i quaderni di Cico
 
 

 

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titolo: "
L'estate incerta"
collana
i quaderni di Cico
autore: Katia Vignoli
ISBN 978-88-32124-07-1
€ 16,90 - pp.304 - © 2019


Con sconcerto e curiosità di chi la circonda, Lea decide di sostituire il piccolo giardino con un orto, a cui si dedica con incantata premura sotto il cielo di una stagione incerta, nello scenario di una campagna che sembra inseguire i fantasmi di un'identità e di un fascino ormai perduti.

(continua)



 


(segue)

Intorno all'hortus, che esalta i prodigiosi colori della nascita contro le grigie tinte dell'abitudine, una piccola folla di varia umanità intreccia storie, umori, visioni di generazioni distanti e si abbraccia in una sinuosa e imprevedibile danza che la guiderà, attraverso la scelta dell'anziana Ester, di fronte all'azzurro vertiginoso del mare, dove nessun ramo e nessuna casa interrompono l'orizzonte e dove l'aria ha "l'odore forte, di femmina giovane".

 
 

Nella scrittura, che richiama lo sguardo di Katherine Mansfield, se si vuole citare uno dei probabili riferimenti letterari, soffia un alito dolcemente malinconico, quanto misterioso e implacabile, che spazza via la polvere dagli ordinari riti del quotidiano per rivelarne la voce più nascosta e inascoltata, simile all'intensità disarmante di Leonard Cohen quando, in Anthem, intona: "Suona le campane che ancora possono suonare./Dimentica l'offerta perfetta./In ogni cosa c'è una fessura./È così che entra la luce".

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(Brano tratto da “L’estate incerta”)

E l’inverno non vuole finire.
A metà maggio tiene ancora in pugno la pianura con la sua stretta di umido e di fango. I raggi del sole, mai prima di mezzogiorno, atterrano sulla striscia lattiginosa di nebbia incollata ai campi saturi di pioggia e lì galleggiano fino al tramonto, mentre il marrone, quasi nero a quell’ora, trionfa sul rosa cipria delle prime gemme e il verde acido delle foglie nuove.
La gente non parla d’altro. Il meteo è diventata la trasmissione più seguita. I meloni arrivati dalla Spagna giacciono ordinati sulle scansie del supermercato, nessuno che ceda almeno alla tentazione di tastarli e annusarli. Sugli abiti a fiori e gli spolverini color pastello esposti in vetrina si è posata una patina di indifferenza e dappertutto - case, strade, uffici - si infiltra una nube di scontento, così densa da sembrare solida.
Derubati della primavera, così ci si sente, e anche se lo si tiene per sé, si affaccia a intermittenza il timore che quest’anno, per disegni insondabili in odore di castigo, l’inverno continuerà ad oltranza.
La sua ostinazione a durare, a chi ha orecchie per sentire, risuona come un ghigno.
Solo i vecchi non sono disturbati da questo ritardo. Anzi, la resistenza dell’inverno alimenta la loro.
Lea non si è mai resa conto di quanti siano, quanto si somiglino. Una falange dalle scarpe comode e cappelli sghembi che ogni giorno avanza serrata e ingrossa le fila all’ufficio postale e alle casse dei centri commerciali.
In quest’inverno infinito, che rende gli altri ogni giorno più friabili, l’esercito di pietra mantiene la postazione e guarda il mondo coi suoi occhi opachi.
Cosa vedano dal loro osservatorio, non lo sa.
Forse uno stormo di uccelli migratori senza bussola, di passaggio da una casa all’altra, da una storia all’altra, da un lavoro all’altro. Gente che corre sulle ciclabili, inseguita dai propri pensieri. Gente che non sa tenersi insieme e accelera per non affondare nella terra di cui i vecchi conoscono invece ogni segreta ostilità e su cui, senza più ambizioni a volare, piantano i piedi.
Resisti, resisti, resisti.
Lea percepisce il battito tenace del loro canto di guerra e il brulicare ansioso della superficie. La fissità e l’agitazione. La marcatura stretta del territorio e il desiderio capriccioso di evadere.
Non sa come è approdata nella terra di mezzo, una delle zone meno chiare che stanno tra un momento e l’altro della coscienza e che pure, senza una definizione, restituiscono allo sguardo a senso unico la prospettiva totale del cerchio.
È da lì che si coglie il momento esatto in cui le cose cominciano a finire, il movimento preciso che vira verso la dissolvenza di quello che, fino a un attimo prima, appariva compiuto e separato.
Quando accadrà lei ci sarà.
Da un tempo indefinito non riesce a muoversi, lo sguardo che si sposta dalla finestra che dà sul giardino al bancone di marmo della cucina, al paralume che pende da un lato e disegna un’ombra asimmetrica sulla parete, mentre il resto della casa tace, in un ordine che è già un abbandono.
L’aereo partirà fra tre ore, ma è una possibilità sospesa, quella del cane che non sa se il padrone uscirà o no, se lo porterà con sé o no.
Resta in ascolto, attenta a cogliere il segnale dell’urgenza, la chiamata all’appello che compatta tutte le forze in una forza sola. Solo questione di tempo.
Pazienta ancora, aspetta.
La valigia che in quelle due settimane è rimasta aperta all’ingresso, a garanzia della provvisorietà del suo ritorno a casa, adesso giace come un grosso pesce spiaggiato, una macchia scura su un fianco e un taglio sull’altro.
Lui capirà, forse non subito, ma poi capirà. Cede per un attimo alla nostalgia - braccia di abbracci, bocca di baci, foglie di menta e petali di rosa sulle lenzuola fresche - e poi brucia gli ultimi indugi, si riprende.
Nel silenzio il tam tam si esaurisce via via in un sordo suono di sottofondo, mentre un principio di vento va a scompigliare il bianco del cielo al di là dalla finestra. È ora.
Esce in giardino, infila un paio di guanti e comincia a strappare le erbacce dalla prima aiuola, piccole viole azzurre e bianche, schiacciate dal giallo brillante della forsizia. Poi ripulisce l’altra aiuola.
Il terreno è così bagnato che persino l’edera si arrende, docile alla sua presa. Continua per più di due ore, le mani dolenti per lo sforzo di liberare le primule, i tulipani e i lillà, il cespuglio più vecchio, dai fiori alti e morbidi. Con le cesoie pota la siepe di lauro che fa da confine tra la sua casa e quella di Ester e coi rami riempie sei grossi sacchi che depone fuori dal cancello: li porterà alla discarica il mattino dopo, in modo che l’altra non abbia da ridire.
Poi si siede sotto il portico e osserva il giardino. Adesso che è stato ripulito, sembra ancora più piccolo.
Il lastricato di vecchie beole lo taglia a metà, come una vistosa cicatrice in un viso anonimo e non fosse per la dignità della magnolia, l’unico vero albero, piantato nell’angolo accanto al cancello, quei pochi metri quadrati di terra sarebbero soltanto nudi ed esausti.
All’alba i pellerossa pregano per aiutare il sole a sorgere. Lei pregherà per aiutare l’estate a tornare.
Ma questa volta i fiori non basteranno.
Non basteranno cascate di rose rampicanti e muri di gelsomino, intrecci di ibisco e cuscini di ortensie, non armonie di camelie e allegre bignonie. Nemmeno un tappeto di peonie bianche.
C’è bisogno di una bellezza da mangiare, che pompi forza nel sangue e freschezza nei polmoni. C’è bisogno di vita che spinga e spacchi e riempia e maturi e goccioli. C’è bisogno di farfalle, di lucciole e di api, soprattutto di api.
Fare è l’unica preghiera che sa e lei farà un orto.
Rientra in casa, accende la lampada, si siede a gambe incrociate sul tappeto, allunga la mano verso un bloc- notes poggiato sul tavolino tra i due divani e lo apre sulla prima pagina pulita. Di getto disegna un semicerchio e lo divide in quattro spicchi. Tra i due spicchi a sinistra e i due a destra ci sarà una stretta passatoia, che tratteggia a matita; nel centro un passaggio più largo, dello stesso materiale delle passatoie, forse legno.
Adesso lo vede: a grandi linee l’orto sarà così. Sotto al bozzetto ci scrive la data.

Capitolo 1
Ester e i suoi dubbi sull’orto.
Tutta colpa del desiderio.

“Un orto”, ripete Ester con voce piatta, senza perdere l’espressione cortese che si deve all’ospite.
La fronte si corruga mentre beve fino in fondo la tazzina di caffè. Con un movimento rapido la ripone sul piattino. “Bollente, a me il caffè piace bollente. E amaro.” Si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lascia che la mano le scivoli sul collo, lenta, per poi arrivare alla collana di ambra, cui si aggrappa come a un inaspettato piacere. “Come mai un orto?” La sua voce ha ripreso vigore. “Sai bene che puoi prendere tutta la verdura che vuoi dal mio orto, Angelo si ostina a seminare di tutto, anche se in cascina ormai ci sono rimasta solo io.”
Lea indugia qualche istante prima di rispondere: “Grazie Ester, lo so, ma questo sarà un orto diverso.”
“Uhm, diverso… capisco.”
Guarda Lea con tutta la serenità che riesce a mettere insieme e comunque non basta. Si alza, prende un pezzo di legna dalla cesta accanto al camino, lo appoggia sulle braci e con fare esperto riattizza il fuoco. Il vestito di maglia color malva le aderisce sul corpo snello, dal girovita ancora sottile. Lea osserva le sue gambe lunghe e nervose, non sono le gambe di una vecchia. In questo momento Ester le ricorda un fenicottero.
“Quando smetterà di piovere? Questo tempo non ne vuole sapere di metter giudizio! Non ricordavo una stagione così dal…”. Alza le spalle e fa un gesto secco con la mano, a chiusa della frase. “Comunque l’affitto che paghi comprende casa e giardino, quindi sei libera di piantare quel che vuoi.” Si rimette a sedere, vinta da un accenno di cedevolezza. “Anche se un orto è impegnativo. Orto uomo morto, non è così che si dice?”
“Già”, sorride Lea. “Ma sarà un piccolo orto e anche se non ne ho mai coltivato uno, imparerò.” Si sbottona la giacca di lana. Il camino adesso manda un gran calore.
“Lo so, lo so che sei una donna intraprendente”, taglia corto Ester. Se Lea anni prima non le si fosse presentata così, libera, senza figli, un architetto sempre in giro per il mondo per ristrutturare vecchi alberghi e trasformare dimore decadenti in hotel esclusivi, non le avrebbe certo affittato la casa. Un’inquilina fantasma, per lei l’ideale. Tanto più ora che il suo compagno, anche lui architetto, ha ereditato un terreno nell’isola greca in cui è nato e lì sta costruendo un albergo che, pare, gestiranno insieme. “Il problema è che un orto, qualsiasi orto, va seguito ogni giorno. E quando te ne andrai…”
“Ma io resto. Passerò l’estate qui”, la interrompe Lea. Glielo dice con un’allegria che le spinge dal petto e si mette tra loro, e Ester la vede crescere, insolente.
“Questa sì che è una novità!”, dice Ester. Lei detesta le novità. Si concede un respiro fondo e appoggia le mani ai braccioli della poltrona, disponibile a raccogliere nuove informazioni sul perché mai un’intera estate lì, dopo anni di lontananza, interrotta da sempre più rari e brevi ritorni a casa.
Ma Lea non aggiunge altro, gli occhi verdi ancora accesi di quell’allegria che non si spegne, insopportabile.
Ester fatica a rimanere composta. È un atto di gentilezza interessarsi a lei e si aspetta che le sia corrisposto con qualche dettaglio in più. Lea è incinta? Ha lasciato il greco? Oppure il greco la raggiungerà in pianura, visto che il suo paese è messo in ginocchio dalla crisi? La sua mente corre veloce e inanella ipotesi, piccoli aghi che le pungono la schiena. Sente le spalle irrigidirsi, mentre i piedi di loro iniziativa cominciano a picchiettare sul pavimento.
“Bene, se è tutto sappi che non ho niente in contrario a che tu faccia il tuo orto”, e fa il cenno di alzarsi, questa volta per accompagnarla alla porta.
“Il fatto è che vorrei togliere la ghiaia e rimuovere il lastricato di beole dal sentiero. Il giardino è piccolo e ho bisogno di tutto lo spazio a disposizione.”
La voce di Lea tradisce un’irrequietezza ansiosa, quasi infantile, che costringe l’altra a rimettersi in poltrona.
“Così vuoi rimuovere le beole.” Ester si toglie dalla manica un pelucco che non c’è. “Sono antiche, lo sai? In origine stavano nella villa dei miei suoceri. Quando la vendemmo - farei meglio a dire svendemmo, perché Giorgio, mio marito, non ha mai avuto il dono di trattare- lui le volle portare qui per sistemarle nel giardinetto del suo studio, la casa in cui tu stai ora. Credo di avertelo detto quando te l’ho affittata.”
Lea fa un cenno d’assenso col capo.
“Lui amava la pietra”, continua Ester. “Amava tutto quello che dura. Ci hanno educato così.” I suoi occhi scuri prendono la densità del piombo. “Ad accettare che le cose ci sopravvivano.”
“Stia tranquilla. Il giardiniere non le danneggerà e mi dirà lei dove preferisce riporle.”
“Bene.” La sua espressione adesso è solo concentrata, senza più ombra di cortesia. “Così, quando dovessi decidere di liberare la casa, potrò rimetterle al loro posto.”
Lea non replica. È chiaro: è lei, l’inquilina, ad esser di passaggio, non le beole. Ed è Ester, a decidere. La incuriosisce il senso del futuro della vecchia signora: una strada sconnessa in cui si avvicendano gli altri, mentre lei procede sul suo sentiero solitario, lastricato di antiche beole.
Si aspettava che Ester reagisse a quel modo. Come rispondendo a un comando, l’accoglienza della stanza- mobili solidi, tessuti resistenti, sui tavolini lampade dai paralumi giallo oro e verde salvia, rifiniti di passamanerie color avorio che solo a un occhio attento rivelano i loro anni - si richiude a scatto e Lea percepisce la superficie ruvida del guscio, la sua adamantina durezza.
“Ora devo proprio andare.” Si alza e si stringe addosso la giacca, come se dalla finestra chiusa fosse entrato uno spiffero di aria gelida. “Grazie per il caffè, e per il suo tempo.”
Ester fa un vago cenno con la mano per accelerare quello straccio di commiato. Le labbra tinte di rosso scuro ora sembrano una ferita seccata. Gli occhi piccoli e pungenti, orfani di un bersaglio, si svuotano e poi si chiudono.

(...)

 



Katia Vignoli è nata e lavora a Lodi.
Psicoterapeuta, giornalista,
docente alla Scuola di Specializzazione
in Medicina Psicosomatica
e alla Scuola di Naturopatia
dell'Istituto Riza, ha pubblicato
"Corso di autostima" (Vol.1,2,3)
e "Le donne ce la fanno sempre" (ed.Riza).

Questo è il suo primo romanzo.


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