Giuseppe
Iannozzi
"La cattiva strada"
O la tentazione del male
di Giovanni Agnoloni
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La
cattiva strada, di Giuseppe Iannozzi,
è un libro che mi ha dato molto da pensare. Un romanzo figlio
dei nostri tempi, per i temi che affronta, e figlio del passato, per
lo stile con cui lo fa. Dopo tutto, della tentazione (e della scelta)
del male tratta. E questo, purtroppo, è un argomento sempre attuale.
Il protagonista, Matteo, vive quella che potremmo chiamare un'esperienza
di (dis)educazione etica ed emozionale, passando attraverso tutta una
serie di esperienze estreme, dal furto al tradimento, dal vendersi al
violare qualunque tipo di sacralità, sempre navigando nelle nebbie
di una società sbattuta, lacerata e scissa. Le città italiane
- diverse - per cui si sposta come un cane randagio fluttuano nel loro
brodo cosmico di grigi inespressi, nella loro noia arresa. E questo
personaggio si muove, ramingo, in un mare che lo sbatacchia e nel quale
decide - in modo pressoché sistematico - di fare sempre la cosa
sbagliata.
Sballottato in un'esistenza fondamentalmente priva di amore - degli
altri, per se stesso e per gli altri - girovaga come fanno le bestie
rapaci, sempre pensando alla prossima preda (e al prossimo bottino).
È la quintessenza non solo del relativismo etico, ma direi addirittura
di un'etica (pervicacemente) rovesciata. Proprio come nel mondo di oggi,
in cui tutto pare sofisticamente opinabile e il nero spesso viene spacciato
per bianco. Solo che lui il nero lo vede nero e lo sceglie deliberatamente.
Non tanto per il gusto di fare il male, ma per istinto di sopravvivenza
e per una radicale rabbia verso il mondo.
Non che io cerchi di fare il suo "avvocato", ma il fatto è
che Matteo agisce con una puntualità quasi pura. Per lo meno
nel senso etimologico dell'aggettivo, che si ricollega al fuoco (pyr,
in greco antico). Ecco, il protagonista di Iannozzi si brucia costantemente
sull'altare della negazione del suo centro interiore. Ma lo fa per vie
dapprima tonde, sinuose, come lo stile dell'autore, che scorre via come
l'olio buono, con spunti descrittivi e quadri d'ambiente che ricordano,
mutatis mutandis, scrittori-paesaggisti come Marino Magliani,
Francesco Biamonti o, ancor prima, Mario Rigoni-Stern.
Poi però ci sono delle brusche accelerazioni, corrispondenti
ai momenti in cui Matteo, colto da uno dei suoi sussulti, aggredisce,
ruba o in ogni caso fa qualcosa di moralmente discutibile. Allora il
ritmo accelera, come in una ballata sghemba, e le scene si fanno crude,
fino a (più che) sfiorare la blasfemia. Non nego che a volte
mi abbiano urtato, né più né meno come le vignette
di "Charlie Hebdo". Con una differenza, però: qui non
si voleva provocare, ma illustrare come funziona e opera il male, che
spesso nasce da situazioni difficili, quindi scivola nell'anima inasprita
dalle necessità, giustificando e alimentando se stesso; e, infine,
strappa qualunque legame, incluso quello con la radice dell'essere.
Quella che chi così lo sente chiama "Dio". E che -
sempre per chi così riesce a sentirlo - è e resta fino
alla fine, e nonostante tutto, l'Amore che questo protagonista non ha
mai veramente conosciuto.
