|
Brano
tratto da "Prose della volgar lingua"
Le
vecchie colonie di Riccione
Quandero
un bambozzo con le mani tutte impataccate di Nutella mia madre mi cagava
sempre il cazzo con la solita antifona: non andare mai sul retro delle
vecchie colonie, diceva, che ci sono i d-r-o-g-a-t-i. Adesso i d-r-o-g-a-t-i
eravamo noi, e stavamo tutto il santo giorno sul retro delle vecchie colonie
con una mina che la metà bastava. Che poi drogati è
una parola grossa, di quelle che evocano topiche alla Trainspotting
o alla Noi i ragazzi dello zoo, con gente che si pianta la siringa
nelle vene dello scroto, e fa occludere larteria coronarica ai vecchi
tachicardici ogni sera di fronte a Studio Aperto, prima che inizino
a parlare di Kate Middleton del cane zoppo abbandonato in autostrada o
degli assorbenti di Belen Rodriguez. Diciamo, piuttosto, che eravamo,
se mi passate il termine, degli sgremoni del porco per intenderci,
una roba molto alla Skins o alla American Trip, se li avete
mai visti e di solito ci dilettavamo improvvisandoci idraulici
e maneggiando tubature di vario diametro; e magari ogni tanto, se proprio
capitava ma capitava poco, perché non cavevamo un
roitz che fosse uno pizzavamo due belle spranghe in scioltezza.
E anche quella volta la scena era la medesima: noi altri spiaggiati come
narvali sul retro del vecchio edificio, tutto slavato e incrostato di
salsedine, e si capiva che ci eravamo già appicciati due giolloni
larghi come rotoli della carta igienica: e stavamo manzi come gli sciamani
nella tenda.
Sul retro delle vecchie colonie tirava un ventaccio bilioso e ignorante,
che tapriva ragadi nel labbro e scartavetrava via la pelle e i tendini
e tutto il resto. Questo perché si era proprio dirimpetto al mare,
il quale schiumava come una cala in effervescenza tra gli scogli, e il
vento tarrivava a palma aperta dritto sulla faccia; e noi si stava
tutti in crocchio a bubbolare, tinchi rigidi impestati come i merluzzi
nel banco freezer, e con le tibie e i metatarsi e le giunture che tartartagliavano
le loro geremiadi polari; e ci stringevano luno addosso allaltro,
nei nostri Moncler e piumini e parka, come sacchi di polietilene in un
vicolo, raccolti attorno al solito tavolino sul quale sbrinzavano e scatarravamo
ogni due per.
Moffomalpelo era lì che faceva su un jointaccio male, con la sua
solita meticolosità amanuense; e anche di più, perché
faceva un freddo pagliaccio e le dita andavano per conto loro e bisognava
stare attenti a non farsi volare via i caccolini; e tanta era la premura
che usava nellavvoltolare la mappa, da sembrare unaffettuosa
genitrice intenta a fasciare il culetto del suo virgulto.
Il Moffo, comunque, con le sue mani di fata, era uno che si raccapezzolava
in qualsiasi situazione; e infatti alla fine, taaac!, lo chiuse facile,
il piollo, e gli schioccò pure un bacio limaccioso sul filtro,
contemplandolo con occhio lagrimoso quasi gli dispiacesse di doverselo
cremare. Poscia più che il dolor poté lo scimmione che faceva
da matti sullEmpire State Building della sua schiena.
«Chi arrizza appizza e ammazza» salmodiò, con voce
ieratica di capo tribù Apache incorniciato da ricco piumaggio del
capo, mentre infilzava la bisettrice nellangolo acuto delle labbra,
e le affibbiava una saggia sfregata con il brinzer.
«Oh, quanta ampollosità di litanie!» inveì la
Matrona di Efeso, che se ne stava ad acciambellarsi il pelo ombelicale
nel suo cantuccio, con lo scafopode di un sorriso che baluginava nel rettangolo
scarso lasciato libero dalla sua barba profetica. «Sentitelo, il
nostro enfio Deuteronomio, il ponderoso incunabolo. Sempre dietro ad asciugarci
il bigolo con le sue insfangabili formule rituali, le sue loffie giaculatorie.
Coca cola pepsi cola osso duro vaffanculo! Piuttosto scendi dal tuo minareto,
giovane e verboso Ortensio Ortalo, e affina quel cacchio di cannello Bunsen.
Mettilo al rogo come uno Jan Palach».
Il Moffo, di sotto la campata del cappuccio, lo guardò come per
dire: oh man, come cazzo stai, si può sapere? dio boni: hai due
occhi che sembri luomo falena, cioè, guardati, porco diesel,
stai come i pennarelli della Stabilo, stai, sei marcio come la maionese,
e mi vieni a pressare la vita che vuoi appicciare? mi vieni ad alitare
sul coppino a questo modo? cioè, no, statti calato, che è
meglio, man.
Ma si risparmiò il pistolotto, dacché era uno che preferiva
appianare le pendenze senza far sgroppare troppo le tonsille, e più
facilmente lo si sentiva grattare uno scataraccio o partire un ruttazzo
a mo di intimidazione che declamare settenari trochei. Daltra
parte sulla sua faccia da pregiudicato slavo, spigolosa come un vomere,
e traforata da un paio di zigomi arrotati che parevano quasi dilaniargli
le guance, sembrava sempre pencolare una specie di ringhio ferino, uno
scatto delle mascelle a stento trattenuto; ed essa era già di per
sé un ammonimento che bastava e avanzava: e rendeva superflue le
solite garanzie di scrusci di centrelle sul naso.
Perciò si limitò a scoccare una di quelle sue occhiatacce
storte, che faceva da sola lunghe e solenni promesse di sangue; con tipo
in sottofondo la sinfonia numero uno di Dragon Ball Z, quella quando
Goku è tipo faccia a faccia con qualche nemico e sono lì
che si scrutano minacciosi; e tanto bastò a compendiare lesondazione
verbale che premeva oltre la sua epiglottide.
Poi il testimone fu ceduto anche alla Matrona che, dal nulla, iniziò
a cantare «Prendi il mondo e vai / prendi il mondo e vai».
Fu in quella che allorizzonte apparve un negro. Arrancava curvo
e negro sulle dune, afflitto e macilento e sbiadito come un povero SantAntonio
nel deserto, col braccio sollevato a schermarsi dallansimare asfittico
del lungomare. Era Senegal, nientemeno: negro e zudro da fare schifo.
Il benvenuto glielo diede la Matrona di Efeso, a suo modo.
«Guardate chi cè, règaz. Quella brutta fetta
di sacker di Senegal. Direttamente dagli intrichi del Congo più
negro, il puzza merda».
Senegal ricambiò con un cordiale ma vai a fare i gargarismi con
la benzina, oh, scemo di merda, e si insinuò con il suo ebano scremato
al centro del nostro gaio simposio.
«Ah ma figa, zio: fate su i tapiri, vi fate?» chiese, aspirando
a dismisura linconfondibile olezzo dai tubi di scappamento del suo
naso alla John Coffey.
«Perché secondo te cosa facciamo, vecchia dolina del Carso?»
rispose la Matrona. «Ci diamo fuoco alla dita dei piedi, secondo
te? Cattardiamo in sediziosi pensieri sul plus valore?».
«Che tapis è, zio? Il solito pneumatico schecci?».
«Un biscione tipo quello per andare da Re Caio, brutto australopiteco
che non sei altro. Un ovulo di nero che arriva diretto dallintestino
crasso di un magrebba come te».
«Figa, oh, mi mandereste mica un sbesgo?».
Eccolo lì Senegal, imbacuccato come uno sherpa sotto tortiglioni
di semilucido, con la sua faccia color dissenteria perennemente atteggiata
in una smorfia sardonica, come un luccio annidato dietro un canneto in
attesa di qualche alborella, una faccia su cui seborrea ed eczemi eruttavano
abbondanti in spesse gibbosità, crivellandogli guance e fronte,
eccolo lì, lo scemo di merda, a implorarci a gran voce di allungargli
uno schioppo, uno schioppo soltanto, bels.
Non ho ancora fatto menzione dellaltro nostro compagno di merende,
dellaltra figura effigiata assieme a noi in quel bassorilievo. Era
quella vecchia deiezione ambientale di Scabbia, che in quel momento raccoglieva
il testimone da Moffomalpelo e se lo portava in ampi pennacchi fumosi
alla feritoia in mezzo al linoleum della faccia.
Scabbia era un altro di poche parole, quasi zero. Però, a differenza
del succitato Moffomalpelo, che assurgeva a principe del foro qualora
qualcuno gli sbiassasse la vita, il vecchio Scabbia apriva bocca di sua
spontanea iniziativa: ma solo e questa era la sua particolarità
per fiottare le strofe di uno di quei suoi gruppi rappettoni del
caspio, che gli smadonnavano yo maddafuccka spin that shit tutto il santo
giorno nel padiglione auricolare sulla base di uninterrotta beatbox;
e le sue corde vocali sembravano quasi regolate da una specie di impianto
stereo che salzava a manna unicamente per far da risonanza allacciottolio
di rime di un rapper niggaz in canotta. E sera talmente imparanoiato
con quel ticchio dellhip hop, che cercava di atteggiarsi a maestro
di cerimonie del ghetto in tutto e per tutto: e lo vedevi dal tutone di
triacetato che gli ricadeva vaporoso sul corpo acuito dallinedia
e le costole sporgenti come tasti di xilofono, le braghe slabbrate e larghe
sei volte che avrebbe potuto ricavarci una tendopoli per i terremotati
dellAbruzzo, e le Dunk da zarro che facevano un vallo pan dan con
il New Era calcato sulla chioma impomatata di forfora. Il quale Scabbia,
avvicinandosi dinoccolato a quel vecchio matroccolo di Senegal, che se
ne stava lì ad anelare speranzoso uno sbecco, e sventolandogli
la porra sotto alla faccia da lavavetri algerino, espettorò una
di quelle sue poltiglie di bolo alimentare.
«La tua ragazza ti rimbalza ed ha già commesso un boing
/ sette quattro sette non ti passa / non ti passo il joint!»:
e così dicendo gli cavò il bonzo di sotto il naso per spiparselo
lui stesso di peso. Onde per cui quella vecchia testa di quaglia di Senegal
dovette accontentarsi di lappare il cartone, bello unto e sbavazzato comera.
«Figa che sbatti, zibri: mavete lasciato lo sgamino. Le solite
chiandelle! Ma andate a farvelo accartocciare nel culo dagli arabi!».
Si stette lì a svagheggiare in manzità, mentre ondulanti
sommovimenti tellurici scardinavano il nostro corpo dal suo legittimo
baricentro. Nessuno proferì motto per un bel pezzo, a parte Senegal,
che cercò di scroccarci una zighi, suvvia, vecchi crastoni, una
paglia, neanche fosse un rene, figa.
Finché, a un certo punto, il buon Moffomalpelo, che macerava in
uno stato di estatica contemplazione, pacioso e riflessivo come un santone
buddista sotto al fico, se ne venne fuori con unuscita da far rivoltare
il piloro.
«Il cielo!» disse, e la pomice del suo sguardo, per un istante,
si rischiarò nellellisse della felpa. «Deo, oh, règaz!
Guardate che storia il cielo!».
Noi tutti si alzò per riflesso gli occhi al cielo; ed era un cielo
di bitume e catrame, un idrocarburo spesso e impenetrabile e dello stesso
colore dellineluttabilità, che ti si richiudeva malamente
sul cocuzzolo come il coperchio della Vergine di Norimberga: un dramma.
Tutti, alla vista di quel plumbeo carcinoma, che si sfrangiava per chilometri
e chilometri in una metastasi di cirri, sentimmo che ci si rattrappivano,
nellordine, lesofago, lo stomaco, il buco del culo, tutto
quanto.
«Lultimo incontro per strada mi taglia il collo con lama
di spada / mentre guardo il cielo e spero che cada» parafrasò
compare Scabbia, e sembrava che un suono straziante, come di un gong,
gli squassasse in profondità il torace.
«Figa che presa a male» sentenziò Senegal, ed era davvero
una presa a male ai livelli. «Tristezza a palate, zii. Roba che
neanche Mariottide live on ponteggio. Io ve lo dico: ogni volta che vengo
in colonie a farmi le tube di Falloppio mi si inghippa un laterizio qui
nel petto come un cazzo di asma, figa, e non è la mezza Marlboro
che mettete nella mista, no. Porca figa, guardiamoci ne li occhi, zii:
siamo la più imbarazzante nettezza urbana dai tempi dellex
Sisas, dei veri pomodori secchi morti alla fermata del Trans, di bruno,
zii, e non facciamo altro che starcene in ottomana tutto il giorno a stabaccare
sizze una via laltra o a schinottarci lotti come i peggio ronciosi
del Leonca. Non una volta che inzuppiamo il savoiardo, giriamo sempre
con la formaggia croccante nelle mutande, a sghelle stiamo a zebra riporto
zebra, e se tirassimo le somme ormai avremmo leccato più cartine
che fregne. Voglio dire, ci sta anche crocchiare due tapis una volta ogni
tanto, e passare un pomeriggio che ci sbatacchia il campanaccio a lessare
sul fondo della marmitta. Ma ormai stiamo impanati, scagliati e fumati
dalla mattina alla sera, figa, e ogni volta che uno dice bella, facciamo
questo, facciamo quello, tutti subito a cantilenare no, zio, che peso,
no, e poi chi prende la macchina?, no belz, io rimbalzo, e vaffanzum al
secchio. Ve lo dico io, zii: tra dieci anni saremo ancora qui a scammellare
grondaie, e nella vita non avremo combinato una cippa di lippa, figa».
Fu Moffomalpelo a porre fine a quel sminuzzamento di vene.
«Oh man, chiudi la fossa biologica, che fa la puzza, va là,
dio cristoforo».
«Scemo pagliaccio si schermì Senegal guarda
che sei tu il peggio rimasto di tutti».
Ma aveva pisciato fuori dal vaso, e al che dovette chiuderla sul serio,
la fossa biologica, perché Moffo gli si parò con un muso
tipo Clubber Lang quando lancia il guanto di sfida a Rocky.
Inevitabile che, a quel punto, le nostre lingue finissero per ammutolire,
travolte e sepolte dalla slavina del silenzio; un silenzio terribile e
glaciale, da novantesimo parallelo nord, che quasi sembrava lacerare laria;
perché tutti, anche quel bastrancontrario di Moffo, sapevamo quanto
di vero ci fosse nello sfazzolamento di naso di quella prefica di Senegal;
e quel pensiero era un bulino che scavava il cranio, la tortura cinese
della goccia che insiste sulla fronte.
La cosa più calzante da dire in quella situazione che proprio
si assicurava perfetta al castone del generale avvilimento la tirò
fuori, dal suo inesauribile cilindro, quel pozzo senza fondo della Matrona
di Efeso.
«E gli avvoltoi sulle case sopra la città
»,
principiò dal niente.
«
senza pietà!» completammo noi altri.
«Chi da questincubo nero ci risveglierà
».
«
chi mai potrà?».
E tutti insieme, come cantori liturgici gregoriani, intonammo solennemente
la canzone di Ken il Guerriero, come fosse stato un inno nazionale:
e sembrava che fossimo tornati a quando eravamo ancora alle medie, e ogni
sera lo guardavamo su Italia 7 Gold, e ce ne andavamo in giro sferrando
colpi delle cento lacerazioni, uatàtàtàtàtà,
a destra e manca.
«Vi giuro, règaz continuò poi la Matrona, e
un rantolio desasperazione serpeggiò nella compagine, perché
voleva dire che il vecchio stolone stava per sdrabiarci lanima con
una delle sue omelie, un monologo pugnettone a due mani tipo Pierluigi
Bersani che parla della ripresa economica uno scoramento tale neanche
a leggere quellattacco cardiaco di libro che è La Strada.
Non quella di Kerouac, quello scoppiato di merda, per carità di
Dio, non confondiamo il legume produttivo con laglio di bassa cucina.
No, io dico La Strada di McCarthy. Un umor vitreo che dopo trenta
pagine ci vuole già un pero di valium endovenoso, per ripigliarsi
di tutta la presa a male. Ma sì, La Strada di McCarthy,
règaz. Peggio del pugno del pentimento di hokuto dritto in pancia.
Perché mi guardate così? Già, dimenticavo di parlare
con gli ultimi quadrumani della scala evolutiva. Quivi è loste,
per lordinario, un beccaio, un mugnaio e due fornaciai. Con questi
mincaglioffo. Oh mia dea!, Donatello chez les fauves. Comunque,
règaz, sapete che parola mè piovuta or ora dentro
allalta fantasia, ed è una parola che non uno osava e nessuno
avrebbe detta, e ci sta un vallo e mezzo bene adesso come adesso? Horror
vacui. Proprio così. Solevano dirla i greci, questa parola, anche
se in realtà, cioè, insomma, sarebbe un latinismo, gli stessi
greci che cavevano pippa al culo di qualsiasi elucubrazione non
disegnasse rotte circolari e tornasse indietro a mordersi la coda, règaz,
tipo uroboro o ciclo biologico di Polibio o è una giostra che va
o che ne so. Si cagavano in mano, di peso, tipo Louis Ferdinand allesame
di riparazione, se pensavamo al tempo rettilineo e infinito, sì
dai, come unascissa che non si vede la fine, così come lo
intendiamo noialtri Ciro di Pers. Cavevano scagazzo dei vibrioni,
dei granuli di polline, della mistione di argon e krypton disciolta nellatmosfera.
Ecco cosa ci imperla la fronte di ghiaccioli a noialtre pausemerde: smanacciare
tutti i giorni il vuoto, e realizzare che è, e resta, il solito
impalpabile e ineffabile vuoto. Un nulla brullo. Un brullo nulla di nulla,
checché ne dicano Cartesio e il principio di indeterminazione.
Vide dans le vide. Il nucleo desolante degli emisferi di Magdeburgo. Onde
per cui, di fronte a questo stato di cose, a questo stato che perdura
e ricorda lesilio, ci sentiamo come se avessimo dei bracciali di
algamatolite ai polsi, come Byron presso le acque del Lemano, un tremore
fin nelletterno rezzo, e questa voglia di svomare, svomare anche
la cistifellea, la volpe a nove code di Naruto che preme per uscire, lo
stomaco ribollente come arsenale veneziano e i frequentativi di conato
che lo spiegazzano. Chiamatela abulia, chiamatelo prolasso, chiamatelo
Belacqua svaccato al suo gran petrone: sono i marosi intestinali di Jean
Paul che fanno tuttuno col caffè e le bretelle, la volpaggine
con bolla al naso di uno Slowbro qualsiasi. Noialtri pudibondi in palandrana,
sempre in ritardo sulla guerra, ma sempre nei dintorni di una vera nostra
guerra».
Così disse e la logorrea era un profluvio incontrollabile
dallugello della sua bocca ma nessuno ci capì una
sega, poiché la Matrona di Efeso era un intellettualoide occhialuto
e barbuto, che a forza di stare col naso appiccicato ai libri aveva contratto
una scogliosi che lo incriccava come una cuspide; e usava un lessico talmente
aulico che sembrava di ascoltare il doppiaggio italiano dei Cavalieri
dello Zodiaco; tanto che a volte, quando parlava del più e
del meno, imboccava corsie tangenziali che solo lui sapeva come, e a quel
punto nessuno se lo cagava più neppure di striscio.
In ogni caso, non so per quale motivo, a quel suo criptico divagare in
talmud, mi ritrovai incagliato malamente in un mio fiordo mentale: e cioè
avevo come limpressione che davvero lumanità intera
fosse stata cancellata da cosa di preciso non so, apocalisse, uragano,
profezia Maya, fate vobis e che in tutto il globo terracqueo fossimo
rimasti soltanto noialtri cinque babbi di minchia nudi e soli e
indifesi come girini sotto gli anelli benzenici di quel cielo marruso,
rabbuiato dai fumi del polonio e da esalazioni sulfuree, e le mie ispide
setole inguinali furono tutte elettrizzate da brividi freddi come di malaria.
Panicopapanico papanico paura.
Poi sulla bocca di compare Scabbia crepitò unaltra dotta
citazione, la quale faceva più o meno così: «Chi
dice che il cielo è il limite sappia che non è vero / io
bevo bibite col Pampero e spingo il pensiero più in là del
cielo».
E più in là del cielo aguzzando lo sguardo di tra
le coltri potemmo scorgerla cera unasperità
montana plutonica e scoscesa, che sergeva come una balaustra sulla
cagliata dellAdriatico, scotennata da una bava di nubi madreperlacea;
ed era la vetta del San Bartolo.
«Volgete gli occhi» esclamò la Matrona di Efeso, levandosi
estasiato gli occhialozzi tutti impiastricciati di ditate, e additando
il profilo rupestre che si innalzava nel cielo. «I monti Mackenzie,
il passo dello Stambecco, millecinquecento gradini scolpiti nel ghiaccio.
Un giorno sfideremo quelle falesie, ridiscenderemo le balze più
impervie di quella Bismantova, excelsior!, puntando dritti al Nord, allo
Yukon. Fino al Fosso dellAgonia Bianca, laggiù, mie care
frittate, la nostra meta agognata
non è loro che cerco,
ma il trovarlo mi rapisce!» e neanche stavolta fu possibile capire
in quale pelago fosse andato a inabissarsi, quale fumoso iperuranio stesse
sorvolando, se ci era o ci faceva, la vecchia zampogna.
A Moffomalpelo, invece, la visione del rilievo montano suggeriva una cosa
e una soltanto.
«Secondo me, dio caio, ti ci masi un serraglio un vallo tattico
su quei greppi osservò, come se davvero stesse accarezzando
lipotesi Dio boni! Uno si piantuma la sua idroponica bella
lussureggiante, sta attento a non fare il boccalone in giro, e dieci a
uno che i pulotti non lo sgamano mai. O no?».
Del resto per lui la vita non aveva senso che come ping pong continuo
di giansugosi, e altro odore non aveva che quello delle cime messe a essiccare
nellarmadio.
Rimanemmo lì ad acconciare bambole, un vallo pollegge come alghe
nel brodo primordiale, finché i coglioni non misero su il muschio,
e il cielo a quel punto era ormai tutto imporporato di mestruo. Ci scrostammo,
con le facce madide di raccapriccio e di sangue.
(...)
|