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Brano
tratto da "PIANO ZERO"
(...)
Piano
nono
Eccola. La sua sindrome ritornava puntuale, non sempre aggressiva ma sempre
inquietante. Forse era angoscia, ansia, non lo sapeva anche perché
non capiva quelle strane sensazioni e tantomeno riusciva a spiegarle o
a spiegarsele visto che sembravano nascere senza un motivo apparente.
Vedeva la realtà quale era ma con il filtro cupo di emozioni angoscianti,
come da spettatore di un film in un mondo estraneo e ostile.
Poteva succedere incontrando una persona mai vista prima oppure con certe
luci ed ombre e spesso ad un orario abbastanza preciso, le prime ore del
pomeriggio. Ormai aveva mparato a conviverci, quasi ad aspettarle, quelle
sensazioni, come si trattasse di amiche fedeli.
E che, forse, gli davano quello che lui chiamava uno spiraglio esistenziale.
Certo, erano un modo per sentirsi vivo, per capire la propria individualità,
per comprendere soprattutto la sua ansia più profonda: quella di
comunicare, di avere qualcuno vicino che lo facesse sentire meno solo
di fronte al mondo. Forse, e ci aveva riflettuto più volte, la
spiegazione era molto più semplice: erano la conseguenza del rifiuto
di una realtà che non accettava, che negava nel suo intimo più
nascosto e profondo. Doveva essere quello. Ma era anche il momento per
capire la sua solitudine, nell'incapacità di spiegarsi, di comprendere
e far comprendere ad altri quelle sue sensazioni si sentiva terribilmente
solo.
D'altronde aveva impegnato troppo tempo a tentare di capire un mondo che,
pur davanti ai suoi occhi, non aveva mai visto o mai voluto vedere. Non
era una condizione unica, individuale, era il dramma dell'uomo da quando
aveva messo piede sulla terra. L'amicizia, l'amore erano prese in giro,
erano illusioni che rendevano l'esistenza meno amara ma non servivano
certo ad annullare la solitudine. E poi non poteva tanto dolersene, rifuggiva
la folla, era un solitario che temeva la solitudine e in questa contraddizione
più apparente che sostanziale si racchiudeva tutta la sua esistenza.
Ma il problema era un altro: quale era la sua vita, quale rotta doveva
prendere?
In verità non l'aveva mai saputo, non aveva mai capito il senso
dell'esistenza o, almeno, il senso della sua esistenza. Le donne forse,
ma quelle arrivavano e passavano. E poi non ne aveva avute abbastanza
o così gli sembrava. Il mare? Certo il mare era sempre stato un
punto di riferimento fisso tanto da condizionare alcune sue scelte di
vita. Non aveva voluto trasferirsi nella grande città per lavorare
e aveva accettato un impiego che fondamentalmente non gli era mai piaciuto
ma che gli permetteva di vivere vicino a quella grande distesa blu. Però
la sua non era stata una scelta radicale, perché non aveva fatto
il
grande passo di stare sempre in mare, di fare il navigante? Anche questo
gli sembrava fosse uno dei segni distintivi della sua esistenza: non arrivare
mai a scegliere ma decidere sempre per la mezza misura.
Con la conseguenza che spesso erano stati gli altri a scegliere per lui.
E, nonostante volesse dimenticare, almeno in un caso le scelte degli altri
erano piombate come un macigno sulla sua vita quasi per riproporlo come
foglia in balia del vento, mai in grado di prendere
una decisione. Magari sbagliata ma comunque sua e di sua responsabilità.
Avrebbe voluto cancellarlo quel periodo della sua vita, non c'era ancora
riuscito e, probabilmente,
non ci sarebbe riuscito mai.
Tutto era iniziato in una delle più belle espressioni di fine estate.
Mare calmo, un ponente che, per un appassionato come lui, voleva dire
semplicemente vela. E lui, naturalmente, non aveva saputo resistere. Aveva
detto a Nadia che andava in barca tanto lei non sapeva che farsene della
sua presenza in giardino. Gli aveva appena risposto con un cenno per dimostrare
che aveva capito. Sandro lo aspettava, gli aveva telefonato poco prima
per invitarlo sulla barca che aveva appena comprato. Per lui significava
abbandonare la sua per un pomeriggio, l'amica fedele di tante giornate
estive ed anche invernali. Ma, arrivato sul pontile, aveva ricevuto una
seconda telefonata da Sandro che lo avvisava della sua impossibilità
a rispettare l'appuntamento. Un cliente gli aveva rovinato la giornata
e doveva dare forfait. Peccato, un'occasione persa per provare la novità
con quel vento meraviglioso, ma non certamente una possibilità
persa per lui: sarebbe uscito in mare con la sua barca.
In quelle condizioni si prospettava un pomeriggio esaltante come, in effetti,
era stato, almeno sull'acqua. Al timone della sua barchetta, ridiventava
bambino, era felice. Un mondo tutto suo, il vento tra i capelli e sulla
nuca, l'acqua piatta increspata dal ponente gli dava fremiti emozionanti,
il timone, più che impegnarlo fisicamente, gli regalava l'illusione
di essere il padrone di quel mondo.
Ricordava quando, da bambino, rimaneva per ore, sdraiato sul balcone,
a guardare i ghirigori barocchi e gli improvvisi cambi di traiettoria
delle rondini al tramonto. Le contemplava per ore, fino a quando sua madre
non lo chiamava a tavola per cena. Era il tempo della libertà e
della fantasia, con le rondini volava anche la sua mente persa nello sbattere
nervoso di quelle ali nere e appuntite. In quei momenti non c'era il tempo,
la dimensione temporale si annullava e si dilatava. Proprio come quando
era al timone. Non sarebbe mai tornato a terra, lo richiamavano alla dura
realtà soltanto il sole e l'orologio che, di solito, metteva sottocoperta
e che doveva andare a consultare per capire quando era il momento di smettere.
Di là la terra era molto più lontana di poche miglia, era
qualcosa di ipotetico e da dimenticare. Ecco, a bordo Marco dimenticava.
C'erano soltanto lui, il vento, il mare
e il sole, niente di più e niente di meno ma quanto bastava per
essere appagato di stare al mondo nella migliore realtà si potesse
desiderare. Con la barca sbandata gli piaceva stare al timone dalla parte
più vicina all'acqua come se potesse entrare a farne parte con
gli spruzzi e l'odore di salmastro. Come fosse un abitante di quel pianeta
liquido mentre, invece, la sua casa, volente o nolente, era a terra, là
dove aveva i suoi ricordi peggiori, quelli che a volte gli impedivano
di prendere sonno. Ma da dove poteva partire per entrare nel suo mondo
più vero, dove era veramente se stesso. Il senso di libertà,
la serenità, l'emozione del vento
sulla pelle erano le sensazioni più belle da provare, quelle che
potevano rendere bella l'esistenza. Eppure era una libertà "condizionata"
perché la vela aveva regole da
rispettare che, però, offrivano il fascino antico e unico dell'uomo
in grado di sfruttare e rispettare il pianeta su cui viveva. In quei momenti
pensava anche alle generazioni
di uomini che, nei secoli, avevano navigato il mare ed approfittato del
vento per creare la storia attraverso gli oceani. Era ancora, quella della
vela sul mare, una dimensione
che non era stata intaccata dalle storture della cosiddetta civiltà
moderna: a parte gli scafi e l'attrezzatura migliorata grazie alla tecnologia,
nulla era cambiato.
Erano ancora e sempre il mare ed il vento a dirigere quello che, da lavoro
di capitani coraggiosi e rudi marinai analfabeti, si era trasformato in
un gioco, la nautica
di diporto. Non era strano, quindi, che ricordasse tanti particolari di
quella giornata anche a distanza di anni. Era tornato a terra con il sole
ormai a sfiorare l'orizzonte, erano le
sette passate, contento e soddisfatto anche se sapeva che avrebbe trovato
Nadia pronta a rimproveragli l'ora tarda per la cena. Invece, dopo i soliti
pochi minuti a piedi, era arrivato a casa per trovarla deserta. Purtroppo
era l'alternativa alla solita accoglienza acida e malevola ma che lo riportava
indietro negli anni, alla sua precedente ed infelice esperienza con Francesca
ed al trauma del suo abbandono. Comunque era ben cosciente che il suo
malessere per la mancanza di Nadia rappresentava la dimostrazione più
penosa e dolorosa della sua ingenuità, dell'illusione che tutto
potesse tornare normale come per incanto. Ed anche della sua incapacità
evidente e spesso inconfessata ad essere indipendente, in grado di vivere
da solo senza l'appoggio di un suo simile che fosse un amico o una donna.
Compose il numero di Sandro e, dopo innumerevoli squilli senza risposta,
fu costretto a capire che il suo amico non era in casa. Non pensò
neppure di chiamarlo al cellulare, doveva essere impegnato ed era meglio
lasciarlo in pace. Comunque aprì il frigorifero per subire senza
voglia il rito serale della cena anche se il suo appetito era scomparso
insieme al ricordo di una gratificante giornata di vela. Ma non aveva
nulla di meglio da fare se non mandare giù un boccone. Prosciutto,
un poco di pane, una pesca e, quello sì
desiderato, un caffè. Poi, dopo essersi acceso la prima sigaretta
del dopo cena che rappresentava uno dei pochi piaceri di quella sua vita
grama, andò nel locale o
meglio, nel sottoscala che sua moglie apostrofava pomposamente come il
suo "studio" e accese il computer. Girovagò su internet,
guardò la posta elettronica e, soltanto
dopo un certo tempo, controllò l'ora. Erano le undici passate e
di Nadia neppure l'ombra.
L'ansia gli chiuse lo stomaco insieme ad un senso di impotenza e di rabbia.
Cedette a quello che lo faceva star male e chiamò nuovamente Sandro
al cellulare per ritrovarsi
nuovamente senza risposta. Soltanto allora decise di usare il mobile di
Nadia. Stessa scena, tanti squilli ma nessuna risposta.
Tergiversò ancora davanti allo schermo del computer poi non seppe
resistere e compose il numero del telefono fisso del suo amico. La serie
di squilli continuò a lungo prima che decidesse di chiudere il
contatto. Gli sembrò di essere seduto su un cuscino di spilli,
non
capiva il motivo di quella assenza. Voleva alzarsi e andare a casa di
Sandro ma un secondo
dopo rifletteva sulle sue inutili e infondate preoccupazioni, sulla sua
pretesa di avere tutto sotto controllo, anche la vita del suo amico. Però
gli sembrava strano che Sandro fosse fuori casa ma non era certo quello
il motivo della sua inquietudine: sapeva che vederlo e parlargli
avrebbe perlomeno mitigato quel senso di oppressione, quella stretta allo
stomaco che gli procurava la strana assenza di Nadia.
Spense tutto, chiuse la porta e salì in auto. Doveva percorrere
qualche chilometro, la villetta di Sandro era fuori città, sulle
colline.
La strada fu un tormento, stomaco chiuso dai nervi e traffico nullo, senza
luci, neppure la luna a rischiarare il suo animo.
Arrivò davanti alla casa dell'amico, la cancellata era alta, il
passo carraio chiuso ma sapeva come aggirare gli ostacoli, Sandro gli
aveva detto dove era nascosta la chiave del cancelletto laterale.
Tutto tranquillo, buio e silenzio, sembrava che non ci fosse proprio anima
viva. Ma questo non lo convinceva per niente anche se trovò la
porta d'ingresso normalmente
chiusa. La chiave era sopra lo stipite dove gli aveva detto Sandro ricordandogli
la possibilità di usare in ogni momento la casa anche in sua assenza.
Non lo aveva mai fatto ma quella sera aveva un presentimento assurdo,
fuori da ogni logica...
(...)
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