STORIA
(VERA) DI UN KILLER NATO POLIZIOTTO
di
Matteo Chiari per omnimilanolibri/il
blog
Da Taranto a Milano, da poliziotto a malavitoso. Ti
sparo (Cicorivolta Edizioni) colpisce con la forza di un
proiettile: per la storia, le circostanze, il linguaggio diretto. Quello
non di uno scrittore ma di un poliziotto, Celeste Bruno, commissario
di polizia di lungo corso, a Milano dal 1977, una delle memorie storiche
della questura meneghina. Bruno racconta senza mezzi termini la discesa
allinferno di un giovane poliziotto, Giorgio Tocci, partito dalla
Puglia, arrivato a Milano negli anni di piombo, abile a procurarsi confidenze
(dote tra le più importanti di un investigatore), troppo spregiudicato
per non varcare il confine che ogni giorno separa chi deve garantire
la legalità, spesso con sacrificio, e chi, spesso con grande
profitto, vive alle spalle della legge: due mondi che nelle loro conseguenze
più estreme finiscono talvolta per sovrapporsi. Creando una miscela
esplosiva. Così accadde a Giorgio Tocci, una vita iniziata in
polizia e proseguita al soldo della criminalità organizzata,
killer al servizio dei clan, fino al pentimento e al ruolo di collaboratore
di giustizia. La forza del libro che è anche una
mappa mappa della criminalità organizzata nella Milano degli
anni 80 sta soprattutto nella prospettiva dellautore,
nel racconto sincero e disincantato, molto poco letterario e affatto
compiaciuto, ma sempre visceralmente umano. Perchè Celeste Bruno
ne ha viste tante, perché non è un giornalista o uno scrittore
ma uno sbirro rimasto fermamente dallaltra parte,
perché sa leggere atti processuali e verbali e conosce da dentro
cosa significa approcciare un confidente, coltivare una fonte, scivolare
lungo largine che separa dovere e colpa cercando di non cadere.
Bruno racconta di codici, regole di comportamento, quelle
di chi fa il poliziotto e di chi fa la malavita; racconta di come gli
ambienti sani possano corrompere se qualcuno non ti aiuta,
racconta infine in prima persona una storia di un uomo
con troppe colpe che alla fine della sua lunga parabola criminale (lunga
oltre un decennio), ammette dinnanzi al suo accusatore: Vedevo
un giovane magistrato che incarnava in modo straordinariamente efficace
la dignità di chi lavorava per le istituzioni e laffermazione
della legge. Le sue parole zittirono letteralmente quellavvocato,
insinuante come un serpente, ormai accasciato a capo chino sul suo banco.
Quella scena simboleggiava la vittoria dello Stato.