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Brano tratto
da "Parole di silenzio".
Il lungo
androne, con volta a botte, è alto almeno dieci metri ed è
uno dei quattro bracci di una croce greca, il cui incrocio è sormontato
da una cupola ottagonale.
Nella parte più alta è stato malamente fissato un telone
di rete, per proteggere dai nefasti piccioni, amanti di quegli alti ricoveri,
i cornicioni a bassorilievo, i decori a foglie d'acanto, le eleganti lesene.
Le rigorose pareti, scandite da semipilastri addossati alle murature,
sono divise a riquadri di lastre marmoree con vecchie incisioni, fotografie
smunte e lampade dalla tenue luce, piccoli vasi con fiori freschi, i più
di plastica impolverata e stinta.
Il pavimento bianco e grigio a disegni geometrici allunga la prospettiva
in un'infilata, che esalta la maestosità del luogo.
Qui sono circa quattromila le colombaie, tra il pianoterra e il sottosuolo,
inquietante davvero, accessibile con strette scale a chiocciola e mai
illuminato da luce diurna.
Un identico tempio cruciforme sorge nel campo adiacente.
Nello spazio tra le due imponenti architetture neoclassiche, una possente
chiesa-padiglione in marmo botticino; poi, tombe a terra con monumenti
più o meno arricchiti da angeli, croci, catene spezzate, madri
e mogli dolenti, statue di teneri giovinetti e austeri mezzibusti maschili
in pietra o marmo, inscuriti dalle intemperie e dal tempo.
Il fascino biancastro e gelido del luogo si stempera appena nelle stagioni
calde, ma l'atmosfera resta sempre permeata di un'umidità che penetra
nel cuore, anche ora che la sofferenza provata dalla donna nelle visite
ai suoi cari, sepolti lì, si è, col tempo, mitigata.
Lei si reca in quel cimitero, quando può, a salutare i parenti
perduti, ma le capita, ultimamente, di guardarsi anche intorno, attratta
dal richiamo severo delle altrui sepolture.
E' piano piano aumentata in lei la curiosità per gli sconosciuti
sepolcri, che attraverso le epigrafi raccontano in sintesi scarne fino
all'osso, o talvolta più articolate, delle vite finite lì,
le une accanto alle altre per sempre.
La donna ha cominciato a leggerle, ad osservarle senza fretta, assecondando
suggestioni che le pareva a tratti di avvertire, attratta soprattutto
dalle tombe con nomi femminili.
Le lastre dell'androne di sinistra , da cui il suo percorso prende le
mosse, datano, in gran copia, primi del Novecento ed esibiscono fregi
liberty, altre disegni più geometrizzati già elegantemente
deco; alcune, spoglie, comunicano solo il nome e l'età della defunta,
altre righe e righe di imperituro rimpianto.
Lei comincia dapprima ad osservare la decorazione delle lapidi, così
varia e ricca nel repertorio, da non proporre mai iconografie uguali.
Quindi, legge le iscrizioni e le date di nascita e di morte di coloro
che giacciono lì.
Infine, osserva le fotografie.
Mossa da curiosità mista a compassione, d'un tratto, sente il bisogno
di affrontare un viaggio di ricerca delle storie delle donne che riposano
lì, delle verità e delle false convenzioni che celano iscrizioni
ed immagini.
Guidata dalla speranza di capire di più, di sentire di più,
avverte una tensione, un'energia, un'emozione che la spingono a parlare
a quei volti incorniciati e a chiedere di confidarle delle loro esistenze.
Sente di poter squarciare quel velo invisibile, ma impenetrabile, che
protegge il mondo dei morti da quello dei vivi e viceversa.
Forse potrà dar loro, se lo vorranno, la possibilità di
dire qualcosa in più su vite terrene passate, finite e dimenticate
da chi non porta più su quelle tombe nemmeno un fiore.
- Chi siete davvero? - chiede sottovoce, quasi a non voler essere troppo
invadente.
- Chissà se qualcuna di voi vorrà mai svelarmi la propria
storia, chissà se avreste desiderio o nostalgia di ricordare le
vostre vite. Chissà se vorreste mai parlare con me, come io vorrei
parlare con voi.
(
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