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Brano
tratto da L'AMORE
IMPERFETTO
I
Nell’attesa d’Eugenio, la testa di Maria Elena si era trasformata
in un termitaio affollato e chiassoso, nel quale pensieri, considerazioni,
crucci, domande, ricordi s’incrociavano, si urtavano, elidevano le
rispettive diritture, si frantumavano nell’impatto e riducevano se
stessi, il proprio contenuto, a qualcosa di monco, incompleto, sospeso.
Maria Elena presentiva, come di fatto avvenne, che la cosa sarebbe passata
sotto silenzio. Il suicidio di Moroni calamitava, in quei giorni, l’attenzione
dell’intera città, e qualsiasi notizia proveniente da Brescia
e diffusa dagli organi d’informazione non si sarebbe discostata dall’argomento.
Meglio così. Meglio per chi rimaneva. Per Biagio, e per Tommaso.
Il giorno era stato deciso da un po’, e ora appariva proprio scelto
a fagiolo, per togliere al fatto i clamori, lo scandalo, la curiosità
morbosa, malsana, che lo avrebbe ingigantito. Lei nei panni del gigante
ci stava larga. Era una donna. Una come tante. Un mostro? No, una come
tante.
Attendeva alla finestra, e guardava fuori, il corso. I commessi che abbassavano
le serrande dei negozi, gli impiegati che andavano al bar a mangiare,
la vecchia che rientrava dalla spesa con le sporte colme di cibarie, il
ragazzino che bighellonava godendosi gli ultimi giorni di vacanza. Ripensò
alla cosa che una volta le disse Biagio, che il suo nome conteneva due
diversi archetipi femminili: la Madre, e il principio d’ogni male.
Sì, la Madonna da un lato, Elena di Troia dall’altro. Biagio
studiava il Cratilo in quel periodo, e si divertiva a elucubrare sui nomi,
sulle parole. Ne venivano discorsi del genere. Biagio era intelligente,
e buono.
Rosalba era stata congedata un’ora prima, alle undici. La sua obbedienza,
l’abitudine a non porre domande, ad accettare gli ordini per balzani
che fossero, rappresentavano un grattacapo di meno. Il brodo l’aveva
preparato Maria Elena. La tavola l’aveva apparecchiata Maria Elena.
Come avveniva di sera, o di domenica. O quando si erano appena trasferiti
lì, e nessuna delle aspiranti domestiche sfilate per casa con pacchi
di referenze e grembiule già stretto in vita sembrava andare bene
a Eugenio. Una troppo boriosa, l’altra sciatta e trasandata, e poi
le troppo chiacchierone, le montanare zotiche e le meridionali impiccione.
Finché un giorno arrivò Rosalba: precisa, impeccabile, perfetta.
Discreta, laboriosa. Obbediente. Liberò Maria Elena dall’incubo
dell’aspirapolvere, quel titano rumoroso e orrendo che, nella sua
casa da signorina, non le era mai toccato di passare, e che ora le distruggeva
la schiena, pesante come una carrucola riempita di pietre. Tempi lontani.
Passati. Perduti.
In tanti anni, Eugenio non si era servito una volta della mensa, né
di uno dei ristoranti intorno alla fabbrica, dove pranzavano i dirigenti
e i tecnici. Sempre a casa era venuto. A sorbirsi il suo brodo. Poi ripartiva.
Se pioveva in autobus, altrimenti in bicicletta. A sera, si trovava ad
aver percorso qualche decina di chilometri, ma lui preferiva così.
Eccolo là. Giacca e pantaloni ocra, cravatta al vento, valigetta
nel cestino. La ruota anteriore venne infilata nella rastrelliera con
la sicurezza di chi compie lo stesso, automatico gesto dall’eternità.
Quando si piegò, per assicurare la bicicletta con la catena, la
cravatta scopò per terra. Come sempre. Tutto come sempre. E, come
sempre, una volta legata la bici e raccolta la valigetta, Eugenio sollevò
lo sguardo fino alle finestre del salone e con la mano accennò
a un saluto. Che Maria Elena ci fosse o non ci fosse, poco importava.
Lui era certo che ci fosse, ciò rientrava nelle personali convinzioni
che fanno di un uomo un uomo. E lei c’era, c’era sempre stata,
a rispondere a quel saluto.
Maria Elena lasciò la finestra e, schivando il tavolo preparato
ben bene con la tovaglia bianca in pizzo di Burano, la brocca dell’acqua,
i calici di cristallo, i piatti e le posate, attraversò il salone
diretta in corridoio. I passi del marito risalivano la rampa di scale,
un piano, che separava l’abitazione dalla strada. Con mezzo giro
di chiave, fu dentro.
- Eccomi qua… Vado in bagno.
Gli bastarono poche falcate per passare davanti a Maria Elena e affidarle
la valigetta, e scomparire dietro la porta del gabinetto. La valigetta
e l’odore: entrambi consegnò alla moglie, nella scia del suo
passaggio. Ma l’odore si dissolse subito, la borsa, invece, come
ogni giorno, le rimase in mano. Ed era sempre più pesante. Negli
anni, ogni giorno che passava, Maria Elena coglieva l’impercettibile
variazione di peso. Appoggiò la valigetta a terra; avrebbe voluto
abbandonarla, che si schiantasse al suolo, ne fuoriuscisse il contenuto,
i pezzi di cadavere che lui ci nascondeva dentro, i pezzi della loro esistenza
ormai spirata, sì avrebbe voluto, ma l’appoggiò, come
faceva sempre. Tutto come sempre. Nulla doveva apparire diverso. E, come
sempre, il gorgoglio di lui che urinava dentro il water Godoni, water
di gran lusso, invadeva la casa, le orecchie, anche di chi non voleva
sentire! Maria Elena si rifugiò nel salone.
- È pronto il brodo?- fece lui, affacciandosi dopo qualche istante.
- Certo. Oggi l’ho preparato io.
Maria Elena abbozzò un sorriso garbato.
- Perché?
- Rosalba se n’è andata un’ora prima.
- E perché?
- Impegni.
- Pregare il marito di tornare?
- Non credo.
- E i ragazzi?
- Lo sai. Biagio ha l’esame…
- Sì, è vero.
- E Tommaso mangia fuori con Germana. Sono andati a vedere l’appartamento.
- Ancora questa storia…
- Lasciamoli provare.
- Sì, tanto, tempo un mese, e tornano da mamma e papà…
Va bene, servi il brodo.
- Certo.
Maria Elena scivolò in cucina, la stanza a fianco. Il tegame attendeva,
chiuso e sigillato, sui fornelli. Lo prese e lo adagiò sul carrello,
agguantò anche il mestolo dal marasma di utensili nel cassetto,
e fu di ritorno.
- Cosa ci hai messo dentro?
- Gallina, sedano, carota, dado, il solito.
- E il pomodoro?
Sì, anche un pomodoro; dimenticavo, scusa.
Sollevato il coperchio della pentola, Maria Elena servì tre mestoli
di brodo al marito. Quindi, girando con il carrello intorno al tavolo,
due a se stessa. Eugenio mescolava.
- Non ti siedi?
- No. Devo fare una cosa. Tu mangia, mi raccomando.
- Ma non potevi farla prima?
La domanda di lui rimase senza risposta. Un’altra volta Maria Elena
varcò l’adito del salone e si ritrovò nel corridoio.
Senza voltarsi indietro, s’inoltrò nella biblioteca, chiudendosi
la porta alle spalle. Tutto andava per il verso giusto, come previsto.
Non c’era di che allarmarsi, smarrire la bussola adesso sarebbe stato
un segno di fragilità stolta. Tutto era come doveva essere. Geometrico,
liscio, senza intoppi. Procrastinato quanto necessario per pianificare
ogni cosa per bene. Liscio, senza intoppi. Maria Elena sedette alla scrivania,
dalla risma nel cassetto estrasse un foglio, afferrò la stilografica
d’argento e si mise a scrivere. Ordinata, in bella grafia. Non era
la lettera di una pazza, di un’alienata. Non doveva esserlo. Era
una lettera dignitosa. E non la si sarebbe potuta scrivere prima, con
il rischio che venisse trovata, che il piano andasse a monte.
Caro
Biagio, caro Tommaso,
in casi come questo le parole appaiono
sempre superflue, spesso retoriche, vacue,
insignificanti. Ne sono consapevole,
e perciò ho scelto di congedarmi da
voi con poche righe. Ciò che vi rimarrà,
ciò che questa esperienza lascerà in voi,
sarà un grande dolore. Non pensiate che
lo ignori. Ma vorrei che, accanto al dolore,
fra tutti gli interrogativi che vi porrete,
vi resti la certezza…
Il
baccano che produssero il piatto, rompendosi, e il cucchiaio, rotolando
sul pavimento nel salone, distolse per un attimo Maria Elena. Ma fu un
attimo.
che
nessuna responsabilità, o colpa, voi
figli potete aver avuto in una storia che
ha riguardato solo i vostri genitori. Siete
stati la luce dei miei occhi, e se per tanto
tempo ho lottato con l’indecisione, è stato
perché pensavo a voi. Ma l’ineluttabile si
può solo rimandare. Vi ho amati, e vi amo.
Vostra
madre
Quando
alzò gli occhi dal foglio, Maria Elena incrociò lo sguardo
della bimba paffuta di Berthe Morisot, allegra e sorridente, dentro la
cornice. L’unico elemento festoso di quella stanza cimiteriale. Una
bimba felice. Come lo erano stati i suoi. Presa la lettera con sé,
Maria Elena si riavviò al salone. Senza titubanza, sicura come
non lo era da chissà quanto. Nessun tremore alle gambe, alle mani.
Era orgogliosa di sé, del proprio controllo. Tutto come previsto.
Solo un dettaglio non aveva preventivato; minimale, ma inaspettato. Il
telefono. Suonò. Sì, suonò mentre lei usciva dalla
biblioteca, e la paralizzò. Sicurezza, controllo. Al terzo squillo,
Maria Elena sollevò la cornetta dell’apparecchio nel corridoio.
Rispose. Sicura, controllata.
- Pronto, famiglia Rossi.
È la Godoni, signora. La prego di scusare il disturbo, ma ho bisogno
di parlare con l’ingegnere urgentemente. Non posso attendere.
Era l’impiegato anziano, quello che spesso telefonava a casa. Maria
Elena riconobbe la voce.
- Non è possibile.
- Come? Suo marito non è venuto a pranzare a casa?
- Mio marito è morto.
Seguì un lungo silenzio, nei cui recessi l’impiegato, ammutolito,
dovette intuire una moglie seccata di essere disturbata e l’ingegnere,
a sua volta desideroso di desinare in santa pace, a impartire alla consorte
le istruzioni su frasi a effetto da pronunciare al telefono. Infatti se
ne uscì con un:
- Va bene, signora, non importa. La ringrazio molto.
E riagganciò.
Riagganciò anche lei, e tornò nel salone. Sul parquet stagnava
una chiazza lacustre di brodo, puntellata dai cocci del piatto. Lui era
riverso sulla superficie del tavolo, la faccia contro la tovaglia, la
schiena inarcata, le braccia a penzoloni, il deretano ben aderente alla
sedia dove la sera stava per ore. Neanche da morto era riuscito a scollarsi!
Da sopra un mobile, Maria Elena raccolse una statuetta in porcellana,
una contadinella con la gerla in testa, appoggiò sul tavolo la
lettera e sopra la lettera la contadinella. Sedette al suo posto. Ingerì
un cucchiaio di brodo. E sentì, d’un tratto, un’enorme
mano premerle sulla testa, come se volesse comprimerla. La sala cominciò
a presentarsi sfocata. La mano premeva. Biagio… Due opposti archetipi
femminili… La mano…
E tutto, intorno a lei, si fece buio.
(...)
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