i quaderni di Cico
 
 

 

 

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titolo:L'AMORE IMPERFETTO
collana i quaderni di Cico
autore Dario Gigante
ISBN 978-88-95106-91-5
- € 13,50 -
pp. 237 - in copertina, illustrazione di Simone Pieralli.


Biagio e Tommaso sono fratelli. Da molti anni vivono in una comunione simbiotica, venata di morbosità. Da quando un avvenimento imprevisto, straziante, si è abbattuto sulla loro famiglia e sulle loro esistenze.
Maria Elena è loro madre. Una madre devota, premurosa. Eppure abitata da un male cupo, inconfessato e inconfessabile, alieno alle convenzioni della società a cui la donna appartiene. Un male dalle conseguenze devastanti.

 

 

 

 

 

Attraverso la narrazione di una tragedia familiare, consumatasi negli ambienti della Brescia altoborghese, nella crisalide asfittica di una città bella e misteriosa, L’amore imperfetto conduce, sulla scorta del Simposio di Platone, il dialogo sull’eros per antomasia, una riflessione sul sentimento da cui tutto, nel complesso delle relazioni umane, ha origine. L’amore come fusione spirituale tesa al raggiungimento dei vertici sommi del Bene, e l’amore come contesto forzato per l’assolvimento dei doveri sociali, come la procreazione e la famiglia. L’amore salvifico, e l’amore distruttivo. Se proprio nell’amore Biagio troverà un’insperata palingenesi, non sarà così per i personaggi che lo circondano: in un racconto corale e sviluppato su piani cronologici disparati, l’amore viene presentato in tutte le sue facce.

 

 

 

 

Brano tratto da L'AMORE IMPERFETTO

I

Nell’attesa d’Eugenio, la testa di Maria Elena si era trasformata in un termitaio affollato e chiassoso, nel quale pensieri, considerazioni, crucci, domande, ricordi s’incrociavano, si urtavano, elidevano le rispettive diritture, si frantumavano nell’impatto e riducevano se stessi, il proprio contenuto, a qualcosa di monco, incompleto, sospeso.
Maria Elena presentiva, come di fatto avvenne, che la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Il suicidio di Moroni calamitava, in quei giorni, l’attenzione dell’intera città, e qualsiasi notizia proveniente da Brescia e diffusa dagli organi d’informazione non si sarebbe discostata dall’argomento. Meglio così. Meglio per chi rimaneva. Per Biagio, e per Tommaso. Il giorno era stato deciso da un po’, e ora appariva proprio scelto a fagiolo, per togliere al fatto i clamori, lo scandalo, la curiosità morbosa, malsana, che lo avrebbe ingigantito. Lei nei panni del gigante ci stava larga. Era una donna. Una come tante. Un mostro? No, una come tante.
Attendeva alla finestra, e guardava fuori, il corso. I commessi che abbassavano le serrande dei negozi, gli impiegati che andavano al bar a mangiare, la vecchia che rientrava dalla spesa con le sporte colme di cibarie, il ragazzino che bighellonava godendosi gli ultimi giorni di vacanza. Ripensò alla cosa che una volta le disse Biagio, che il suo nome conteneva due diversi archetipi femminili: la Madre, e il principio d’ogni male. Sì, la Madonna da un lato, Elena di Troia dall’altro. Biagio studiava il Cratilo in quel periodo, e si divertiva a elucubrare sui nomi, sulle parole. Ne venivano discorsi del genere. Biagio era intelligente, e buono.
Rosalba era stata congedata un’ora prima, alle undici. La sua obbedienza, l’abitudine a non porre domande, ad accettare gli ordini per balzani che fossero, rappresentavano un grattacapo di meno. Il brodo l’aveva preparato Maria Elena. La tavola l’aveva apparecchiata Maria Elena. Come avveniva di sera, o di domenica. O quando si erano appena trasferiti lì, e nessuna delle aspiranti domestiche sfilate per casa con pacchi di referenze e grembiule già stretto in vita sembrava andare bene a Eugenio. Una troppo boriosa, l’altra sciatta e trasandata, e poi le troppo chiacchierone, le montanare zotiche e le meridionali impiccione. Finché un giorno arrivò Rosalba: precisa, impeccabile, perfetta. Discreta, laboriosa. Obbediente. Liberò Maria Elena dall’incubo dell’aspirapolvere, quel titano rumoroso e orrendo che, nella sua casa da signorina, non le era mai toccato di passare, e che ora le distruggeva la schiena, pesante come una carrucola riempita di pietre. Tempi lontani. Passati. Perduti.
In tanti anni, Eugenio non si era servito una volta della mensa, né di uno dei ristoranti intorno alla fabbrica, dove pranzavano i dirigenti e i tecnici. Sempre a casa era venuto. A sorbirsi il suo brodo. Poi ripartiva. Se pioveva in autobus, altrimenti in bicicletta. A sera, si trovava ad aver percorso qualche decina di chilometri, ma lui preferiva così. Eccolo là. Giacca e pantaloni ocra, cravatta al vento, valigetta nel cestino. La ruota anteriore venne infilata nella rastrelliera con la sicurezza di chi compie lo stesso, automatico gesto dall’eternità. Quando si piegò, per assicurare la bicicletta con la catena, la cravatta scopò per terra. Come sempre. Tutto come sempre. E, come sempre, una volta legata la bici e raccolta la valigetta, Eugenio sollevò lo sguardo fino alle finestre del salone e con la mano accennò a un saluto. Che Maria Elena ci fosse o non ci fosse, poco importava. Lui era certo che ci fosse, ciò rientrava nelle personali convinzioni che fanno di un uomo un uomo. E lei c’era, c’era sempre stata, a rispondere a quel saluto.
Maria Elena lasciò la finestra e, schivando il tavolo preparato ben bene con la tovaglia bianca in pizzo di Burano, la brocca dell’acqua, i calici di cristallo, i piatti e le posate, attraversò il salone diretta in corridoio. I passi del marito risalivano la rampa di scale, un piano, che separava l’abitazione dalla strada. Con mezzo giro di chiave, fu dentro.
- Eccomi qua… Vado in bagno.
Gli bastarono poche falcate per passare davanti a Maria Elena e affidarle la valigetta, e scomparire dietro la porta del gabinetto. La valigetta e l’odore: entrambi consegnò alla moglie, nella scia del suo passaggio. Ma l’odore si dissolse subito, la borsa, invece, come ogni giorno, le rimase in mano. Ed era sempre più pesante. Negli anni, ogni giorno che passava, Maria Elena coglieva l’impercettibile variazione di peso. Appoggiò la valigetta a terra; avrebbe voluto abbandonarla, che si schiantasse al suolo, ne fuoriuscisse il contenuto, i pezzi di cadavere che lui ci nascondeva dentro, i pezzi della loro esistenza ormai spirata, sì avrebbe voluto, ma l’appoggiò, come faceva sempre. Tutto come sempre. Nulla doveva apparire diverso. E, come sempre, il gorgoglio di lui che urinava dentro il water Godoni, water di gran lusso, invadeva la casa, le orecchie, anche di chi non voleva sentire! Maria Elena si rifugiò nel salone.
- È pronto il brodo?- fece lui, affacciandosi dopo qualche istante.
- Certo. Oggi l’ho preparato io.
Maria Elena abbozzò un sorriso garbato.
- Perché?
- Rosalba se n’è andata un’ora prima.
- E perché?
- Impegni.
- Pregare il marito di tornare?
- Non credo.
- E i ragazzi?
- Lo sai. Biagio ha l’esame…
- Sì, è vero.
- E Tommaso mangia fuori con Germana. Sono andati a vedere l’appartamento.
- Ancora questa storia…
- Lasciamoli provare.
- Sì, tanto, tempo un mese, e tornano da mamma e papà… Va bene, servi il brodo.
- Certo.
Maria Elena scivolò in cucina, la stanza a fianco. Il tegame attendeva, chiuso e sigillato, sui fornelli. Lo prese e lo adagiò sul carrello, agguantò anche il mestolo dal marasma di utensili nel cassetto, e fu di ritorno.
- Cosa ci hai messo dentro?
- Gallina, sedano, carota, dado, il solito.
- E il pomodoro?
Sì, anche un pomodoro; dimenticavo, scusa.
Sollevato il coperchio della pentola, Maria Elena servì tre mestoli di brodo al marito. Quindi, girando con il carrello intorno al tavolo, due a se stessa. Eugenio mescolava.
- Non ti siedi?
- No. Devo fare una cosa. Tu mangia, mi raccomando.
- Ma non potevi farla prima?
La domanda di lui rimase senza risposta. Un’altra volta Maria Elena varcò l’adito del salone e si ritrovò nel corridoio. Senza voltarsi indietro, s’inoltrò nella biblioteca, chiudendosi la porta alle spalle. Tutto andava per il verso giusto, come previsto. Non c’era di che allarmarsi, smarrire la bussola adesso sarebbe stato un segno di fragilità stolta. Tutto era come doveva essere. Geometrico, liscio, senza intoppi. Procrastinato quanto necessario per pianificare ogni cosa per bene. Liscio, senza intoppi. Maria Elena sedette alla scrivania, dalla risma nel cassetto estrasse un foglio, afferrò la stilografica d’argento e si mise a scrivere. Ordinata, in bella grafia. Non era la lettera di una pazza, di un’alienata. Non doveva esserlo. Era una lettera dignitosa. E non la si sarebbe potuta scrivere prima, con il rischio che venisse trovata, che il piano andasse a monte.

Caro Biagio, caro Tommaso,
in casi come questo le parole appaiono
sempre superflue, spesso retoriche, vacue,
insignificanti. Ne sono consapevole,
e perciò ho scelto di congedarmi da
voi con poche righe. Ciò che vi rimarrà,
ciò che questa esperienza lascerà in voi,
sarà un grande dolore. Non pensiate che
lo ignori. Ma vorrei che, accanto al dolore,
fra tutti gli interrogativi che vi porrete,
vi resti la certezza…

Il baccano che produssero il piatto, rompendosi, e il cucchiaio, rotolando sul pavimento nel salone, distolse per un attimo Maria Elena. Ma fu un attimo.

che nessuna responsabilità, o colpa, voi
figli potete aver avuto in una storia che
ha riguardato solo i vostri genitori. Siete
stati la luce dei miei occhi, e se per tanto
tempo ho lottato con l’indecisione, è stato
perché pensavo a voi. Ma l’ineluttabile si
può solo rimandare. Vi ho amati, e vi amo.

Vostra madre

Quando alzò gli occhi dal foglio, Maria Elena incrociò lo sguardo della bimba paffuta di Berthe Morisot, allegra e sorridente, dentro la cornice. L’unico elemento festoso di quella stanza cimiteriale. Una bimba felice. Come lo erano stati i suoi. Presa la lettera con sé, Maria Elena si riavviò al salone. Senza titubanza, sicura come non lo era da chissà quanto. Nessun tremore alle gambe, alle mani. Era orgogliosa di sé, del proprio controllo. Tutto come previsto. Solo un dettaglio non aveva preventivato; minimale, ma inaspettato. Il telefono. Suonò. Sì, suonò mentre lei usciva dalla biblioteca, e la paralizzò. Sicurezza, controllo. Al terzo squillo, Maria Elena sollevò la cornetta dell’apparecchio nel corridoio. Rispose. Sicura, controllata.
- Pronto, famiglia Rossi.
È la Godoni, signora. La prego di scusare il disturbo, ma ho bisogno di parlare con l’ingegnere urgentemente. Non posso attendere.
Era l’impiegato anziano, quello che spesso telefonava a casa. Maria Elena riconobbe la voce.
- Non è possibile.
- Come? Suo marito non è venuto a pranzare a casa?
- Mio marito è morto.
Seguì un lungo silenzio, nei cui recessi l’impiegato, ammutolito, dovette intuire una moglie seccata di essere disturbata e l’ingegnere, a sua volta desideroso di desinare in santa pace, a impartire alla consorte le istruzioni su frasi a effetto da pronunciare al telefono. Infatti se ne uscì con un:
- Va bene, signora, non importa. La ringrazio molto.
E riagganciò.
Riagganciò anche lei, e tornò nel salone. Sul parquet stagnava una chiazza lacustre di brodo, puntellata dai cocci del piatto. Lui era riverso sulla superficie del tavolo, la faccia contro la tovaglia, la schiena inarcata, le braccia a penzoloni, il deretano ben aderente alla sedia dove la sera stava per ore. Neanche da morto era riuscito a scollarsi!
Da sopra un mobile, Maria Elena raccolse una statuetta in porcellana, una contadinella con la gerla in testa, appoggiò sul tavolo la lettera e sopra la lettera la contadinella. Sedette al suo posto. Ingerì un cucchiaio di brodo. E sentì, d’un tratto, un’enorme mano premerle sulla testa, come se volesse comprimerla. La sala cominciò a presentarsi sfocata. La mano premeva. Biagio… Due opposti archetipi femminili… La mano…
E tutto, intorno a lei, si fece buio.

(...)


 
 
 

Dario Gigante (1982) viene da lassù, dall’anonimato di luoghi ignoti dell’Italia nord-orientale. Laureato in Filosofia all’Università di Trieste e diplomato in Sceneggiatura al Master in Scritture per il Cinema del Dams di Gorizia, brancola negli ambienti della produzione audiovisiva indipendente.
È autore di soggetto e copione del cortometraggio Breve storia di un mazzo di chiavi perduto e della sua affannosa ricerca, e scrive su Ondacinema.it, rivista web di critica cinematografica.

Questo è il suo primo romanzo.