titolo:
"L'elenco
universale delle cose tristi"
collana i quaderni di Cico
autore Italo Gilles Lasalle
ISBN 9788895106000
© 2008
La
vicenda si svolge tra il 1843 ed il 1848, gli anni del Risorgimento,
periodo storico di grandi fermenti e rivoluzioni, ma anche di notevoli
e fondamentali scoperte scientifiche. Date, luoghi, scoperte scientifiche,
avvenimenti storici: tutto vero. E' il periodo di Mazzini, di Marx e
di Cattaneo. Chi racconta, fatto assolutamente inedito, è una
locanda che narra le vicende delle persone che vi hanno soggiornato.
Uno di loro è il signor Ruppert che riceve posta da tutta Europa,
da amici che apparentemente gli segnalano le scoperte più tristi
del momento allo scopo di formare un elenco universale delle cose tristi.
Ma chi è veramente il signor Ruppert?
Lo scoprirà il professor Poustkin, anziano docente, che a sua
volta sta compilando un elenco universale delle parole vuote. Due vite
che si incrociano.
Poi c'è Nadine, la giovane gestrice del Café Marceau,
apparsa da chissà dove, sulla cui vera identità si affannano
il maggiore Blandino, richiamato alle armi, il reverendo Carraba, parroco
del paese, e il notaio Anvrel. Una città di provincia, nella
Francia del secolo scorso. Ognuno vive la sua esule storia e tutte,
tra loro, involontariamente si mescolano.
Italo
Gilles Lasalle nasce a Buenos Aires nel 1960 da genitori
italo-francesi emigrati in cerca di fortuna. Cresciuto dalla nonna paterna,
all'età di dieci anni viene affidato a un lontano parente ritenuto
affidabile e benestante. In realtà quest'ultimo si procura da
vivere giocando a poker sulle navi e lo conduce con sé in giro
per il mondo, alternando periodi di opulenza ad altri di grande miseria.
Lasalle impara presto a cavarsela da solo con i mestieri più
disparati. In Australia fa il cameriere, l'aiuto cuoco, il facchino
e lavora persino in un'agenzia funebre.
A diciannove anni, in Francia, mentre lavora come aiuto-tipografo in
una stamperia del Quartier latin, legge un brano di Rilke che per lui
è come una folgorazione:"Bisognerebbe aspettare e raccogliere
senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi,
proprio alla fine, forse si riuscirebbe a scrivere dieci righe che fossero
buone".
A quarantatre anni decide che è arrivato il momento di mettere
su carta le sue esperienze. Va a vivere in Belgio, nell'entroterra di
una città di provincia. Si chiude in casa e scrive il romanzo
autobiografico Per terra ho annusato la vita, con il quale nel
2007 vince il concorso letterario "Il libro parlante" (edito
da Il Ponte Vecchio- Cesena). L'elenco Universale delle cose tristi
è il suo secondo romanzo.
titolo:
"ALL'OMBRA
DELLA GRANDE FABBRICA"
collana i quaderni di Cico
autore Gennaro Morra
ISBN 9788895106000
© 2008
Stefano
è un ragazzo affetto da tetra-paresi spastica e i suoi genitori
lo stanno accompagnando in ospedale dove gli inietteranno dell'acido
nelle vene per cercare di curare un linfoma. Nello stesso giorno si
diffonde in città la notizia che la grande industria siderurgica,
sulla quale affaccia la finestra della stanza di Stefano, presto chiuderà
i battenti.
Marco, amico d'infanzia di Stefano, è un convinto ambientalista,
ma è anche figlio di un operaio della fabbrica siderurgica. La
chiusura dell'industria, un evento per cui si è battuto tanto
insieme agli altri membri dell'associazione che frequenta, gli stravolgerà
la vita, portandolo a scontrarsi ferocemente con il padre e costringendolo
a emigrare al Nord.
Esistenze tormentate dal susseguirsi di eventi più grandi di
loro, incapaci di contrastarli e di non soccombere. E sullo sfondo un
quartiere operaio di una Napoli appena riconoscibile, lontana anni luce
da quella che quotidianamente è alla ribalta sui giornali e in
televisione. Una città che però esiste e merita di essere
raccontata con lo stesso vigore con cui si racconta la Napoli violenta
e sanguinaria.
Gennaro
Morra dice di sé: "Sono
nato a Napoli nel 1972 da genitori giovani e proletari, che avevano
messo su casa in un quartiere operaio di periferia, nato e sviluppatosi
intorno a una fabbrica siderurgica. La mia venuta al mondo non fu proprio
un evento felice: i medici non riuscivano a farmi uscire e allora tentarono
con le maniere forti. Alla fine i loro sforzi furono premiati e io vidi
la luce, ma una parte del mio cervello era danneggiata. Fortunatamente
la lesione riguardava solo la zona dalla quale partono gli impulsi che
controllano l'attività motoria, mentre le facoltà intellettive
erano intatte. Niente male come inizio, no?
Ho imparato a leggere e a scrivere molto prima che riuscissi a reggermi
in piedi, e questa precocità convinse i miei genitori e gli assistenti
sociali che, nonostante l'handicap, sarebbe stata cosa buona e giusta
farmi frequentare la scuola.
Studiare non era facile, soprattutto negli anni '70 in una città
come Napoli. Non c'erano computer o altre tecnologie in grado di sostenere
i miei sforzi. Per scrivere, quando nessuno poteva registrare il mio
dettato, dovevo accovacciarmi sul pavimento: le ginocchia a fermare
il quaderno, la schiena ricurva in avanti ed entrambe le mani aggrappate
alla penna, che solcava i fogli bianchi con enormi e intensi graffi
d'inchiostro. A quell'epoca scrivevo così e, nonostante il dolore
alla schiena e i calli alle dita, mi piaceva fermare sulla carta i miei
pensieri. Avevo dieci anni quando scrissi la mia prima storia. Impiegai
due giorni per riempire cinque pagine di quadernone, roba che un altro
avrebbe scritto in mezz'ora, occupando mezzo foglio. Però, ero
felice di essere riuscito a portare a termine quella piccola impresa.
Mi sentivo uno scrittore provetto.
Il primo computer mi fu regalato all'età di 13 anni. Fu la prima
svolta della mia vita. Riuscivo a digitare con l'indice sinistro, mentre
la mano destra cercava di sostenere la sinistra e di non farle compiere
troppi scatti inconsulti. Imparai il libretto di istruzioni a memoria,
arrivando anche a editare qualche programmino.
Gli insegnanti delle medie, viste le mie capacità, decisero che
sarei diventato un genio dell'informatica, consigliandomi di iscrivermi
all'istituto per periti informatici. Seguii quel consiglio, ma a malincuore.
Ero un ragazzino che scriveva poesie e racconti e che si era avvicinato
al PC per superare le sue difficoltà motorie, non ero certo adatto
agli studi tecnici.
Infatti la mia carriera scolastica alle classi superiori non fu brillante,
anche perché costernata da tante difficoltà e distrazioni.
Conseguito il diploma, decisi di cambiare completamente indirizzo di
studi e di tornare alle materie umanistiche. Scelsi la facoltà
di sociologia e non me ne sono mai pentito.
Purtroppo, anche gli studi universitari hanno subìto spesso rallentamenti
e interruzioni. In particolare nel 1998, con l'estrema diffusione di
internet, ci fu un altro stravolgimento della mia vita. Andai a rispolverare
le mie conoscenze informatiche perché volevo imparare a costruire
un sito web e pubblicare un giornale. Partì come un gioco, ma
in seguito è diventato un lavoro. Oggi gestisco decine di siti
web e collaboro con varie associazioni, che si avvalgono del mio aiuto
per aggiornare i loro siti web e tenere corsi di informatica accessibile,
ovvero come usare un PC nonostante i problemi motori.
Pur se a rilento, sono anche riuscito a portare avanti i miei studi
in sociologia e ormai manca solo la tesi.
Tuttavia scrivere è sempre la mia prima passione, sicuramente
la cosa che mi soddisfa di più. Ho accarezzato il sogno di farlo
diventare il mio lavoro quando tre anni fa il direttore dell'edizione
napoletana di Repubblica mi pubblicò nove articoli nel giro di
pochi mesi. Illudersi di poter fare il giornalista restando chiuso in
casa, però, fu un grave errore. È di sicuro un ambiente
difficile dove per affermarsi si richiedono anni di sacrifici e parecchia
gavetta, il solo talento non basta.
Quell'esperienza mi è servita a rendermi consapevole di quel
talento, e se non potevo spenderlo nel giornalismo, avrei potuto tentare
un'altra strada. Da uno di quegli articoli pubblicati su Repubblica
è nato un romanzo breve, che ho cominciato a far leggere agli
amici, e qualcuno mi ha consigliato di spedirlo a qualche editore. Sono
sempre stato scettico sulla possibilità di trovare un editore
onesto che punti su un esordiente. Per fortuna il manoscritto l'ho inviato
a Cicorivolta, e allora eccomi qua a vivere questa nuova, fantastica
avventura."
titolo:
"BACIAMI
MOLTO"
collana i quaderni di Cico
autore Antonio Menna
ISBN 9788895106000
© 2008
"Certi
delitti si risolvono in 48 ore o non si risolvono più",
al commissario torna in mente una frase sentita qualche anno prima,
in televisione, da un criminologo. Chissà perché è
un concetto che lo convince. Sì, quarantotto ore oppure mai più.
Fiuto,
lucidità e acutezza, per una storia contemporanea a tinte gialle.
Sullo sfondo di un intreccio appassionante e raffinato, l'hinterland
di Napoli, con i suoi semplici invasi naturali, fatti di equivoci, uomini,
donne, fiori di anarchia psicologica e sociale, verità col doppiofondo,
cariche politiche, istituzionali, nomi, cognomi, sensualità,
ironie. Un'altra importante prova d'autore, predestinata, riuscita,
equilibrata e vera: soprattutto vera, al di là di tutto - per
ispirazione, densità e morbidezza di stile - di Antonio Menna.
(brano
tratto da "BACIAMI MOLTO")
(...)
Il telefono, quel maledetto telefono, ha cominciato a squillare nel
momento esatto in cui aveva varcato la soglia della coscienza e aveva,
con la cautela di sempre, chiuso gli occhi e avviato il suo, cronicamente
breve, sonno.
Di solito riusciva ad addormentarsi verso le 23, svegliandosi, con una
puntualità meschina, alle due. Andava avanti così da dodici
anni, da quando viveva da solo.
Alle due si alzava dal letto, faceva un caffè e si metteva alla
scrivania a rimuginare, scrivere, scavare; oppure davanti alla tivvù
a guardare televendite e filmati erotici.
Aveva appena chiuso gli occhi che, intorno alle 23 e 40, l'assistente
Bonsignore lo aveva tirato giù.
"Un omicidio, commissario, a via Cascate".
"Non urlare Bonsignore, non c'è bisogno".
"Ci va subito?"
"Subito? Calma, adesso scendo".
Un omicidio, come se fosse una novità. Nell'hinterland ce n'era
uno ogni due giorni. Il suo commissariato abbracciava sette comuni,
tutti stretti intorno alla cinta di Napoli. Sette paesi che sembravano
città: il più piccolo aveva 20mila abitanti, il più
grande 100mila. In tutto, il suo mandamento aveva 500mila abitanti.
Una questura, ci vorrebbe, ripeteva continuamente Ammaturo ai suoi uomini.
Che poi erano in tutto 35. Quattro macchine, un furgone, una decina
tra ispettori e assistenti, il resto diviso tra piantoni, malattie,
e cose varie. Un esercito molliccio che però Ammaturo riusciva
a pungolare nell'orgoglio.
Quella caserma matta aveva realizzato bei colpi. Erano arrivati dal
Ministero e dalla Procura a tenere conferenze stampa quando quei quattro
dilettanti riuscirono a beccare nelle campagne vicino al mare Lorenzo
Faletta, capocamorra della provincia napoletana, unico camorrista a
essere presente nella cupola mafiosa, latitante da sedici anni e nascosto
nel giardino della casa dei nonni, una vecchia masseria con una stalla,
una cantina e due enormi stanzoni. In quella casa abitava una vecchia
zia del boss; una donna novantenne legnosa e fiera che la mattina mungeva
una vacca vecchia come lei e di pomeriggio zappava un metro quadrato
di orto da cui raccoglieva insalata e patate.
Fu Ammaturo in persona ad arrestare il latitante. Insieme a un paio
di suoi uomini.
Decise che doveva stare lì, in quella casa, per forza. Una questione
di odori, di radici, di simboli. La polizia di mezzo mondo cercava Faletta
nei posti più sperduti: ai caraibi, in Spagna, in Sudamerica;
gli si attribuivano travestimenti, famiglie fittizie, nomi sconosciuti,
acrobazie varie.
Ammaturo rimase a Marenza, andava tutti i giorni a passeggiare in un
giardino vicino, seguiva i passi della vecchia, la osservava. Un pomeriggio
si portò dietro due ragazzi, varcò la recinzione ed entrò
nella masseria, seguì qualche orma, si arrampicò su per
una scala, aprì una botola, poi un'altra, se lo trovò
di fronte, sorridente. "Andiamo commissario, complimenti".
Lo portò via sulla sua macchina, seduto accanto, come fosse un
amico. Arrivò in caserma placido, salutò il piantone e
andò nella sua stanza, portandosi dietro il boss. Gli fece firmare
il verbale d'arresto e solo allora arrivarono tutti di corsa per avere
notizie.
Telefonarono in tanti, il Ministro perfino. Vollero a tutti i costi
inventare una operazione di polizia: descrissero alla stampa l'arresto
con particolari cinematografici. Appostamenti, intercettazioni, pedinamenti.
E poi un blitz con cento uomini, elicotteri, perfino sommozzatori a
perlustrare il mare vicino.
Lui stette al gioco, per pigrizia.
Un bel gruppo il suo, caloroso e molle come una famiglia.
Al piano di sotto del commissariato c'erano gli uffici, di sopra il
suo alloggio di servizio. Scese le scale e trovò Bonsignore in
affanno.
"Ho mandato tutte e due le pattuglie, commissario. E' un omicidio
strano, diverso dagli altri".
Come può un omicidio essere diverso dagli altri, pensò
Ammaturo ma non se la prese con Bonsignore. In fondo aveva ragione;
agli omicidi ci avevano fatto il callo. Quattro, cinque colpi di pistola,
una moto che scappa: rituali di camorra, regolamenti di conti.
Ma questo, in effetti, era un omicidio strano. Un filo di ferro teso
al collo, una ragazza strangolata, niente sangue, niente precedenti
penali.
E per giunta, la ragazza era consigliere comunale. (...)
Antonio
Menna
è
nato a Potenza nel 1968 ma vive a Napoli (in provincia) dal 1980. Laureato
in Scienze politiche, ha cominciato a collaborare con i giornali a 18
anni e non ha più smesso. E' iscritto all'Ordine dei Giornalisti
dal 1991. Collaboratore del quotidiano Il Mattino, suoi articoli appaiono
su testate nazionali e locali, tra cui Il Manifesto, Liberazione e la
Tribuna, nonché i settimanali Vita e Avvenimenti e il mensile
La Voce della Campania. Antonio Menna si occupa anche di comunicazione
e di progettazione sociale con l'ente non profit RiMEDIA, di cui è
vicepresidente. Altra sua passione è la politica: dal 1996 è
consigliere comunale a Marano di Napoli, città di 60mila abitanti
a nord del capoluogo campano; dal 2000 al 2005, della stessa città,
è stato anche assessore alle politiche sociali.
"Cocaina & Cioccolato" è il suo primo romanzo
uscito nel giugno 2007 per Cicorivolta Edizioni.
titolo:
"NON
PERDONATO"
collana i quaderni di Cico
autore Samuel Marolla
ISBN 9788895106000
© 2008
Joe
Corso è un adolescente italo-americano. Joe Corso è un
adolescente italo-americano, spaccone e disadattato, apparentemente
non dissimile dagli amici della sua compagnia, i cosiddetti Vecchi della
Plaza. Joe Corso è un adolescente italo-americano, spaccone e
disadattato, che vive nel Quartiere Latino, sgangherato e violento quartiere-ghetto,
zona di italiani e sudamericani in un'improbabile America da fumetto
acido, miscuglio di reminiscenze comics e telefilm anni '90 e non molto
dissimile da una qualsiasi degradata periferia italiana. La vita di
Joe Corso si trascina fra il pesante lavoro da operaio e le serate nella
Plaza con i Vecchi ragazzi, i perdigiorno e i delinquentelli dediti
allo spaccio, all'ubriachezza molesta e alle risse da strada. Joe Corso
ha una ex fidanzata storica che non vuole saperne di mollarlo, inoltre
ha un fratello che cerca di salvare da una precoce carriera criminale
e una sorella autistica da accudire. Nel Quartiere Latino la vita si
mostra a colpi violenti di rabbia, rancore e nostalgia e si "smostra"
in un certo, necessario, impreciso modo per quello che è; così
tutto sembra andare proprio come deve. Il Destino. Il Tempo Allucinato.
Lo Spazio Lisergico. La Testa. Lo Spazio che c'è nella Testa.
Che si dilata e si restringe. Ma forse Joe è diverso. Lui desidera
"vedere" qualcosa di più e "possedere" qualcosa
di meglio che ancora non sa. E quando conosce la misteriosa Ruby, e
se ne innamora perdutamente, forse le storie iniziano davvero a cambiare.
Peccato che il suo migliore amico - uno che per Joe darebbe la vita
-, Willy Santiago, detto El Capitan, noto balordo e picchiatore, si
sia innamorato anche lui proprio di quella Ruby. E peccato pure che
Ruby sia lesbica, e di quel genere di lesbiche che non cambiano facilmente
idea.
Ecco, questa è la storia acida di come Joe, Willy e Ruby affronteranno
la fine della loro giovinezza; chi con indomita, tragica determinazione;
chi con la disperata consapevolezza di quello a cui andrà incontro,
e infine chi, al di là di ogni "sconcerto", lotterà
fino alla fine per affrancarsi da ogni legame e realizzare i propri
sogni impossibili. Sogni nei quali soltanto ci si può specchiare,
come soldati di ritorno a casa dopo anni di vane prodezze e micidiali
batoste. Perché il marchio di fabbrica è il Quartiere
Latino. Perché forse il Quartiere Latino, muto e indifferente
testimone, coacervo di razze e di tribù, ha già insegnato
a ciascuno loro, e da un mucchio di tempo, che non si può cambiare
quello che si è nel più profondo dell'anima; perché
chi viene dalla strada il proprio destino ce l'ha marchiato addosso,
come una sentenza che non prevede appello e come un tatuaggio che recita:
"NON PERDONATO".
Brano
tratto da NON PERDONATO
Capitolo
1 : L'allucinazione di Joe (è arrivato il Circo)
A
Tanagura, la città della sottomissione, questa notte il metallo
urlerà di dolore. O almeno così recita lo slogan blu in
fondo al giornaletto che il ragazzo con la maglietta di Bart Simpson
sta sfogliando con fare abbastanza annoiato. Questa non è una
cazzo di Tanagura la città della sottomissione, pensa, questa
è la City, terzo livello, la cosiddetta old rock city, residuato
bellico di pietra grezza, ultime vestigia di una civiltà splendida
e fottuta, dove artisti e assassini si fondevano in un unico eterogeneo
popolo. Questo anfiteatro era un tempio, una volta, un tempio dedicato
a chissà quali perverse divinità pagane e (ancora) dove
si svolgevano chissà quali aberranti culti di potenza cosmica,
con annessi sacrifici umani e attività caratteristiche come sgozzare
bambini su quel pulpito di marmo (stranamente cosparso di misteriose
macchie cremisi ormai scolorite dalla pioggia acida), o estirpare con
determinata cattiveria il fiore della purezza di giovani e avvenenti
e ingenue (e soprattutto vergini) ragazze allevate in castità
e isolamento appositamente per questo scopo.
L'anfiteatro ormai è ridotto a un cumulo di macerie, colonne
spezzate dominate da una vegetazione sporca e incolta, e raccoglie nel
suo ventre fetido ogni genere di rifiuto umano che trova, fra le sue
cosce umide, un materno e incestuoso giaciglio.
I gatti dominano questo luogo abbandonato, gatti ovunque, di qualunque
razza e colore, gatti che in Yago evocano strane fantasie, forse di
anime di trapassati che ora vivono dentro questi felini, fantasmi senza
pace di uomini trucidati senza pietà fra queste colonne magari
mille, magari duemila anni fa, anime che vivono dentro i gatti e risplendono
da quegli occhi gialli privi di emozione, anime che vogliono uscire
fuori e urlano alla luna, di notte, tutto il loro tormento. I gatti
gli strisciano intorno, e strisciano intorno ad altri corpi, ammassati
qua e là, alcuni che si trascinano stancamente, altri di una
fissità ipnotica. Un gatto, in particolare, si struscia con insistenza
addosso al ragazzo con la casacca blu, collassato su uno dei gradoni
di pietra dell'anfiteatro in una posizione innaturale. Gli ha preso
brutta, stanotte, ride mentalmente Yago, proprio brutta, e torna a dedicarsi
anima e corpo a Tanagura la città della sottomissione dove stanotte
il metallo urlerà di dolore, questa volta senza noia, questa
volta divorando avidamente con quegli occhi vacui e un po' depressi
un pazzesco manga porno pieno zeppo di arti marziali sparatorie morti
sventrati e soprattutto cazzi e fighe in quantità industriale,
ipercensurati, cioè coperti da un alone bianco per non impressionare
nessuno (come se non si capisse che questa è una figa, pensa
Yago, e questo cosa ti sembra? Scusa, secondo te quella cosa lunga che
'sto tipo si ritrova in mezzo alle gambe, che roba è, la canna
di una pistola, ti sembra la canna di una pistola questa? Però
che strano, assomiglia incredibilmente a un cazzo in erezione lungo
trenta centimetri), una ridicola storia d'amore e di sesso e di violenza
con qualche rifinitura omosessuale, anzi di evidente stampo omosessuale,
anzi troppo omosessuale, anzi a dirla tutta è proprio una storia
d'amore omosessuale (oserei dire una fottuta storia di froci, pensa
ancora Yago), proprio una commovente love story gay coi cazzi e controcazzi
(in tutti i sensi). La sua mente perversa collega i cazzi censurati
che vede a quella strana fantasia di prima, quella sulle vergini allevate
con cura e amore e tanta pazienza per poi essere sverginate senza pietà,
e nella sua mente perversa appaiono come per magia enormi falli di bronzo,
lunghi mezzo metro, arroventati sul fuoco, da usare ancora fumanti per
estorcere a quelle così devote troiette il loro piccolo segreto.
Yago è a Tanagura la città della sottomissione adesso,
Yago è nel Tempio Fallico di Tanagura a stuprare devote troiette
brandendo un enorme cazzo di metallo rovente alla stregua dello splendido
drugo Alex di Arancia Meccanica.
Il suo amico con la casacca blu si sveglia, vede il tipo con la maglietta
di Bart Simpson leggere un fumetto e sorridere in modo sadico con gli
occhi brucianti di una luce vogliosa, perso nel suo trip ora risalito
improvvisamente.
A lui, invece, è sceso quasi del tutto adesso, rimane solo quella
sensazione di appiccicaticcio per tutto il corpo, quel sentirsi sporco
e smostrato, e poi tutte le ossa gli fanno un male cane e lividi e tagli
ovunque. - Fanculo! - esclama.. È l'alba. Yago legge il suo fumetto
appoggiato alle grate del cancello ed è l'alba. Un gatto passa
e non sa neanche dove va. Il sole sorge, e colora il cielo, è
l'alba, e Joe il piccolo bastardo è tornato a casa.
Notti selvagge, dove siete? Quando correvo contro albe ubriache e stelle
spente, urlando il mio tormento, luccicando di tristezza.
Così, senza squilli di tromba o cori di pon-pon girls, Joe è
tornato a casa. Nessuno se n'è accorto, forse a nessuno gliene
frega un cazzo, però lui è tornato. Per riprendersi qualcosa
di suo, che gli spetta di diritto, come un trono rubato da un usurpatore,
un fottuto traditore che adesso è crepato all'inferno, ecco cosa.
E così eccoti qui, di nuovo nella City, di nuovo fra le strade
bagnate sotto le insegne al neon dei pornoshop a guardare nelle pozzanghere
il tuo volto riflesso e a fare finta che appartenga a qualcun altro,
così di nuovo all'anfiteatro a farti un trip come quando eri
ragazzino e avevi appena scoperto che l'acido lisergico è una
cosa seria, così eccoti di nuovo con lo sguardo perso nel vuoto
e con la malinconia che ti assale alle spalle, vigliacca e puttana.
È strano, capita a volte di prendere tutte le strade sbagliate
e di perderti e non ricordarti più dove dovevi andare, però
poi malgrado le strade siano sempre state sbagliate ti ritrovi in un
posto di pace, un piccolo paradiso, che (forse) puoi chiamare casa.
Il piccolo bastardo è tornato.
Così giochi al reduce dal Viet-Nam. Chissà quante cose
avrai da raccontare, eh, chissà quante ne hai combinate, piccolo
bastardo. Sei andato via per cercare qualcosa che non sapevi nemmeno
cosa, l'hai trovato alla fine? No, e scommetto che hai anche perso te
stesso. Non sai più chi sei. Chi sei veramente, dico. C'è
stato il Cambiamento. Hai accettato il Cambiamento. Lo hai desiderato,
giù, giù, nel più profondo della tua anima. Non
si torna indietro dopo che arriva il Cambiamento. Non sei più
lo stesso, ma non sei neanche riuscito a diventare quello che volevi
diventare. L'uomo che credevi di essere. Di essere dentro.
Il trip non mi è ancora sceso, constata Joe. Tipici pensieri
incasinati da trip. Senza senso, senza filo logico, un'idea si accavalla
su un ricordo, una cosa fa ridere e un'altra ti deprime immensamente.
Angoscia, euforia, esaltazione, voglia di suicidio. Un cocktail di emozioni
esplosivo. È Bart che ti bussa alla bocca dello stomaco, ti sale
su nella gola, sparato nel cervello, ormai su un'altra frequenza, una
stazione pirata a cui è impossibile accedere in circostanze normali,
devi avere il pass per entrare, mezzo centimetro quadrato di carta con
la faccia di Bart Simpson disegnata sopra e un vago sapore amaro in
bocca. È Bart, solo questo, e niente più di questo, Bart
che si nasconde nel tuo stomaco e urla per saltare fuori. Ma ormai lo
conosci bene, te lo sai gestire, lo sai tenere buono finché non
si stanca e se ne va.
Vuole solo tornare a dormire, adesso, Joe il piccolo bastardo che è
tornato a casa, perché stanotte deve andare al locale, stanotte
Nash lo aspetta al locale per fargli vedere come gira, stanotte rivedrà
qualche faccia familiare, qualcuno dei vecchi. Nella lettera Nash gli
ha detto che lo aspetta una sorpresa. E il primo pensiero di Joe, riguardo
la sorpresa, figuriamoci, è stato che la sorpresa sia lei.
Chissà se c'è Willy. Degli altri, di chiunque rivedrà
nella City o nel locale, non gliene frega un cazzo. Erano solo compagni,
gente di contorno, tutto qui. Tutti delle merde, nessuno escluso. Gli
importa solo dell'inossidabile Nash, di Willy, e (ammettilo) di lei.
Joe guarda Yago e gli vengono in mente una tonnellata circa di cose
su di lui, di aneddoti, di frasi, di casini. Cose a volte belle a volte
meno, certe da pisciarsi addosso dal ridere, altre che magari ti fanno
pensare un attimo, ti fanno guardare allo specchio per riconoscere quella
faccia, dire sì, cazzo, sono proprio io, ero io quello che quella
certa volta ha fatto questo e quell'altra ancora ha detto quest'altro.
Sembra impossibile, ma ero proprio io, quello. Joe guarda Yago e si
sente un po' triste, però il sole è sorto adesso, il cielo
è colorato, Bart sta dormendo, è tutto meravigliosamente
ok. Tranne quell'elefante che sta passando per la strada, oltre Yago
e oltre il cancello e oltre la fila di macchine, proprio quello, sì,
quell'elefante che sta camminando lungo Sim Avenue diretto verso Plaza
de Toro.
Questa volta il trip non mi scende più, pensa velocemente e tragicamente
Joe. Il tuo ultimo viaggio. Cazzo, voglio dire, un elefante non l'hai
mai visto, nemmeno al droga party di Passerotto quando ti hanno portato
fuori in un sacco della spazzatura talmente facevi schifo, nemmeno quella
notte che tu, Cat e Fox vi siete sniffati undici grammi in tre e ti
è venuta la mania del complotto e pensavi che Cat e Fox ti volessero
ammazzare e ti sei buttato dalla finestra del primo piano e quelli della
neuro ti hanno legato con la camicia di forza, nemmeno quella volta
ti è mai venuta una cazzo di allucinazione del genere. Un elefante
che cammina per la strada. Questo è veramente troppo. Hai esagerato.
Ti è scoppiata l'ultima sinapsi del cervello. Il tuo sistema
nervoso centrale è a puttane bambino lo sai vero? Ora ne sei
convinto, ora più che mai, questo ultimo trip lo paghi caro.
Per tutte le volte che ti è andata bene. Tante davvero.
Sei rimasto sotto, bello.
Yago
è a Tanagura la città della sottomissione dove stanotte
il metallo urlerà di dolore adesso, Joe il piccolo bastardo è
tornato nella city (e pensa ancora a lei) e un elefante sta passando
per la strada all'alba di un tiepido mattino di aprile, o almeno Joe
vede un elefante passare per la strada all'alba eccetera, e questo sta
a significare una sola cosa: la sua già precaria sanità
mentale è venuta meno del tutto. Qualcosa si è spezzato
dentro di lui, dentro il suo cervello, qualcosa è scivolato via,
nel buio, qualcosa che si chiama "lume della ragione". - Ma
vaffanculo! - ripete urlando, salta giù dai gradoni di pietra,
incespicando, si tira su la giubba, si avvicina al cancello, guarda
fra le grate. È proprio un elefante, non c'è un cazzo
da fare. È lì. In mezzo alla strada. C'è un fottuto
elefante in mezzo alla fottuta strada!, urla disperatamente con la bocca
chiusa. I suoi occhi compiono una lenta panoramica lungo Sim Avenue.
Le macchine iniziano a muoversi, i lavoratori escono di casa, le fabbriche
si svegliano. Qualcuno cammina dall'altro lato della via. C'è
un cazzo di elefante in mezzo alla strada e nessuno se ne accorge. Un
tipo in bicicletta supera il gigantesco animale, passa e se ne va. È
inconcepibile. C'è un elefante in mezzo alla strada e nessuno
fa niente, nessuno dice niente. È proprio una città di
merda.
- Yagoooo! - e gli molla un calcio a un fianco.
- Oh ma che cazzo
- e Yago si trova sollevato di peso e sbattuto
contro la grata.
- Lo vedi? Lo vedi quello?
- Cosa? Quello cosa?
- Quello, porcatroia, quella
quella cosa! Quell'elefante!
Yago scoppia a ghignare, prima piano, poi sempre più forte, fino
a farsi venire le lacrime agli occhi. Joe arretra, in evidente stato
confusionale. Tiene ben stretto Yago per la maglietta, quasi avesse
paura che anche lui sia un'allucinazione. - Dimmi che lo vedi anche
tu, ti prego, Yago, ti voglio bene, dimmi che lo vedi anche tu un elefante
in mezzo alla strada.
Yago ha una crisi epilettica adesso, Yago è schizzato fuori da
Tanagura la città della sottomissione e si ritrova a Sim Avenue
nel Quartiere Latino a guardare un elefante in mezzo alla strada. -
Un elefante? Tu sei proprio sotto
- e guarda a sinistra. Anche
Joe guarda a sinistra. C'è una fila di elefanti a sinistra. Proprio
all'inizio di Sim Avenue. Cinque elefanti bardati di tutto punto, con
drappi colorati e borchie e tutto il bendiddio, cinque elefanti del
cazzo camminano tranquilli per Sim Avenue. Non uno, badate bene, non
un elefante, cinque elefanti camminano per la strada. Sommato al primo,
fanno sei elefanti. Uno passi. Se vedi un elefante, uno solo, c'è
qualche remota possibilità che tu non sia diventato scemo del
tutto, che (forse) il trip era una martellata dietro la nuca, cioè,
era forte di brutto, un'allucinazione, ok, hai avuto un'allucinazione,
voglio dire, hai preso un allucinogeno, mica coca-cola e aspirina
ma 6 elefanti sono troppi. Davvero. Sono veramente troppi.
E poi, di colpo, come quando ti svegli di scatto al suono della sveglia
e resti per un paio di secondi traumatizzato a capire che cazzo sta
succedendo, lo shock del passaggio dal sonno alla veglia, ecco gli squilli
di trombe e le pon-pon girls apparire in tutto il loro magico splendore,
per festeggiare il ritorno di Joe il piccolo bastardo, gli sbandieratori
scagliano in aria le bandiere colorate, gli equilibristi sui trampoli,
persino un mangiatore di fuoco che vomita fiamme a destra e a manca.
Tutti per lui.
- È arrivato il circo! - urla Yago, scavalca il cancello, si
fionda in mezzo alla strada, fra gli elefanti.
Anche la gente ora corre in mezzo alla strada, tutti intorno all'allucinazione
di Joe, tutti applaudono al suo comitato di benvenuto, tutti lì
per lui. E lui è dietro le sbarre, a godersi lo spettacolo. Bart
Simpson gli regala un ultimo fugace pensiero prima di abbandonarlo del
tutto, che per tutta la vita è stato a vedere le cose da dietro
le sbarre, come se non facesse parte di tutto il mondo che c'era al
di fuori, come se non gliene fregasse un cazzo di niente e di nessuno,
tutto gli appariva sempre così estraneo e diverso e assolutamente
inutile come se guardasse da dietro le sbarre. Non è cambiato
niente.
Questo è un addio, Bart, vecchio e fedele compagno di notti selvagge
che non torneranno più, questo è lo spettacolo di addio
a tutte quelle notti, questa è l'Ultima Notte. Chiudo in bellezza,
con elefanti e pon-pon girls e orchestra e tutto il resto, e uno spaventoso
senso di vuoto che ti prende alla bocca dello stomaco al posto di Bart,
una devastante sensazione di tristezza infinita per qualcosa che ti
sta scivolando via, sei lì a guardare e te ne rendi conto, sei
cosciente, ti rendi perfettamente conto che questo è il caos
che precede il nulla, la fine di una parte della tua vita, la Fine della
Giovinezza.
Joe scavalca il cancello e corre dietro a Yago, lasciandosi fra l'erba
incolta e le colonne spezzate e i gatti quell'ultimo fugace pensiero
e il fantasma di un ragazzino spaventato ed eccitato che si è
mangiato un trip per la prima volta, e lo sa, che non tornerà
mai più in questo posto e fra un paio di anni lo avrà
dimenticato, in un angolo buio della sua memoria, lo sa, ma non si gira
a dargli un'ultima occhiata, come se temesse di trasformarsi in una
statua di sale e di sciogliersi a quel timido sole che è spuntato.(...)
Samuel
Marolla vive a Milano. Diplomato in
sceneggiatura alla Scuola del Fumetto, scrive racconti, romanzi e soggetti
per storie a nastro. Ha pubblicato il romanzo "Gemini",
vincitore del concorso "Ducas"
(Nicola Pesce Editore, 2007).
Al concorso Lanciano
nel Fumetto 2007 - Sezione Sceneggiatura - si è classificato
terzo con la l'opera breve dal titolo "Sulla strada per Destino",
che nsieme alle opere degli altri vincitori è pubblicata in un
volume speciale della rivista di fumetti Fumo
di China. Nel
2008, con il racconto "A volte, Satana è vicino a me",
è risultato vincitore della trentaduesima edizione di NeroPremio,
Concorso Gratuito per Racconti Horror, Gialli, Fantastici indetto dal
sito La Tela Nera
e sponsorizzato dalle Edizioni XII.
titolo:
"PICCOLI UOMINI"
collana i quaderni di Cico
autore Claudio Calvi
ISBN 9788895106000
© 2007
PER
LA SERIE... LA STORIA SI RIPETE*
Direttamente
dal C.O.N.I.
e
dai relativi verbali del Concorso Nazionale per il Racconto Sportivo:
CLAUDIO
CALVI SI AGGIUDICA PER LA SECONDA VOLTA* IL PRIMO PREMIO
Roma
28 giugno 2006
La Commissione Giudicatrice del XXXV° Concorso
Nazionale per il Racconto Sportivo si è riunita oggi presso
la sede del CONI al Foro Italico. Dopo aver esaminato i 78 racconti
partecipanti, la Commissione composta da: Gianni Letta (Presidente),
Novella Calligaris, Nino Petrone, Folco Portinari, Gianfranco Teotino
ha deciso all'unanimità di attribuire il *1°
Premio a Claudio Calvi per il racconto
"Piccoli Uomini"
Roma
31 maggio 2004
La Commissione Giudicatrice del XXXIII°
Concorso Nazionale per il Racconto Sportivo, presieduta da Gianni
Letta e composta da Novella Calligaris, Nino Petrone, Folco Portinari
e Gianfranco Teotino, si è riunita oggi presso la sede del CONI
al Foro Italico. Dopo una lunga e approfondita discussione sulle 63
opere presentate, ha unanimemente deciso di assegnare i seguenti premi:
- 1° Premio al racconto "Una domenica di sport"di Solidea
Bianchini
- 2° Premio al racconto "Vecchia gloria"di Paolo Ceccarelli.
Segnalazione speciale con targa d'onore
al racconto: "La volata" di Claudio Calvi e
al racconto "La fenomenologia di Pippo Inzaghi" di Paolo Scopece
Roma
15 ottobre 2001
La Commissione Giudicatrice del XXX° Concorso
Nazionale per il Racconto Sportivo composta da: Gianni Letta (Presidente),
Novella Calligaris, Nino Petrone, Folco Portinari, Gianfranco Teotino,
si è riunita oggi presso la sede del CONI al Foro Italico. Dopo
una lunga e approfondita discussione sulle numerose opere presentate,
ha unanimemente deciso di assegnare il *1°
Premio al racconto "Quella
curva prima del cielo" di Claudio Calvi
...
*E QUANDO LA STORIA SI RIPETE, NON PUO' ESSERE CERTO UN CASO, SOPRATTUTTO
SE A PARTECIPARE AD UN CONCORSO TANTO PRESTIGIOSO CI SONO, FRA GLI ALTRI,
AUTORI DAI NOMI RISONANTI E CHE PER TUTTO L'ANNO SCRIVONO DI SPORT...
PERCIÒ:
Tutti
i racconti sportivi di Claudio Calvi saranno prossimamente pubblicati
da Cicorivolta Edizioni...
(Per
saperne di più su Claudio Calvi, leggi il blocco successivo relativo
a "L'attesa")
titolo:
"L'attesa"
collana i quaderni di Cico
autore Claudio Calvi
ISBN 9788895106000
© 2007
Maggio
radioso (brano tratto da "L'attesa")
e la banda intonò la Marcia Reale
Seguì un discorso
del Colonnello a frasi spezzate, nel quale non riuscivo ad astenermi
dal notare le sconcordanze sintattiche. Nel leggere la formula del giuramento
egli s'impaperò, qualcuno nelle file rise
(G. Frontali,
Diario)
Il
nostro sindaco
Anche in un campo d'accoglienza saprà ritagliarsi
un angolo sicuro.
Questa è l'arte della politica, in fondo
Il
palco è una macchia tricolore che si staglia contro il reticolo
di vigneti sul colle della Marisa. In quel tripudio di bandiere il sindaco
è una sagoma scura issata in precario equilibrio su una cassetta
di legno
Anche
in un paese divenuto austriaco lui ritornerebbe da sindaco.
Cambierebbe il nome del sovrano, e del regno. Ma le sue frasi scoordinate
rimarrebbero le stesse.
C'è
caldo, si fa fatica a stare in piedi ad ascoltare le parole ispirate
della nostra massima autorità. Paola non è venuta, non
stava bene. Eleonora è seduta sotto una pianta e guarda il palco.
E' lontana, non può udire le parole del sindaco
Il
1915.
Il maggio radioso
"Un
colpo furente, furente
" ma la frase si tronca. Al sindaco
non vengono le parole, gli manca anche il fiato per continuare. Nel
tentativo di farlo smettere lo zio applaude nervoso, altri gli vanno
dietro. Lui crede sia un incoraggiamento e sorride compiaciuto
Laggiù
alla riva la zia e le donne distribuivano coccarde tricolori.
Guardo
Eleonora, non capisco con chi stia parlando. Lo zio e altri spazientiti
ed annoiati abbandonano il palco e vanno verso i tavoli accompagnandosi
all'ufficiale della riserva che ha sovrinteso ai lavori...
C'era
la banda sotto il palco, che s'accompagnava al correre del Piave.
Il
sindaco segue con lo sguardo le persone che si allontanano, si rianima.
"E che ora si riposi, dopo che ognuno ha dato ogni stilla della
sua energia. Che si riposi, quando ognuno ha fatto la sua parte per
la nostra cara ed eterna Patria, come dice il divino Orazio
"
e di nuovo si blocca, fa dei gesti plateali, da avanspettacolo, ma il
discorso non va avanti, probabilmente il sindaco ora si sta chiedendo
che cavolo diceva 'sto divino Orazio
Era
il Maggio 1915
Quell'uomo
mi fa pena, per la mediocre incapacità di uscire dai piccoli
favori e dai piccoli affari. Mi volto ancora verso Eleonora. Il sindaco
si accorge che nessuno lo ascolta più, si siede sulla cassetta
di legno, prende un fiasco di vino e si mette a bere tra le ombre del
tramonto
Il
colle era il palco, le autorità, e noi.
Raggiungo
i tavoli. Mi accorgo che il sindaco è già lì, seduto.
Mi chiedo da dove sia passato.
Stanno raccogliendo i fondi per l'Italia combattente
Ci
sono passi che battono sul sentiero
Passa
una donna, bella e piena, vestita del tricolore. La riconosco, lavora
al casino del Lavatoio, a Treviso.
E' compresa nella sua interpretazione della Patria, altera e indifferente.
Lo zio infila una banconota nella tasca tricolore sopra il seno
Dopo
la curva incrocio degli ufficiali che stanno salendo.
Davanti al nostro tavolo il ponte di ferro sul Piave è illuminato
da mille fiammelle.
Il progettista sta mangiando con noi e di tanto in tanto lo guarda compiaciuto
Sono
artiglieri, il colonnello prima mi guarda chiedendosi se vale la pena
di fermarsi a parlare. Alla fine, s'arresta.
"Ha
cinque anni questa creatura
E' il mio primo ponte" dice "ma
il progetto me l'hanno già richiesto in tutta Europa".
"Certo che un ponte metallico è una bella novità"
gli fa mio zio con un che di ironico che l'altro non coglie
"E'
dominante lassù?" mi chiede il colonnello neanche aspettando
che lo saluti.
Io allargo le braccia "Non si vede niente adesso" dico. Lui
mi squadra, alza le spalle e schifato riparte.
"Certo
che per il Piave un ponte in metallo è proprio una bella novità
" dice l'architetto, compiaciuto.
"Il metallo, il metallo. Alla fine affogheremo uccisi dalla sua
ruggine" risponde lo zio, quasi soprapensiero. "Si ricordi
che il ferro non rinasce mai... Neanche sul Piave"
Un
tenente del seguito indugia. E' un ragazzo, come me.
L'ho già visto, non mi ricordo dove
"Sei il marito di Paola" dice.
Il
sindaco, timido, prova ad obiettare "Questo in tutto il mondo si
chiama progresso. Noi stiamo portando il Piave nel futuro"
"Delle volte ho l'impressione che questo progresso finirà
per perderci tutti per strada" ribatte lo zio, furioso
Un
cugino di Paola, ecco chi è quel tenente. L'ho conosciuto al
matrimonio. Il ramo piemontese.
"Sai, vuole riconoscere le posizioni" dice indicando il colonnello,
come volesse giustificarlo.
"Ma non si vede niente lo stesso."
"Ricordati
che anche i tuoi voti vengono dal nostro grano" chiude lo zio.
Il sindaco abbassa lo sguardo. Interviene l'architetto, a sviare il
discorso
"Sei
mai stato al fronte?" Dico no, stringendo le labbra in una smorfia.
"Neanch'io" risponde abbassando lo sguardo.
Poi
si fa silenzio e il sipario si apre.
Vengono l'euforia dei suoni e la sensualità del ballo Excelsior.
Il ponte, illuminato da mille torce pare un angolo da fiaba troppo evanescente
e leggero per sembrare vero
"Ma
adesso ci siamo al fronte." Poi indico il suo posto dietro al codazzo
del colonnello. "O meglio
io, ci sono
" gli dico
e sorrido.
Lui mi guarda, non risponde.
Vedo
Paola che si avvicina al tavolo. Sono contento, deve essersi ripresa.
La osservo e penso che anche nel suo grembo adesso sta premendo qualcosa
di leggero
Ma no, è anche così pesante penso con
disagio. Talmente pesante da inchiodare in qualche modo la mia esistenza
"E
Paola?" mi chiede lui
"A Ferrara" rispondo.
Lui guarda il cielo, poi intorno "Dio, come farete a stare dignitosamente
in mezzo a questa ridda di cose marce
" sussurra disgustato.
Poi, senza salutarmi, mi lascia.
Claudio
Calvi ha 45 anni, lavora come responsabile della diffusione
presso una cooperativa editoriale che pubblica un quotidiano e un trisettimanale,
vive a Varedo, in provincia di Milano e per ciò che riguarda
la sua scrittura e il suo modo di rappresentare i propri temi anche
in teatro, dice di sé: Quattro anni fa, in reazione ad un
fatto personale, ho scritto il primo racconto. Da allora con 28 mie
storie ho vinto i principali premi letterari italiani e ho pubblicato
molti racconti su varie antologie e riviste.
Oggi ritengo chiusa l'esperienza dei racconti e dei premi anche se grazie
ad essi ho scoperto la passione per lo scrivere, adesso vorrei tentare
di porgere i miei "temi" ad un pubblico più vasto.
Proprio in questo intento ho già portato in scena con successo,
col patrocinio del Comune di Nova Milanese, un lavoro teatrale sull'olocausto
in cui si alternano recitato e ballo moderno e, con il sostegno del
Comune di Serravalle Scrivia, una lettura a quattro voci accompagnata
da immagini originali della prima guerra mondiale e musiche contemporanee.
Il mio modo di narrare è insolito, faccio avanzare le storie
intrecciandole su piani diversi.
In alcuni racconti precedenti ho combinato tempi differenti, in altri
trame o aspetti che si richiamano e combinano l'un l'altro.
Ho sviluppato così anche "L'attesa", proponendo
l'intreccio fra il presente vissuto da Alfredo sul Piave e il ricordo
degli episodi della sua vita, aprendo i vari "capitoli" con
citazioni che legano il narrato ma anche rammentano che buona parte
del '900 letterario italiano è scaturito da quell'impatto traumatico
che è stata la prima guerra mondiale. Ne Lattesa
compaiono poesie di Ungaretti, Montale, Alvaro, Rebora e Rosai e estratti
di scritti autobiografici di narratori come Gadda, Malaparte, Musil,
Hemingway, Lussu, Jahier, Soffici, Slataper, Stuparich e altri, italiani
e austriaci, che hanno vissuto la guerra mondiale sul fronte italiano