(Brano tratto da Lestate incerta)
E linverno non vuole finire.
A metà maggio tiene ancora in pugno la pianura con la sua stretta
di umido e di fango. I raggi del sole, mai prima di mezzogiorno, atterrano
sulla striscia lattiginosa di nebbia incollata ai campi saturi di pioggia
e lì galleggiano fino al tramonto, mentre il marrone, quasi nero
a quellora, trionfa sul rosa cipria delle prime gemme e il verde
acido delle foglie nuove.
La gente non parla daltro. Il meteo è diventata la trasmissione
più seguita. I meloni arrivati dalla Spagna giacciono ordinati
sulle scansie del supermercato, nessuno che ceda almeno alla tentazione
di tastarli e annusarli. Sugli abiti a fiori e gli spolverini color
pastello esposti in vetrina si è posata una patina di indifferenza
e dappertutto - case, strade, uffici - si infiltra una nube di scontento,
così densa da sembrare solida.
Derubati della primavera, così ci si sente, e anche se lo si
tiene per sé, si affaccia a intermittenza il timore che questanno,
per disegni insondabili in odore di castigo, linverno continuerà
ad oltranza.
La sua ostinazione a durare, a chi ha orecchie per sentire, risuona
come un ghigno.
Solo i vecchi non sono disturbati da questo ritardo. Anzi, la resistenza
dellinverno alimenta la loro.
Lea non si è mai resa conto di quanti siano, quanto si somiglino.
Una falange dalle scarpe comode e cappelli sghembi che ogni giorno avanza
serrata e ingrossa le fila allufficio postale e alle casse dei
centri commerciali.
In questinverno infinito, che rende gli altri ogni giorno più
friabili, lesercito di pietra mantiene la postazione e guarda
il mondo coi suoi occhi opachi.
Cosa vedano dal loro osservatorio, non lo sa.
Forse uno stormo di uccelli migratori senza bussola, di passaggio da
una casa allaltra, da una storia allaltra, da un lavoro
allaltro. Gente che corre sulle ciclabili, inseguita dai propri
pensieri. Gente che non sa tenersi insieme e accelera per non affondare
nella terra di cui i vecchi conoscono invece ogni segreta ostilità
e su cui, senza più ambizioni a volare, piantano i piedi.
Resisti, resisti, resisti.
Lea percepisce il battito tenace del loro canto di guerra e il brulicare
ansioso della superficie. La fissità e lagitazione. La
marcatura stretta del territorio e il desiderio capriccioso di evadere.
Non sa come è approdata nella terra di mezzo, una delle zone
meno chiare che stanno tra un momento e laltro della coscienza
e che pure, senza una definizione, restituiscono allo sguardo a senso
unico la prospettiva totale del cerchio.
È da lì che si coglie il momento esatto in cui le cose
cominciano a finire, il movimento preciso che vira verso la dissolvenza
di quello che, fino a un attimo prima, appariva compiuto e separato.
Quando accadrà lei ci sarà.
Da un tempo indefinito non riesce a muoversi, lo sguardo che si sposta
dalla finestra che dà sul giardino al bancone di marmo della
cucina, al paralume che pende da un lato e disegna unombra asimmetrica
sulla parete, mentre il resto della casa tace, in un ordine che è
già un abbandono.
Laereo partirà fra tre ore, ma è una possibilità
sospesa, quella del cane che non sa se il padrone uscirà o no,
se lo porterà con sé o no.
Resta in ascolto, attenta a cogliere il segnale dellurgenza, la
chiamata allappello che compatta tutte le forze in una forza sola.
Solo questione di tempo.
Pazienta ancora, aspetta.
La valigia che in quelle due settimane è rimasta aperta allingresso,
a garanzia della provvisorietà del suo ritorno a casa, adesso
giace come un grosso pesce spiaggiato, una macchia scura su un fianco
e un taglio sullaltro.
Lui capirà, forse non subito, ma poi capirà. Cede per
un attimo alla nostalgia - braccia di abbracci, bocca di baci, foglie
di menta e petali di rosa sulle lenzuola fresche - e poi brucia gli
ultimi indugi, si riprende.
Nel silenzio il tam tam si esaurisce via via in un sordo suono di sottofondo,
mentre un principio di vento va a scompigliare il bianco del cielo al
di là dalla finestra. È ora.
Esce in giardino, infila un paio di guanti e comincia a strappare le
erbacce dalla prima aiuola, piccole viole azzurre e bianche, schiacciate
dal giallo brillante della forsizia. Poi ripulisce laltra aiuola.
Il terreno è così bagnato che persino ledera si
arrende, docile alla sua presa. Continua per più di due ore,
le mani dolenti per lo sforzo di liberare le primule, i tulipani e i
lillà, il cespuglio più vecchio, dai fiori alti e morbidi.
Con le cesoie pota la siepe di lauro che fa da confine tra la sua casa
e quella di Ester e coi rami riempie sei grossi sacchi che depone fuori
dal cancello: li porterà alla discarica il mattino dopo, in modo
che laltra non abbia da ridire.
Poi si siede sotto il portico e osserva il giardino. Adesso che è
stato ripulito, sembra ancora più piccolo.
Il lastricato di vecchie beole lo taglia a metà, come una vistosa
cicatrice in un viso anonimo e non fosse per la dignità della
magnolia, lunico vero albero, piantato nellangolo accanto
al cancello, quei pochi metri quadrati di terra sarebbero soltanto nudi
ed esausti.
Allalba i pellerossa pregano per aiutare il sole a sorgere. Lei
pregherà per aiutare lestate a tornare.
Ma questa volta i fiori non basteranno.
Non basteranno cascate di rose rampicanti e muri di gelsomino, intrecci
di ibisco e cuscini di ortensie, non armonie di camelie e allegre bignonie.
Nemmeno un tappeto di peonie bianche.
Cè bisogno di una bellezza da mangiare, che pompi forza
nel sangue e freschezza nei polmoni. Cè bisogno di vita
che spinga e spacchi e riempia e maturi e goccioli. Cè
bisogno di farfalle, di lucciole e di api, soprattutto di api.
Fare è lunica preghiera che sa e lei farà un orto.
Rientra in casa, accende la lampada, si siede a gambe incrociate sul
tappeto, allunga la mano verso un bloc- notes poggiato sul tavolino
tra i due divani e lo apre sulla prima pagina pulita. Di getto disegna
un semicerchio e lo divide in quattro spicchi. Tra i due spicchi a sinistra
e i due a destra ci sarà una stretta passatoia, che tratteggia
a matita; nel centro un passaggio più largo, dello stesso materiale
delle passatoie, forse legno.
Adesso lo vede: a grandi linee lorto sarà così.
Sotto al bozzetto ci scrive la data.
Capitolo 1
Ester e i suoi dubbi sullorto.
Tutta colpa del desiderio.
Un orto, ripete Ester con voce piatta, senza perdere lespressione
cortese che si deve allospite.
La fronte si corruga mentre beve fino in fondo la tazzina di caffè.
Con un movimento rapido la ripone sul piattino. Bollente, a me
il caffè piace bollente. E amaro. Si sistema una ciocca
di capelli dietro lorecchio e lascia che la mano le scivoli sul
collo, lenta, per poi arrivare alla collana di ambra, cui si aggrappa
come a un inaspettato piacere. Come mai un orto? La sua
voce ha ripreso vigore. Sai bene che puoi prendere tutta la verdura
che vuoi dal mio orto, Angelo si ostina a seminare di tutto, anche se
in cascina ormai ci sono rimasta solo io.
Lea indugia qualche istante prima di rispondere: Grazie Ester,
lo so, ma questo sarà un orto diverso.
Uhm, diverso
capisco.
Guarda Lea con tutta la serenità che riesce a mettere insieme
e comunque non basta. Si alza, prende un pezzo di legna dalla cesta
accanto al camino, lo appoggia sulle braci e con fare esperto riattizza
il fuoco. Il vestito di maglia color malva le aderisce sul corpo snello,
dal girovita ancora sottile. Lea osserva le sue gambe lunghe e nervose,
non sono le gambe di una vecchia. In questo momento Ester le ricorda
un fenicottero.
Quando smetterà di piovere? Questo tempo non ne vuole sapere
di metter giudizio! Non ricordavo una stagione così dal
.
Alza le spalle e fa un gesto secco con la mano, a chiusa della frase.
Comunque laffitto che paghi comprende casa e giardino, quindi
sei libera di piantare quel che vuoi. Si rimette a sedere, vinta
da un accenno di cedevolezza. Anche se un orto è impegnativo.
Orto uomo morto, non è così che si dice?
Già, sorride Lea. Ma sarà un piccolo
orto e anche se non ne ho mai coltivato uno, imparerò.
Si sbottona la giacca di lana. Il camino adesso manda un gran calore.
Lo so, lo so che sei una donna intraprendente, taglia corto
Ester. Se Lea anni prima non le si fosse presentata così, libera,
senza figli, un architetto sempre in giro per il mondo per ristrutturare
vecchi alberghi e trasformare dimore decadenti in hotel esclusivi, non
le avrebbe certo affittato la casa. Uninquilina fantasma, per
lei lideale. Tanto più ora che il suo compagno, anche lui
architetto, ha ereditato un terreno nellisola greca in cui è
nato e lì sta costruendo un albergo che, pare, gestiranno insieme.
Il problema è che un orto, qualsiasi orto, va seguito ogni
giorno. E quando te ne andrai
Ma io resto. Passerò lestate qui, la interrompe
Lea. Glielo dice con unallegria che le spinge dal petto e si mette
tra loro, e Ester la vede crescere, insolente.
Questa sì che è una novità!, dice Ester.
Lei detesta le novità. Si concede un respiro fondo e appoggia
le mani ai braccioli della poltrona, disponibile a raccogliere nuove
informazioni sul perché mai unintera estate lì,
dopo anni di lontananza, interrotta da sempre più rari e brevi
ritorni a casa.
Ma Lea non aggiunge altro, gli occhi verdi ancora accesi di quellallegria
che non si spegne, insopportabile.
Ester fatica a rimanere composta. È un atto di gentilezza interessarsi
a lei e si aspetta che le sia corrisposto con qualche dettaglio in più.
Lea è incinta? Ha lasciato il greco? Oppure il greco la raggiungerà
in pianura, visto che il suo paese è messo in ginocchio dalla
crisi? La sua mente corre veloce e inanella ipotesi, piccoli aghi che
le pungono la schiena. Sente le spalle irrigidirsi, mentre i piedi di
loro iniziativa cominciano a picchiettare sul pavimento.
Bene, se è tutto sappi che non ho niente in contrario a
che tu faccia il tuo orto, e fa il cenno di alzarsi, questa volta
per accompagnarla alla porta.
Il fatto è che vorrei togliere la ghiaia e rimuovere il
lastricato di beole dal sentiero. Il giardino è piccolo e ho
bisogno di tutto lo spazio a disposizione.
La voce di Lea tradisce unirrequietezza ansiosa, quasi infantile,
che costringe laltra a rimettersi in poltrona.
Così vuoi rimuovere le beole. Ester si toglie dalla
manica un pelucco che non cè. Sono antiche, lo sai?
In origine stavano nella villa dei miei suoceri. Quando la vendemmo
- farei meglio a dire svendemmo, perché Giorgio, mio marito,
non ha mai avuto il dono di trattare- lui le volle portare qui per sistemarle
nel giardinetto del suo studio, la casa in cui tu stai ora. Credo di
avertelo detto quando te lho affittata.
Lea fa un cenno dassenso col capo.
Lui amava la pietra, continua Ester. Amava tutto quello
che dura. Ci hanno educato così. I suoi occhi scuri prendono
la densità del piombo. Ad accettare che le cose ci sopravvivano.
Stia tranquilla. Il giardiniere non le danneggerà e mi
dirà lei dove preferisce riporle.
Bene. La sua espressione adesso è solo concentrata,
senza più ombra di cortesia. Così, quando dovessi
decidere di liberare la casa, potrò rimetterle al loro posto.
Lea non replica. È chiaro: è lei, linquilina, ad
esser di passaggio, non le beole. Ed è Ester, a decidere. La
incuriosisce il senso del futuro della vecchia signora: una strada sconnessa
in cui si avvicendano gli altri, mentre lei procede sul suo sentiero
solitario, lastricato di antiche beole.
Si aspettava che Ester reagisse a quel modo. Come rispondendo a un comando,
laccoglienza della stanza- mobili solidi, tessuti resistenti,
sui tavolini lampade dai paralumi giallo oro e verde salvia, rifiniti
di passamanerie color avorio che solo a un occhio attento rivelano i
loro anni - si richiude a scatto e Lea percepisce la superficie ruvida
del guscio, la sua adamantina durezza.
Ora devo proprio andare. Si alza e si stringe addosso la
giacca, come se dalla finestra chiusa fosse entrato uno spiffero di
aria gelida. Grazie per il caffè, e per il suo tempo.
Ester fa un vago cenno con la mano per accelerare quello straccio di
commiato. Le labbra tinte di rosso scuro ora sembrano una ferita seccata.
Gli occhi piccoli e pungenti, orfani di un bersaglio, si svuotano e
poi si chiudono.
(...)