro del cervello” (Enciclopedia Scientifica-Tecnica Garzanti).
Fin dalla prima lettura, il titolo di questo testo che stiamo prefando
si presta ad un equivoco fra il vaso e la sede del linguaggio summenzionata,
il che crea un’ilarità priva d’umorismo. La quintessenza
di tutti i momenti di logicità o di coerenza delle opere d’arte
è ciò che a buon diritto può chiamarsi la loro
forma. Perciò i “fiori”, prodotti dall’area di
Broca che ha sede in Luca Ferri, vanno intesi come momenti di logicità
cambiata di segno, secondo una masquerade di memoria callimachea: a
buon intenditor, poche parole.
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Brano tratto da "fiori di broca"
1:
marronennette. accuorrete, vennite acca. s’essa aperta chista crepa.
de sotto la madonna derlo latte unna caverna, uno tufo smezzato che ve
ghè passo con il brazo. ue. (). me sento morì, accuorrete
ginte, vhell’a mapparse tutto in torno con li capelli lunghi e nerri.
grazzie tombalfacro chè mi portarsi la cadrega e lò rialzò’dde
gambe. ciò la circolluazione ese gambe vericoze. veni chà
t’aggiusto lo merletto e te racconto almeno a te quel che glià’ltri
spettino al venirne. lissa parlò mè dela guera fredda e
del marzonetto che non volle meter fermo lossuo capo e far giodizio. ma
che ascolti si posi l’occhio d’oricchi al gettar lo senso dennrò
natro. passan bele mone ma la vergine esa stessa lella madre tloro carne
al tumefarsi. organigramma cinise in blocchi con lèè vertice,
la segretariato, e lofficio contabile, la decorazione, lo pulitrici e
la radura indì glio’pperai movono re matrici dase macine elettronique.
sissa cosa per le catena de rodaggio, pè le squadre del fubal col
presedente lor su vice, l’assistente managgeriero, allenitore. pò
la radura del giocatori. ghome è ciò mappotrei parlar per
ore ed dì, l’organigramma cinise in blocchi dice ch’al
suo vertice scenda la sua possibile origine futura nel pescarsi tra le
novelle leve che dovette farsi gomito nè lo salir cotanto. cor
la sù visione son scaraventata, pora nana bianca io, allo firmamaento
dell’e donne meiori e tra chille più polite d’animo e
villipenza. l’amor che feci ppè crearti con lo circense delli
elefanti, fò quel casò arrabattino che mi spostò
tra llì possibili marcescenti e che debbo teniere in conto. m’abbandonassi
all’ sfregare suo e chinetti blanda fuorvace al fottìo di
tale langaggio dettare tra lli baffi e l’orecchi sbattenti l’indietro
per chissa chale mecanismo corpo le mie papille fino a pedderne la cogizione
elo pensare per ‘na frazione tempo àlla frazioliera delà
tapperela in cui veievo addentro i miei; e ci girravo intorno con la sbandante
motto fisicale della giostra pommirisianna appena lì motata. ecce
che ta dicesi bel robetto neo d’un tombalfacro che l’ommo che
feci che chel peccato era un unno, un deplorevole omusclo che tenea ben
im polsi lo reggere e lo nocchiere della cosa. parlava di banane e di
cicolati, di roviste modernissime e della architetture del mediterraneo.
bisanzio tripoli e lo sciuscià passan dale soe labbra come terrigene
fresca che portava me a sbandare nello peccato e nel concedermi lui in
totto corpo per dell’i ore che non devo e possu dimenticae perghè
porella me, sono chelle ore che portaron pace e volliertà al mi
seguirne. non strabuzzar li occhi ale fanciulle bel tombalfacro che nùn
por fàlaltro devvi tenere conto ser sentire potresto lò
futuro sbaglio abacineante tuo pè poter poi riunnare in te coccolante
al’ombra sua, del viso belo e caritevole dell’immagìnio
ghò per casa. tenno vorrìi dire attrè dù de
cose ma son ripiena di bonta cileste che li mi percorso alla punte desa
piramide eseguido in solar tenzone, fa sòl appreso dala tu con
mia vizinanza in modo tale che caronte non possà pensare lo beltà
del tuo rrivar cotanto, sia lo sbirciamento similare al donnae passare
et alli compiti trafusi un poco nei ti giorni posteriori. ona loce verdi
en poi azzurra. parrea lo tepore del barletta oell’esegesi, ma in
cor mio non potrei rovinar l’affibulazione nel dirte tutto. anzi,
ormai che son primareggiante con li santi tuti e con li putti e la parabole
cielesti, sento anche dirne e non farsi danno. pechè è chussì.
ogni ommo è l’uncio su pensierio, e non si pode tenere pensiero
allo sembrar cuor suo aù divenire dè luze. pè commi
lur avrà peccao e comme lui arrar vissuo apparirà la trascindenza.
cirto che sul podio non potermo starne tutti, sennò che servirà
t’illuminazione maiore valore? e citto che saremo pochi ma con la
nicchia che se potrebbe esse tutti, dallo benzinaio, al gorbaciov e al
sfazzinegher con su enturage. pecchè col la possibilia, e tellodize
in benevolenza caretitia di parole, la pur remota possibilia chell’io
vevi fino ad ieri è l’auspicio per sperar tutti all’inisono
che l bene tròa senso a fato che lo più de voi, e con voi
nun peccò nulla nel suo grand io e nemmeno io, poiché baziata
dal benevolo e dal superiore perfettibile massimae conziepicto nottro.
fato l’otto produtimmo il numero seguitato e dicesti che lo democratico
eccelentio equivalentiato all’egonimico attuale, è chella
molla ù accalappia tutti per raggiunger cime e sperar poi d’arrivarce
con li propri mezzi, possibilitate e movenze. ecce, la possibilità
che vè frega, ma io non divresti parlar cussì, delle campagne
e del torpore, nei bei piedi allo calar lenzuola e delo tenere duro nell’infagocitamento
dergli istinti. sfondò e berluchìo al di là, pecchè
m’è concesso come ti sparai zemaai, che son pur per, mio caretto
tombalfacro ch’aggè visto chel plus ultra na permise all’agnostico
uncurante e millantante stare, di trovar finamete chella reposta al fato
che vitae nun è referenziate ma banco prova ppè vite attre.
capiste tutto bégghiu fiddu? capiste l’àncora e llo
mare? serviron in due per firmar lo rabisondo, e se non v’era il
terzo il cattro e lo cinque e lo tutto ciò dei paini cartesiani,
saremmo fermi a due cose e non a millecinquecento sette. che ti nominerò
in or’ordine per poi dirte chill’ultimo, il milleveconto sette
sarà nominato apari merito con l’infinito. belo poi sentire
lo prezzare in viso, forse potrè fa ciò perenne dallo fatto
che sentissi e vedisti l’aspirazione di voi tutti. sono in zima ma
son mossa benevola e carentitevole versto il voi tutti, come icona cileste
vi movo e dirigo vissò ghello bene che nel contratto tipo del bactesimo
firamante tutti per lo gerto altri che non capite fino alli diciotto anni.
cossì dice la legge umanae alla chale ù sottraggo èrchè
sondde sopra. non in vertizio chinese blocco, ma per ordine gnosologico
intrinseco alla divinità tutta. e tu, belo tombalfacro che di noi
tutti sei accorso in prima battua, termi per lo avvenire tuo nel non divenirne
oggi e presente ma ner domani quando abandonato corpo tuo, vagherai nel
purghezio scontao pè l’averme conosciuto an tatto. e la guerra
freda usa urs si schianterà col cenno del verbo venire in pace
e nella sua volontà fatta in terra. dell’o errare ch’ebbi
avuto in giovinetà, ricordo pure lo scoglio dello spigolo nella
schiena e lo trasimeno trasalire delli corpi avvinziti sella torsione
da vite tenuta insieme allo perno basso ventre. mi lassiavo andare, scarnificando
e bofonchiando al lui che potea ben essere l’iniziate der domani
in primis add’unnoi verso ch’ello cha pensavamo. le su bestie
e l’elefanti, gli scimpanzi e la cariatidi della dea pallade in scissione
con lo klimt e soci pesi alle pareti, dovean passà per lo stanza
rabbuiata desa dimenticanza e deso futuro sbrendolato or comunione intentia
ch’ebbimo o dove’bbìamo peu traprendere l’indì
a venire. uè, madonna chiotta muorte. tombalfacro corre, alontana
tuo grumo osseo e marcescente, indì incorri alle tue giovini forze
verso mone e belli motori, che nelli tuoi pensieri vedo paura e terriggione.
llontana corpore tuo per la nona musicata in re minore, urla e spandi
a lor cittadinanza nelle rocce forti errette a dimore, ch’agge visto
e che’agge detto a te, m’io testimone uculare in terrificanta
espressione. lù buco nella crepa, e poi la teca in sbilencia mozzatura
di sinistra. borgaciov, lu sua assistenti al tavolo freddo e marmolo darra
danimarca insulare. parlino con lo regan e faranno accordi pè l’amore
notro intero. lo fumo apparso, lo cecamento come primo venire per lo dimenticarse
l’ordinarietà dù intorno, e lo magamarchet che s’allaga,
la lattieria che s’allaga, con li ferramenta che s’allaga, con
li due passanti mone che tu tombalfacro ardasti il che s’allaga e
lo sparignino che s’allaga e lo cornacchio che s’allaga e lo
sottobosco ir decomposizione con lidi ìnsetti motti e lo fogli
caduta alo inverno che s’allaga. imerse nagua blanca, puretta pur
esse dal chale trovatti senso et un posto universalmente a voi non noto,
umanite terriani tropo tali per non capirne l’altizzimo mio novo
abiatate. lù circo partisse e la colpa mia fùr del non trarre
telefono alcuno e altre cose dal mio sfruttatore avvinghio perno. t’ogni
anno si dicesse che pè lo straordinario raggiungimento delo pubblico
e richiesta, prolunghiamo lo spettaculo per nove in sommatoria. comegia
pur prima dello inizio eran por pronti. una profetzia del celestino o
los marchetin rudimentale delli usa nel ton circo ora chiesi mai allo
barbaro del mio corpo. talamente sicura in ciò che dissi di veder
l’indomani lo spettaculo circense e le sua marionette all’aria
con di sotto nulla. perchì lui lontano ricordo ma lontano veleggio
sulli arnesi a legno come barra per li soi voli. io vidi solo la sua prova
e lo suo rigirasi al capo inclinato arr’indio barocco deo tendone.
movea braccio sicuro in volo con lo quale mi protasse per uno ballo. rotae
le gambe e le giuntura come nulla fosse senza alcuno paragone ar nostro
incontro. dallo spilinchino degli adenti autogeni allo sua basso ventre
emerge chello perno che per gli anni segiu, nei pindarci voletti notturni
in mano calde all’agua calda ir bagno prima, e allo pulirsi sempre
all’agua poi. upo eterno ritorno all’elementaria sell’insolida
aquetta che divenne suo corpo assente e perno quasi mai a contro voglia
mia invasivo e prorompente. e tì, tombalfacro, che ti movi andano
via, cossì pensi dell’amore, delle venture e delli sogni che
sempre feci e mai raggiunsi fino ad all’allora dello oggi in cui
divinae cantorum arobalerum degli altri parlò a ch’egli stenti
ch’ebbi tratto fino allo vederti in sinnò nausea. roba nova
che sberluccica algli occhi vostri e noi tutti. e che comunque adesso
rimovo o collecheremo nelle lande magazzino memorifero, da ripescare come
in sagistica sullo rapporto tra le nationi communiste al di là
reno, senna e quelle sotto cubanee. regan che dalli film spara e fuggi,
un moderno e gioco sciotem’up, viene paladino delle nosre plutocrazie
tardo ecclesiali. pura delli altri mio tombalfacro e della loro astinenza
allo perno economique, inteso a liberale commercio delli beni chellì
signore, la madonna i putti gli amorini e i santi apostili e avengelicici
e le madonne di corinzia e borgoginesi donatelo l’ommo per la sua
fortuna e onorificenza addio. lì settimo giorno, dissero a li regan
e li repubblichini tutti, che le leggi delle economie si potean trarre
e notare dalle niture che migraan nel mare. nele foreste. delli cieli
e nelle calandre celate della terra. chisti religiosi aquisirion omìno
peè cielo per li terra e li opere in torno compreo lì foco
e le starnuzio di giovarnesca rifaggine. adonarono l’indutriazione
oltralpe ma prima ancora l’imper globalloromano. idero che già
tutto era iscì. che lo formìca mangiava insetti morti accidentalmente
per nature loro, che lo coccodrillo spetta lo fotografo der la rivista
pettinatrice che si legge ale attese dela mesc. the lo taralluccio come
il mais vien inscatolato, che lo pesce medio mangia lo pequeno e che isso
a sua volta nutre sè medesimo con più piccolae intornù.
gufo caccia vermi, ch’essi caccian per lo sprito indaacro atro ancora.
e cusì, dallo danimarco ghiaccio, sciaffzenegher disse regan, che
lo film s’è già visto. cho basta applicare chesto a
tutto, e che ssi sarebbe potuto etimolamente dir che si facea di stà
parte un tutto. e le tue mone che vedisti reggon parte a chesta legge
naturallè. dalli tuoi danari, dalli tue parole; tuoi califfi; trarrai
in pochi parole l’invitabile organigramma cinese in blocchi verso
il chel fammo pur io tè e lo baffo col sù perno, che diedo
à me lo peccato prigerimale ce permise la visione dello fume dello
scorcio danese in cui tutti decise insieme le destrini di voi atri. e
con voi tengo a stare arl’ombra cupe e lente di parole appena sopra
pè nobiltà d’affissione e di strada ià scritta
non da popoli ma dall’altizzimo. la tua domanda mio tombalfacro sul
che serve quando tto è già pur scritto, e calzante man pò
iriguardosa. tene di fatto fede allo principio e contesta col pugnale
sottovesti d’atra parte. si ì io sapessi che lo circo andasse
a tripoli dopo noi, e che non prolungasse tempo e specctaculi, mai sarei
sopravvoi. l’omo perno a cui peccassi sarebbe chi come marito o più
in fondo al tieni corpi esausti ne incombesse di malanno o peste. scrito
era scritto ma mi son detta che di scritture ve nè na sola. po
da quella le tue azioni porran altre possibilite. atre scritture, di dolore
sofferenza o giadio. da pequena leggeo d’unnomino lungo a mole che
s’allungava e saltellava supra teste del criminale e l’inglobava
in corpore suo. ecco che dopo tri anni di belle storie dritte liunghe,
parte poi che lo subitore scritto dell’amedeo, dovesso scegliere
poi che strada fare all’protagunista in taluna scelta. forza incalzante
come raccolto, ma la storia a bivio pare giusta al tuo chesito. uè,
madonna e castrogianori, cossà ho visto e cossa tenni. àttre
voci apriron porte, dalli telecolor parlase mio diretto concorrente bianco
cono li berretto corto. parlava loro, tollerava e indicava il dà
seguire. se non diceva ch’era inutile preoccuparsi era pechè
non teneva la visione dorsa pace in danimarca delli due contindenti aulo
trono. e chesto feci trasalire una giubilatia immane che mi fece dire
allo tombalfacro ormai lontano e inzima al colle ch’ero forse il
primo, e che lo ponteficio vaticano era all’oscuro delli fatti a
te raccolti. e pè dunque pur tu, nelle mia grassie e vizinanzie,
eri un ommo alla chale la sua storia gli era debitore. in dovvai, metter
parte le bele mone e le piacevolezze al stai qui in parte, ada teca aperta
di stò rigagnolo posto orrè successo impossibilio avvenire
dette sorti derta palla tutt’intera. come lù circo e com’lo
perno intorno l’omo te ne andassi, stissi sola con ch’esta apertura:
e solo ch’ello omo scuro e bruno stesse alla ringhiera all’ascoltarmi.
dietro a lui un gorbaciovo odd’un regan non doveao fàr in
lui troppa differensa. e nelli fatti, tenne raggione tanto ghè
scindendo disse a me, la certezza, chel teneva unn’atra mia omonìmia
ma dinn’atrro colore. (...)
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Luca
Ferri, (Sorisole, Bergamo, 1976), si occupa di parole (Fiori
di Broca, Poemetto Galeoto) e immagini (Dodo, animale inetto al, Patrii
Lidi). Nel 2010 ha pubblicato, con Cicorivolta,
"Ode
alle quaglie".
Vive a Olera. Il suo luogo internet è www.ferriferri.com
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