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cicorivoltaedizioni
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intervista
ad a cura di Giuseppe Iannozzi 1. Oltre alle mere note biografiche, chi è Antonio Menna, e, soprattutto, perché ha deciso che era venuto il momento di tirare fuori dal cassetto i suoi scritti? Io sono un uomo del sud. Del sud del mondo, intendo, anche in chiave umanistica. Amo i calori, i corpi, il sudore, la mollezza, il cibo, il sonno, le donne. Sono un uomo del sud che, come in tanti, ha immaginato la fuga. A ventanni sognavo di vivere a Parigi, a venticinque di vivere a Bologna, a trenta non sarei salito più su di Roma. A trentotto so che vivrò tutta la vita a Marano, un afoso paese alle porte di Napoli. Sessantamila abitanti stipati in parchi residenziali supervigilati. Qui mi sento a casa. E a casa mia scrivo. Quello che scrivo lo faccio girare perchémi piace sporcarlo, voglio condividerlo, scomporlo. Uso molta la posta elettronica. Inondo i miei amici e le mie amiche di mail personali, parole, ritmi, musiche. Con i miei lettori elettronici ho un rapporto costante di scambio. Molti di questi amici, negli anni, a pezzi e intero, hanno letto cocaina&cioccolato, mi hanno dato suggerimenti, lo hanno limato, spolverato, vissuto. Potrei quasi dire che è un romanzo collettivo. Il libro è uscito dal cassetto perchè con qualche racconto ho vinto un po di premi, ho conosciuto un po di gente dellambiente a cui ho dato da leggere il romanzo e alla fine, giro per giro, è finito tra le mani del mitico Paolo Brunelli di Cicorivolta, che mi ha chiamato entusiasta, dicendo che lo voleva pubblicare. Ho detto sì, dubbioso.
La scrittura per me non è una necessità. E, anzi, una fatica. Non ho storie nella mente e coltivo poco la fantasia. Ho nella pancia un pugno di suggestioni, le alimento giorno per giorno, muovendomi, osservando, sentendo sulla pelle la vita. Mi va di trasformare quelle suggestioni in emozioni e di provare a condividerle; per farlo, invece di costruire elenchi emozionali, o tentare rime baciate, o scrivere saggi sociologici o antropologici, costruisco storie e personaggi, che si muovono nella vita, provando, sotto traccia, a muovere la vita, a raccontarla. Pamuk ha detto: Scrivo perchè posso sopportare la realtà solo trasformandola; io, che la realtà la utilizzo, direi che scrivo perchè posso sopportare la realtà solo scrivendone.
Oggi amo le scritture sporche, quelle che destrutturano; amo gli scrittori che cercano il ritmo più che la bella pagina. Ma come tutti, da lettore, ho vissuto varie fasi. Ho amato molto, in anni passati, Moravia e Sciascia, così diversi ma così fluidi e austeri. Ho amato Raffaele La Capria e Milan Kundera. Uno dei miei scrittori preferiti è Aldo Busi. Ho letto e riletto con avidità Raymond Carver e John Fante. In tempi più recenti ho letto con piacere i libri di Massimo Carlotto.
E nato un pezzo alla volta dentro un lavoro di riscrittura e composizione-ricomposizione durato molti anni, con lunghe pause. Nasce da un presupposto di realtà che mi riguarda. Negli Anni Novanta ho fatto lobiettore di coscienza a Napoli nel carcere minorile Filangieri. Il romanzo è un assemblaggio di brandelli di realtà, nel senso che le atmosfere, i luoghi, esistono per davvero. I fatti sono, ovviamente, di fantasia. Ma quello che corre sotto i fatti, e che è poi il quid di un romanzo, mi riguarda.
Credo che si tratti di un romanzo, per così dire, esistenziale e sentimentale. La vicenda, sebbene fosca al punto da sembrare nera, è quella di un ragazzo che fa i conti col suo disadattamento e che dentro questa perdita di orientamento viaggia come in una sorta di fumetto noir che ha connotazioni romantiche.
Ha pesato sicuramente il fatto che io sia stato fondamentalmente un cronista di nera, uno di quelli, insomma, che ha raccontato quotidianamente le tante facce criminali e violente di Napoli. La conoscenza di questi ambienti mi ha consentito di costruire, per così dire, una finzione vera. La mia formazione da cronista, poi, credo emerga nello stile. Il mio passo nella scrittura è piuttosto secco, lascio poco spazio alle decorazioni. 7. Il tuo romanzo è anche una storia su Napoli, una città caotica e difficile, dove la delinquenza scivola indisturbata lungo le strade a tutte le ore del giorno. Il protagonista, quasi casualmente, si procura una pistola, 15 proiettili, e secondo luzzolo - che gli frulla in testa - ritira quelle esistenze che gli danno fastidio. I mass-media ultimamente ci hanno abituati a una Napoli da far west: è davvero così? Direi che mi piacerebbe molto se Napoli fosse il Far West: un luogo, cioè, dove esistevano regole, dove esisteva lonore, dove il bene stava da una parte e il male dallaltra, dove cerano sceriffi buoni e ci si pigliava a cazzotti per questioni di principio. Direi, invece, che la violenza a Napoli ha un volto più feroce e subdolo. La pratica la grande criminalità, in modo scientifico e non casuale; la praticano i delinquenti da marciapiede, spesso storditi dalla cocaina; la praticano gli adolescenti bulli che hanno il mito del boss e giocano a fare la guapparia. Tutto questo in una sorta di molle quotidianità. Nessuno di noi si sente sotto assedio. Viviamo sereni, come se niente fosse, ma quando ci incontriamo, prima di andare a cena, cè sempre qualcuno che ha da raccontare lultimo episodio, successo a lui o a un parente o a un amico. Un furto, uno scippo, unaggressione. Vita quotidiana. Il protagonista del mio romanzo comincia ad uccidere quelli che parcheggiano in doppia fila con le quattro frecce accese. Una cosa a cui abbiamo pensato tutti. Un omicidio gratuito, che però segna una reazione, uno scatto. Simbolicamente è una ribellione alla mollezza. Ma subito dopo gli omicidi, nessuno insegue il mio protagonista. La città non guarda.
Gomorra è un libro straordinario, che io amo molto e che ho trovato di eccezionale suggestione. Saviano ha costruito uno stile, in Italia poco praticato, che è quello della docu-fiction. La realtà che si racconta è vera, documentata. La vicenda privata del protagonista, invece, cede qualcosa alla fantasia. Dentro loggettivo pubblico e il soggettivo privato, nasce un intreccio eccezionale che moltiplica consapevolezze grazie alla suggestione della narrativa. Un saggio sulla camorra non avrebbe prodotto lemozione di Gomorra, così come non ci sarebbe riuscito un romanzo puro, di fantasia. Il successo del libro ha attirato su Saviano una schiera di detrattori perchè, si sa, il successo dellaltro è sempre viziato. Io invece invidia a parte trovo che Saviano abbia scritto un bellissimo libro. Non credo che esista un filo che colleghi Gomorra a Cocaina&Cioccolato: sono libri assai diversi. Lunico punto di contatto è, forse, la descrizione, con toni e fatti differenti, di una sensazione di accerchiamento.
Ho voluto raccontare la storia di un emarginato dalla faccia pulita. Qualcuno lo definirebbe il volto buono della città, il figlio della parte onesta, che però si perde nella mancanza di riferimenti. Il lavoro è precario, bisogna essere flessibili e mobili; le relazioni sentimentali si sono incattivite, ognuno cerca il proprio benessere con avidità ed egoismo. Le ideologie sono morte, gli ideali sono passati di moda. Non facciamo più comunità. Ci dicono che dobbiamo fare perno su noi stessi, e così diventiamo trottole che girano a vuoto. La storia di Ennio, un giovane obiettore di coscienza perduto, è il simbolo di questo smarrimento. Sullo sfondo, non a caso, cè Napoli, che è lo scenario giusto per raccontare lo smarrimento. La storia personale di Ennio e quella collettiva della città viaggiano su binari paralleli. Perduti e vivi.
Il romanzo è sicuramente dolente ma, qui e là, ci sono lampi di speranza. Salvare la prostituta (che non vuole essere salvata) è, per Ennio, un segno damore e il dramma è che lunico amore che riesce a provare è quello per una che non ha nessuna intenzione di farsi amare. Inoltre mi piaceva lidea di costruire, con la prostituta, un personaggio davvero paritario. Tuttaltro che schiava. Pur annichilita dal suo lavoro, Hebrah è capace di guidare il gioco fino a riscattarsi da sé. Mi sembrava giusto tirare fuori una verità che nessuno vuole dire, e cioè che questa storia delle prostitute straniere che sono costrette al marciapiede con la violenza non sta più tanto in piedi. La loro vera schiavitù è la miseria.
Le emozioni sono tutte autobiografiche, i fatti ovviamente meno. Si tratta di un romanzo: una narrazione che cerca di costruire azioni, storie. Il ricorso alla fantasia è inevitabile. E difficile avere una vita così intensa da farla diventare romanzo. Però sotto la storia viaggia una suggestione, una visione. Questa mi appartiene.
Più che un messaggio, esiste una visione. Che cerco di trasferire sotto traccia, nelle pieghe della narrazione. La visione di una società che ha perso i punti di riferimento e dove il disorientamento è lunica certezza.
Non so se ho capito bene la domanda. Se intendevi chiedermi una opinione sulla narrativa di genere o popolare, rispetto al suo essere letteratura, io ti dico che dipende dal sapore. Credo che la sola, vera, differenza è tra la narrativa che lascia un retrogusto, oltre i fatti narrati, comunque siano narrati, e la narrativa che, al di là della storia, non lascia sapori. La seconda è una narrazione fine a se stessa, un intrattenimento, nemmeno tanto godibile. La prima, secondo me, è letteratura.
Credo che potrebbe piacere ai giovani. E un romanzo con una venatura rap. Anche per quel graffio dentro che il protagonista porta con sé e che è tipico dei rappers più sudici.
Domanda: preferisci scrivere o giocare a pallone? Risposta: giocare a pallone.
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