i quaderni di Cico
 
 

 

 

 

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titolo:"fiori di broca"
collana: i quaderni di Cico
autore: Luca Ferri - con 2 prefazioni di Dario Agazzi - ISBN 978-88-97424-08-6- © maggio 2011 - € 12,00 - pp. 121 - in copertina, illustrazione di Michela Fiorendi da un'idea di Samantha Angeloni.


*“Il centro di Broca è il centro del linguaggio articolato, che risiede nella parte inferiore ed esterna della circonvoluzione frontale del lobo sinistro del cervello” (Enciclopedia Scientifica-Tecnica Garzanti). Fin dalla prima lettura, il titolo di questo testo che stiamo prefando si presta ad un equivoco fra il vaso e la sede del linguaggio summenzionata, il che crea un’ilarità priva d’umorismo. La quintessenza di tutti i momenti di logicità o di coerenza delle opere d’arte è ciò che a buon diritto può chiamarsi la loro forma. Perciò i “fiori”, prodotti dall’area di Broca che ha sede in Luca Ferri, vanno intesi come momenti di logicità cambiata di segno, secondo una masquerade di memoria callimachea: a buon intenditor, poche parole.
Una donna lentamente muore sotto un dipinto di El Greco, e immagini della propria vita, della Guerra Fredda, le scorrono dinanzi prima della dipartita. Questo il tema dello scritto presente. Ma poteva trattarsi di ben altro, giacché il tema in sé ha importanza nulla.

*dalla prima prefazione di Dario Agazzi
(compositore, musicista)

 

 


 

 

Brano tratto da "fiori di broca"

 

1: marronennette. accuorrete, vennite acca. s’essa aperta chista crepa. de sotto la madonna derlo latte unna caverna, uno tufo smezzato che ve ghè passo con il brazo. ue. (). me sento morì, accuorrete ginte, vhell’a mapparse tutto in torno con li capelli lunghi e nerri. grazzie tombalfacro chè mi portarsi la cadrega e lò rialzò’dde gambe. ciò la circolluazione ese gambe vericoze. veni chà t’aggiusto lo merletto e te racconto almeno a te quel che glià’ltri spettino al venirne. lissa parlò mè dela guera fredda e del marzonetto che non volle meter fermo lossuo capo e far giodizio. ma che ascolti si posi l’occhio d’oricchi al gettar lo senso dennrò natro. passan bele mone ma la vergine esa stessa lella madre tloro carne al tumefarsi. organigramma cinise in blocchi con lèè vertice, la segretariato, e lofficio contabile, la decorazione, lo pulitrici e la radura indì glio’pperai movono re matrici dase macine elettronique. sissa cosa per le catena de rodaggio, pè le squadre del fubal col presedente lor su vice, l’assistente managgeriero, allenitore. pò la radura del giocatori. ghome è ciò mappotrei parlar per ore ed dì, l’organigramma cinise in blocchi dice ch’al suo vertice scenda la sua possibile origine futura nel pescarsi tra le novelle leve che dovette farsi gomito nè lo salir cotanto. cor la sù visione son scaraventata, pora nana bianca io, allo firmamaento dell’e donne meiori e tra chille più polite d’animo e villipenza. l’amor che feci ppè crearti con lo circense delli elefanti, fò quel casò arrabattino che mi spostò tra llì possibili marcescenti e che debbo teniere in conto. m’abbandonassi all’ sfregare suo e chinetti blanda fuorvace al fottìo di tale langaggio dettare tra lli baffi e l’orecchi sbattenti l’indietro per chissa chale mecanismo corpo le mie papille fino a pedderne la cogizione elo pensare per ‘na frazione tempo àlla frazioliera delà tapperela in cui veievo addentro i miei; e ci girravo intorno con la sbandante motto fisicale della giostra pommirisianna appena lì motata. ecce che ta dicesi bel robetto neo d’un tombalfacro che l’ommo che feci che chel peccato era un unno, un deplorevole omusclo che tenea ben im polsi lo reggere e lo nocchiere della cosa. parlava di banane e di cicolati, di roviste modernissime e della architetture del mediterraneo. bisanzio tripoli e lo sciuscià passan dale soe labbra come terrigene fresca che portava me a sbandare nello peccato e nel concedermi lui in totto corpo per dell’i ore che non devo e possu dimenticae perghè porella me, sono chelle ore che portaron pace e volliertà al mi seguirne. non strabuzzar li occhi ale fanciulle bel tombalfacro che nùn por fàlaltro devvi tenere conto ser sentire potresto lò futuro sbaglio abacineante tuo pè poter poi riunnare in te coccolante al’ombra sua, del viso belo e caritevole dell’immagìnio ghò per casa. tenno vorrìi dire attrè dù de cose ma son ripiena di bonta cileste che li mi percorso alla punte desa piramide eseguido in solar tenzone, fa sòl appreso dala tu con mia vizinanza in modo tale che caronte non possà pensare lo beltà del tuo rrivar cotanto, sia lo sbirciamento similare al donnae passare et alli compiti trafusi un poco nei ti giorni posteriori. ona loce verdi en poi azzurra. parrea lo tepore del barletta oell’esegesi, ma in cor mio non potrei rovinar l’affibulazione nel dirte tutto. anzi, ormai che son primareggiante con li santi tuti e con li putti e la parabole cielesti, sento anche dirne e non farsi danno. pechè è chussì. ogni ommo è l’uncio su pensierio, e non si pode tenere pensiero allo sembrar cuor suo aù divenire dè luze. pè commi lur avrà peccao e comme lui arrar vissuo apparirà la trascindenza. cirto che sul podio non potermo starne tutti, sennò che servirà t’illuminazione maiore valore? e citto che saremo pochi ma con la nicchia che se potrebbe esse tutti, dallo benzinaio, al gorbaciov e al sfazzinegher con su enturage. pecchè col la possibilia, e tellodize in benevolenza caretitia di parole, la pur remota possibilia chell’io vevi fino ad ieri è l’auspicio per sperar tutti all’inisono che l bene tròa senso a fato che lo più de voi, e con voi nun peccò nulla nel suo grand io e nemmeno io, poiché baziata dal benevolo e dal superiore perfettibile massimae conziepicto nottro. fato l’otto produtimmo il numero seguitato e dicesti che lo democratico eccelentio equivalentiato all’egonimico attuale, è chella molla ù accalappia tutti per raggiunger cime e sperar poi d’arrivarce con li propri mezzi, possibilitate e movenze. ecce, la possibilità che vè frega, ma io non divresti parlar cussì, delle campagne e del torpore, nei bei piedi allo calar lenzuola e delo tenere duro nell’infagocitamento dergli istinti. sfondò e berluchìo al di là, pecchè m’è concesso come ti sparai zemaai, che son pur per, mio caretto tombalfacro ch’aggè visto chel plus ultra na permise all’agnostico uncurante e millantante stare, di trovar finamete chella reposta al fato che vitae nun è referenziate ma banco prova ppè vite attre. capiste tutto bégghiu fiddu? capiste l’àncora e llo mare? serviron in due per firmar lo rabisondo, e se non v’era il terzo il cattro e lo cinque e lo tutto ciò dei paini cartesiani, saremmo fermi a due cose e non a millecinquecento sette. che ti nominerò in or’ordine per poi dirte chill’ultimo, il milleveconto sette sarà nominato apari merito con l’infinito. belo poi sentire lo prezzare in viso, forse potrè fa ciò perenne dallo fatto che sentissi e vedisti l’aspirazione di voi tutti. sono in zima ma son mossa benevola e carentitevole versto il voi tutti, come icona cileste vi movo e dirigo vissò ghello bene che nel contratto tipo del bactesimo firamante tutti per lo gerto altri che non capite fino alli diciotto anni. cossì dice la legge umanae alla chale ù sottraggo èrchè sondde sopra. non in vertizio chinese blocco, ma per ordine gnosologico intrinseco alla divinità tutta. e tu, belo tombalfacro che di noi tutti sei accorso in prima battua, termi per lo avvenire tuo nel non divenirne oggi e presente ma ner domani quando abandonato corpo tuo, vagherai nel purghezio scontao pè l’averme conosciuto an tatto. e la guerra freda usa urs si schianterà col cenno del verbo venire in pace e nella sua volontà fatta in terra. dell’o errare ch’ebbi avuto in giovinetà, ricordo pure lo scoglio dello spigolo nella schiena e lo trasimeno trasalire delli corpi avvinziti sella torsione da vite tenuta insieme allo perno basso ventre. mi lassiavo andare, scarnificando e bofonchiando al lui che potea ben essere l’iniziate der domani in primis add’unnoi verso ch’ello cha pensavamo. le su bestie e l’elefanti, gli scimpanzi e la cariatidi della dea pallade in scissione con lo klimt e soci pesi alle pareti, dovean passà per lo stanza rabbuiata desa dimenticanza e deso futuro sbrendolato or comunione intentia ch’ebbimo o dove’bbìamo peu traprendere l’indì a venire. uè, madonna chiotta muorte. tombalfacro corre, alontana tuo grumo osseo e marcescente, indì incorri alle tue giovini forze verso mone e belli motori, che nelli tuoi pensieri vedo paura e terriggione. llontana corpore tuo per la nona musicata in re minore, urla e spandi a lor cittadinanza nelle rocce forti errette a dimore, ch’agge visto e che’agge detto a te, m’io testimone uculare in terrificanta espressione. lù buco nella crepa, e poi la teca in sbilencia mozzatura di sinistra. borgaciov, lu sua assistenti al tavolo freddo e marmolo darra danimarca insulare. parlino con lo regan e faranno accordi pè l’amore notro intero. lo fumo apparso, lo cecamento come primo venire per lo dimenticarse l’ordinarietà dù intorno, e lo magamarchet che s’allaga, la lattieria che s’allaga, con li ferramenta che s’allaga, con li due passanti mone che tu tombalfacro ardasti il che s’allaga e lo sparignino che s’allaga e lo cornacchio che s’allaga e lo sottobosco ir decomposizione con lidi ìnsetti motti e lo fogli caduta alo inverno che s’allaga. imerse nagua blanca, puretta pur esse dal chale trovatti senso et un posto universalmente a voi non noto, umanite terriani tropo tali per non capirne l’altizzimo mio novo abiatate. lù circo partisse e la colpa mia fùr del non trarre telefono alcuno e altre cose dal mio sfruttatore avvinghio perno. t’ogni anno si dicesse che pè lo straordinario raggiungimento delo pubblico e richiesta, prolunghiamo lo spettaculo per nove in sommatoria. comegia pur prima dello inizio eran por pronti. una profetzia del celestino o los marchetin rudimentale delli usa nel ton circo ora chiesi mai allo barbaro del mio corpo. talamente sicura in ciò che dissi di veder l’indomani lo spettaculo circense e le sua marionette all’aria con di sotto nulla. perchì lui lontano ricordo ma lontano veleggio sulli arnesi a legno come barra per li soi voli. io vidi solo la sua prova e lo suo rigirasi al capo inclinato arr’indio barocco deo tendone. movea braccio sicuro in volo con lo quale mi protasse per uno ballo. rotae le gambe e le giuntura come nulla fosse senza alcuno paragone ar nostro incontro. dallo spilinchino degli adenti autogeni allo sua basso ventre emerge chello perno che per gli anni segiu, nei pindarci voletti notturni in mano calde all’agua calda ir bagno prima, e allo pulirsi sempre all’agua poi. upo eterno ritorno all’elementaria sell’insolida aquetta che divenne suo corpo assente e perno quasi mai a contro voglia mia invasivo e prorompente. e tì, tombalfacro, che ti movi andano via, cossì pensi dell’amore, delle venture e delli sogni che sempre feci e mai raggiunsi fino ad all’allora dello oggi in cui divinae cantorum arobalerum degli altri parlò a ch’egli stenti ch’ebbi tratto fino allo vederti in sinnò nausea. roba nova che sberluccica algli occhi vostri e noi tutti. e che comunque adesso rimovo o collecheremo nelle lande magazzino memorifero, da ripescare come in sagistica sullo rapporto tra le nationi communiste al di là reno, senna e quelle sotto cubanee. regan che dalli film spara e fuggi, un moderno e gioco sciotem’up, viene paladino delle nosre plutocrazie tardo ecclesiali. pura delli altri mio tombalfacro e della loro astinenza allo perno economique, inteso a liberale commercio delli beni chellì signore, la madonna i putti gli amorini e i santi apostili e avengelicici e le madonne di corinzia e borgoginesi donatelo l’ommo per la sua fortuna e onorificenza addio. lì settimo giorno, dissero a li regan e li repubblichini tutti, che le leggi delle economie si potean trarre e notare dalle niture che migraan nel mare. nele foreste. delli cieli e nelle calandre celate della terra. chisti religiosi aquisirion omìno peè cielo per li terra e li opere in torno compreo lì foco e le starnuzio di giovarnesca rifaggine. adonarono l’indutriazione oltralpe ma prima ancora l’imper globalloromano. idero che già tutto era iscì. che lo formìca mangiava insetti morti accidentalmente per nature loro, che lo coccodrillo spetta lo fotografo der la rivista pettinatrice che si legge ale attese dela mesc. the lo taralluccio come il mais vien inscatolato, che lo pesce medio mangia lo pequeno e che isso a sua volta nutre sè medesimo con più piccolae intornù. gufo caccia vermi, ch’essi caccian per lo sprito indaacro atro ancora. e cusì, dallo danimarco ghiaccio, sciaffzenegher disse regan, che lo film s’è già visto. cho basta applicare chesto a tutto, e che ssi sarebbe potuto etimolamente dir che si facea di stà parte un tutto. e le tue mone che vedisti reggon parte a chesta legge naturallè. dalli tuoi danari, dalli tue parole; tuoi califfi; trarrai in pochi parole l’invitabile organigramma cinese in blocchi verso il chel fammo pur io tè e lo baffo col sù perno, che diedo à me lo peccato prigerimale ce permise la visione dello fume dello scorcio danese in cui tutti decise insieme le destrini di voi atri. e con voi tengo a stare arl’ombra cupe e lente di parole appena sopra pè nobiltà d’affissione e di strada ià scritta non da popoli ma dall’altizzimo. la tua domanda mio tombalfacro sul che serve quando tto è già pur scritto, e calzante man pò iriguardosa. tene di fatto fede allo principio e contesta col pugnale sottovesti d’atra parte. si ì io sapessi che lo circo andasse a tripoli dopo noi, e che non prolungasse tempo e specctaculi, mai sarei sopravvoi. l’omo perno a cui peccassi sarebbe chi come marito o più in fondo al tieni corpi esausti ne incombesse di malanno o peste. scrito era scritto ma mi son detta che di scritture ve nè na sola. po da quella le tue azioni porran altre possibilite. atre scritture, di dolore sofferenza o giadio. da pequena leggeo d’unnomino lungo a mole che s’allungava e saltellava supra teste del criminale e l’inglobava in corpore suo. ecco che dopo tri anni di belle storie dritte liunghe, parte poi che lo subitore scritto dell’amedeo, dovesso scegliere poi che strada fare all’protagunista in taluna scelta. forza incalzante come raccolto, ma la storia a bivio pare giusta al tuo chesito. uè, madonna e castrogianori, cossà ho visto e cossa tenni. àttre voci apriron porte, dalli telecolor parlase mio diretto concorrente bianco cono li berretto corto. parlava loro, tollerava e indicava il dà seguire. se non diceva ch’era inutile preoccuparsi era pechè non teneva la visione dorsa pace in danimarca delli due contindenti aulo trono. e chesto feci trasalire una giubilatia immane che mi fece dire allo tombalfacro ormai lontano e inzima al colle ch’ero forse il primo, e che lo ponteficio vaticano era all’oscuro delli fatti a te raccolti. e pè dunque pur tu, nelle mia grassie e vizinanzie, eri un ommo alla chale la sua storia gli era debitore. in dovvai, metter parte le bele mone e le piacevolezze al stai qui in parte, ada teca aperta di stò rigagnolo posto orrè successo impossibilio avvenire dette sorti derta palla tutt’intera. come lù circo e com’lo perno intorno l’omo te ne andassi, stissi sola con ch’esta apertura: e solo ch’ello omo scuro e bruno stesse alla ringhiera all’ascoltarmi. dietro a lui un gorbaciovo odd’un regan non doveao fàr in lui troppa differensa. e nelli fatti, tenne raggione tanto ghè scindendo disse a me, la certezza, chel teneva unn’atra mia omonìmia ma dinn’atrro colore.

(...)

 

 

 
Luca Ferri, (Sorisole, Bergamo, 1976), si occupa di parole (Fiori di Broca, Poemetto Galeoto) e immagini (Dodo, animale inetto al, Patrii Lidi). Nel 2010 ha pubblicato, con Cicorivolta, "Ode alle quaglie".

Vive a Olera.

Il suo luogo internet è www.ferriferri.com