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ordinalo senza spese di spedizione

titolo: "Io sto bene"
collana blocknotes
autore Rùmi
ISBN 978-88- 97424-83-3
€ 13,00 - pp.261- © 2013 - in copertina,fotografia di Alessandro Ansuini.


L’anonimo protagonista di IO STO BENE è iscritto all’università, ha buoni amici, gira e vede gente. Vivacchia sulla faccia scura della finta Roma bene che non finisce mai sui giornali. La sua vita quotidiana assomiglia a una barzelletta sporca: superficiale, spensierata, libertina.

 
 
 

 

Le sue poche soddisfazioni gli derivano dall’amore per il cinema e per uno dei suoi esponenti di punta: Sergio Bauer, fantomatico intellettuale prestato al soft-core, finito inghiottito nella fitta rete dei misteri d’Italia, nonché soggetto unico della tesi che gli consentirà di ottenere l’agognata laurea. Ed è proprio addentrandosi nella figura criptica e nella vita fumosa dell’autore maledetto che il percorso del nostro protagonista andrà sempre più complicandosi, fino a una catartica gita in provincia, dove, tra bizzarri incontri con un adescatore di ninfetti e orge di droga e alcol, riuscirà, forse, a mettere ordine nel caos della propria esistenza.

 

 
 

 

Brano tratto da "Io sto bene"

(...)

La notte in cui il macellaio perse la voce
(23 gennaio 1992)


Dopo questa mi sento completamente bruciato, e non bruciato poco, roba dell’altro mondo, roba che arriva da chissà dove e che ora è tutta qui dentro.
Urlano, urlano, ma che cazzo si urlano?!, smettete di urlare!, gli urlo.
Ma quelli non smettono. Che rompicoglioni. Vogliono che vada sul palco, che palle… se la cantassero da sola, la loro stramaledetta canzone, io ho altro per la testa, ho davvero altro, che mi circola in testa, ah ah ah, meerda.
Mi accascio per terra.
Meerda.
‘Sta roba ti strizza tutto, ti strizza col botto.
Devo avere una faccia da morto, altrimenti questi quattro frignoni qua davanti non me lo spiego proprio perché urlano, sbraitano e bestemmiano e mi tirano la giacca, i capelli, uffffff….
Ma che volete? Ma che cazzo volete?
Devi salire, cazzo! devi salire!, berciano i frignoni.
Quel frocio di Luca che sbava e s’incazza.
Calmati, bello, che ti viene un infarto, gli dico, ma lui se ne frega, anzi, s’incazza ancora di più e continua a sbavare e mi sento il suo alito caldo del cazzo sulla bocca e su tutta la faccia e si meriterebbe proprio un bel ceffone, sì, un bel ceffone dritto su quella faccia di merda che urla, urla e sembra buona solo a urlare…
… aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Ora sta zitto, finalmente. Ci vuole un matto per competere con i matti: questa è la verità.
Volete che faccia il matto? È questo quello che volete? Volete un matto? Perfetto! Eccolo qua!
Glielo dico così, chiaramente.
Non possono pretendere proprio un cazzo da me... banda di froci!
Lo sanno tutti che a Luca quando si spengono le luci gli piace prenderlo al culo, ah ah ah!
Gliel’ho detto. Ah, da quant’era che volevo farlo…
Ma non è il momento di liberazione che credevo. No: non era così che l’immaginavo.
Li sento che bisbigliano, che confabulano e pss e pss e pss, ma che cazzo si dicono?
È matto, si stanno dicendo.
È svalvolato, completamento fuso.
Rottame, mi gridano.
Fanculo, gli rispondo. Froci pure voi. Froci, froci, froci! Froci maledettiiii… iiiiiii… e cerco di aspettare che si disperdano, che si levino di torno, ma non c’è verso, scoppio in lacrime, ma senza quei versi da fichetta in calore: è un pianto muto, inarrestabile, un pianto che, cazzo, non ci voleva, non ci voleva proprio, meerda, tutto l’effetto, tutto quel buonumore e quei sorrisi che avevo nella testa, puff!, scompaiono, un pianto che mi fa svanire tutto quel che di buono l’ero m’aveva regalato.
Mi scuotono, piano, piano. È una mano femmininle? È sua, la riconosco.
Stella? Sei tu?
Ma non è lei.
Non è nessuno.
Qui non c’è nessuno. Sono andati tutti via.
Meerda.
Mi tiro su, mi rimetto seduto e mi accorgo che ho la mano e il braccio e parte della giacca sporca di polvere e trucioli che mi stanno bruciando gli occhi, che mi entrano nei polmoni e non mi sento per niente bene.
Poi la folla incomincia un coro. Se finora era stato solo casino indifferenziato, cacofonia, chiamatelo come vi pare, ora inizia ad avere un suo perché.
Mi stanno chiamando, sì, sì, mi chiamano. Vogliono me. Vogliono solo me, non la banda di idioti che è ancora accanto a me e mi guarda, senza muovere un dito, mi giudica vedendo solo quello che vuole vedere.
Eh no, ragazzi, glielo dico. Quelli là… vogliono me!
Mi continuano a guardare, la chitarra in mano, la fronte imperlata di sudore, la magliette sbrindellate.
Mi alzo e caracollo addosso a una pila di casse, producendo un frastuono che per poco non assorda tutti. Ma mi rialzo, senza troppo scompormi.
Cazzo, vorrei uno specchio. Mi carica, guardarmi allo specchio. Meeeerda, chissà che faccia che ho?, ah ah ah, ma chi se ne frega, andiamo là a spaccare culi.
Faccio delle scalette, uno due tre quattro cinque sei ed eccomi sul palco, tutto per voi!
Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee, la folla urla indemoniata e sembrano tantissimi anche se lo so, sì, so che non saranno più di qualche centinaio, ma va bene lo stesso, perché sono tutti miei, sì un centinaio, due centinaia, tutti miei.
Sul palco vedo solo la batteria e il cazzo di microfono. Alzo le braccia e quelli già a urlare come se avessero visto Gesù Cristo in carne e miracoli.
Sono io, figlioli, adoratemi, vi porto qualche minuto di felicità, io!
Quei tre cazzoni dietro di me si decidono finalmente a salire sul palco anche se hanno facce da funerale e mi fulminano con lo sguardo.
Meerda.
Quelli giù sotto il palco sembrano essersi un po’ calmati, ora. Forse si stanno preparando alla botta di adrenalina?!, ah ah ah, che schifo cazzo, mi viene da vomitare e non è un conato normale, meeeerda, sembra una tortura come se ti mettessero a testa in giù e ti strizzassero lo stomaco fino a che non esce tutto, tutto quanto, fino a che non sputi pure l’anima e, meerda…
Mi getto sulle ginocchia e vomito via tutti i succhi gastrici rosa salmone e qualche altra schifezza indigesta e già il puzzo si propaga, mentre quelli delle prime file scappano indietro, forse spruzzati dal mio vomito, o forse semplicemente schifati.
Mi sento tirare via dalle spalle e non mi frega un cazzo di vedere chi è, perché gli occhi mi si socchiudono da soli e tutta la forza che mi ero comprato forse l’ho vomitata via con tutto il resto e, oh meerda…
… datemi una sigaretta, ragazzi, cazzo!
… ve la pago, meerda…
… per favoreeee… eeeee… stronzi maledetti, cazzo, una fottuta sigaretta, è questo che vi chieeeeeee….
Ma niente, non ne vogliono sapere, mi tirano giù dal palco e mi buttano per terra, vicino a dov’ero prima, in mezzo alla polvere e ai trucioli e sento il vocione di Giannini, Giannetti - come cazzo si chiama il proprietario del locale? - che arriva e bestemmia un paio di volte, prima di rivolgersi ai ragazzi e quando quelli gli rispondono con la solita verve da morituri, lui prende a urlare drogati di merda!, drogati di merda!, come un ritornello e poi mi sento preso a calci e i calci arrivano dritti dritti da quelle gambe da obeso di Giannini o Giannetti che urla pure qualcosa ma proprio non lo capisco quando urla e intanto mi rifila questi calcioni, bum! sullo stomaco - e a me viene ancor di più da vomitare - bum! sulle costole, bum! sui fianchi e fa veramente un male cane, ma mi fa venir da ridere, il coglione, sembra solo un grosso ciccione sudato che muove le gambette e fatica e si fa male anche più di me, ah ah ah, e allora gli chiedo una sigaretta, al ciccione, ce l’avrà, sì, una sigaretta per me?
E mi viene sempre più da ridere, di un riso incontrollato però, un riso che a tratti mi fa paura e che mi tappa le orecchie e non sento più niente e allora penso, cazzo, sono diventato sordo e cerco di muovermi, ma mi mancano le forze e il solo movimento che mi viene è di strisciare, o neppure quello forse, perché a un certo punto tutto diventa ancora più nero e non c’è più un cazzo da vedere…

… sto scomodissimo, sul retro del furgone. Non si vede un cazzo, tant’è buio, e sento solo il vociare, gli urli, gli schiamazzi e tutto il resto, ma dei ragazzi neppure l’ombra.
Mi scuoto un po’, mi passo la mano sul viso e me la rimetto davanti agli occhi: una striscia di moccio, o di bava, che la taglia perpendicolare. Tiro su col naso ma lì è tutto ok. Allora mi pulisco la bocca, che è tutta impiastricciata di saliva e mi rovescio addosso alla porta del furgone e la spingo per aprirla, le do i pugni e urlo ehiiiiii!, ma nessuno sembra sentirmi e quasi quasi dormo e aspetto che questo incubo fottuto finisca e mi ritrovi nel letto con la mamma che mi rimbocca le coperte e mi canta la buonanotte, sì, esattamente quello che ci vuole e, mentre penso a ‘sta roba, sento un peso sullo sportello, forse uno che ci si è appoggiato, quindi ricomincio a urlare ehiii!, ehiiii!, e qualcuno mi sente, perché iniziano a parlare, in tono interrogativo e poi mani si muovono sulla chiusura dello sportello e alla fine si apre e io per poco non casco faccia in giù sull’asfalto umidiccio, a sbucciarmi le guance. Sono una ragazza e un ragazzo, due facce peggio della mia, e il ragazzo capisco subito che è un coglione perché tira fuori una vocina stridula e gracchia come una femminuccia e dice ma tu sei… ma tu sei… sei il cantante dei Panico!, cazzoooooooo!, e io bofonchio qualcosa ma non so bene neanche io cosa e mi tiro su e mi do una stirata ai vestiti, e gli chiedo se finalmente me la posso fumare, ‘sta cazzo di sigaretta, meerda.
La ragazza dà un colpetto al ragazzo sui fianchi, questo miagola qualcosa poi mi porge la sigaretta e mi dà pure un fiammifero e io, ahhhhhhhhh, finalmente riesco a fumare!
Sto lì un po’ mentre quelli mi guardano come un animale in gabbia e io preferisco fissare per terra, i piedi, il ghiaccio che si sta formando, e poi sento un rumore, un rumore che conosco bene e no, non voglio più vederli quegli stronzi e ho deciso che li pianto lì, se la sbrigassero da soli, d’ora in poi, e getto la sigaretta per terra; vedo le prime sagome che spostano casse e chitarre infoderate e io mi nascondo dietro al furgone, mi acquatto come una lince in fuga e poi scappo veloce dove è più difficile che mi vedano, ma il tempo della corsetta mi ha completamente fiaccato e mi sento infilzato da migliaia di spilli incandescenti e vorrei di nuovo buttarmi per terra e farmi fino a morire, farmi fino a che il nero non abbia inghiottito il creato e non rimanga più il tempo di pensare a niente.
Un sogno, cazzo, un sogno…
… e nel frattempo cammino,
Incrocio gli sguardi dei giovani della città, evito per un pelo qualche macchina sparata e mi fermo davanti a un bar e vorrei tanto una birra, cazzo, bella fresca che mi scende in gola, ma tiro fuori le mani dalle tasche e ho soltanto fogli di carta imbrattati e, forse, duecento o cinquecento lire.
Fanculo, che cazzo.

... vedo in lontananza l’edificio imponente della stazione che si staglia, grigio esempio dell’arroganza della mediocrità, sopra il trafficare segreto di delinquenti, tossici e altre facce poco raccomandabili e a questo punto decido che posso pure rallentare il passo, meerda, c’ho le gambe a pezzi, uffff!
Cammino mogio e cerco il marocchino, un tipo che ho già incontrato almeno un paio di volte, un tipo che sembra a posto e che, se sei arrivato al punto di non ritorno, sembra pure ispirare fiducia, o condiscendenza, o quella roba lì.
Lo cerco ma non lo trovo e continuo a muovermi come un fantasma, ciondolando e dribblando le altre facce da cazzo di spacciatori e pappa che, giuro, non ho mai mai visto e decido che mi butto sugli scalini accanto ai barboni, fottendomene del puzzo e del freddo.
Trovo un posticino quasi più isolato, piuttosto appartato dalla grande concentrazione subito sulla destra, e mi ci siedo circospetto. C’è un barbone a qualche metro di distanza da me, ma non sembra essersi accorto di un bel niente. Mentre un altro, una decina di metri davanti a me, mi osserva da sotto il berretto di lana tirato giù, fin sul naso, e ha un cane, proprio accanto a lui, che dorme apparentemente beato e che ogni tanto apre gli occhi e controlla la situazione.
Mi accovaccio e poi mi butto a peso morto sugli scalini e appoggio la testa al muro. Chiudo gli occhi un momento.
L’aria fredda della notte, dell’inverno, è meglio di qualunque dose. Apro la bocca, allargo le narici: lascio che entri, m’invada il corpo e mi stemperi il nervosismo.
Un paio di minuti così e rimango gelato, la bocca secca e gli occhi come due tizzoni.
Mi alzo in piedi e vado a cercare una sigaretta.
Meerda.
C’è un barbone grasso e con la faccia che è un concentrato ributtante di escoriazioni, ferite di vario genere e bubboni inguardabili, ma me ne accorgo solo quando mi avvicino per chiedergli una sigaretta. Mi ritraggo rapidamente, sperando che non sia troppo tardi.
Attraverso la strada e vado al bar della stazione, che è aperto.
Mi appoggio al bancone, guardo il barista.
Cinquecento lire mi bastano per un pacchetto?
Di sigarette?
Mm.
Quello rimane una manciata di secondi a guardarmi e non sa che dire, o meglio, vorrebbe dirmi un sacco di cose poco gentili, glielo leggo negli occhi, ma si trattiene non so perché, forse per riguardo a un uomo in giacca, cravatta e valigetta che sorseggia il suo caffè, solitario all’altro lato del bancone.
Senza attendere il responso del barista, ma con la sensazione che non ci avrei comunque guadagnato nulla, ad attendere, mi avvicino al travet e gli chiedo una sigaretta.
Quello sembra parecchio incazzato, ma me la dà lo stesso.
Meerda, cos’è che deve fare uno per una cazzo di sigaretta?!
Mi allontano da quelle persone e giro un paio di minuti senza sapere dove mettermi, quando in lontananza scorgo una sagoma che mi pare proprio quella del marocchino, e allora mi avvicino, colto da improvvisa gagliardia, e mi bastano una mezza dozzina di passetti maschi per arrivare alle spalle del tipo, tutto preso da una specie di discussione in arabo con uno che è la sua fotocopia identica, sputato.
Ehi.
Ah! Sei tu!
Eh, già…
Guarda il suo amico e dice qualcosa nella loro lingua. Metto la mano sul fuoco che parla di me, e da come sorride dice qualcosa di ridicolo, su di me.
Stessa roba di altra volta?, mi fa.
Annuisco, e guardo mentre s’infila una mano nella tasca larga della giacca a vento e… poi si gira, mi dà le spalle e non vedo più.
Faccio finta di guardare in alto - in realtà cerco di sbirciare da sopra le spalle - e fischietto qualcosa.
Si rigira e mi porge una bustina giallognola, bianco sporca.
Okay, gli dico. Grande.
Lui mi guarda. Giusto, vuole i suoi soldi.
Senti, bello… vedi, io sto un po’ a corto stasera… senti… se io, diciamo domani, in mattinata anche…
Tu soldi ora!
Bello, ti sto dicendo che te li do domani. Ora non c’ho una lira, lo giuro!
Controlla se vuoi!, ribadisco e mi giro facendogli sentire le tasche della giacca vuote, così come quelle dei pantaloni.
L’amico lo tira per un braccio e gli dice una cosa in quella cazzo di lingua e io spero veramente che non lo stia convincendo a riprendersi la roba, perché meerda, ne ho davvero bisogno.
Okay! Domani mattina!
Eh? Cosa? Davvero… grande!, per poco non urlo.
Gli stringo la mano felice come una pasqua e quasi lo abbraccio, poi mi volto e faccio una specie di inchino all’amico che mi ricambia ridacchiando.
Me ne vado verso casa già pregustandomi la botta in arrivo e mi dico cazzo, bello, palle ferme! Se quel marocchino del cazzo domattina non ha in mano i suoi soldi, capace che ti scatena addosso la mafia marocchina, ah ah ah, e mi piscio sotto dal ridere al solo pensiero. Chi cazzo se ne frega, venderò l’anello di mamma al banco dei pegni e problema risolto. Fanculo.

… mi scuoto le tasche ma non trovo le cazzo di chiavi dell’appartamento, meerda, e spero proprio che siano rimaste al locale e che non mi siano cascate strada facendo, meerda.
La porta è aperta.
Cazzo, bello, stasera è la tua sera!, e come un brividino di eccitazione mi risale lungo la schiena, scuotendomi la nuca e per poco la bustina non mi finisce per terra.
Accendo la luce e meerda, hanno tagliato la corrente, questa proprio non ci voleva.
Cammino sbilenco tendendo le mani un po’ avanti, un po’ lateralmente, arpionando il muro freddo e cercando di trascinarmi fino in camera da letto, dov’è che stanno le candele.
Arrivo in camera da letto - però il letto c’è solo di nome, trattandosi in realtà soltanto di un materasso, be’, di un materasso stravecchio, macchiato di piscio, vomito, sperma e chissà cos’altro. E un plaid puzzolente di naftalina buttato sopra. Fortuna che è buio e non ho nessun ospite. Meerda.
Sopra il comodino trovo una candela già più volte mangiucchiata dal fuoco, l’afferro e… ora mi servono dei fiammiferi.
Fiammiferi, fiammiferi… dove l’ho messi i fiammiferi??… fiammiferi, fiammiferi…, canticchio a mezza voce.
Si capisce, per caso, che sono al settimo cielo?
Eccoli! Sul tavolo in cucina, accanto al fornello.
Ne tiro fuori uno e l’accendo con violenza, forse troppa, e la capocchia si spezza. Ne prendo un altro e stavolta sto più attento.
Appiccio la candela e mi porto nel salone, che è contiguo sia alla camera da letto che alla cucina e che non è, in pratica, un vero salone. Mi metto accanto al televisore, poggiato per terra, apro un paio di cassetti e tiro fuori il mio kit salva vita preferito.
Siringhe un po’ troppo usate, lacci emostatici che dal giallognolo virano al verdognolo, batuffoli di cotone simili a banchi di nuvole.
La salvezza in un cassetto.
Mi prende quel nervoso che mi prende sempre prima di un buco e che mi rende sì più elettrico, ma anche più pronto e più efficiente.
Bah.
Mi tolgo la giacca, senza badare a dove finisce.
Mi tiro su la manica della maglietta, anche se è solo una maglietta a maniche corte e quindi non ce ne sarebbe veramente bisogno, ma non importa perché mi fa sentire comunque più sicuro, mi sento che sto facendo bene il mio lavoro.
Prendo la siringa.
Scelgo un ago sottile e la poso per bene sopra il televisore.
Cucchiaino semi-bruciacchiato.
C’è.
Fiammifero.
C’è, ma la fiamma si spegne subito e cerco un…
Accendino.
Okay.
La mia bella polverina.
Eccola qui.
Tutto liscio come l’olio, ah ah ah, meerda.
Siringa, ago sottile, e…
E inizia la via crucis.
Sarà già almeno… mm… almeno tre o quattro volte, gli ultimi tempi insomma, sono arrivato a siringarmi sette, otto, fino a dieci volte prima di trovare una vena che faccia al caso mio.
Stasera non va diversamente dalle altre.
All’ottavo buco nell’acqua, opto per il dorso delle mani, che sono già tutte schifosamente gonfie e pallide e mi fanno venire una grande, profonda tristezza, ma mi basta il tempo di infilarci l’ago che tutte quelle sensazioni, le emozioni, i pensieri sparsi che ogni giorno mi turbano e mi confondono si scaricano nel grande cesso dell’ero e per un momento - per il lunghissimo momento in cui si spande l’effetto - mi sento un miracolato, meerda, un cazzo di miracolato, ah ah ah!

… sono attimi in cui ho il diavolo in corpo e in cui quello che mi viene meglio di fare è tendere le labbra in un sorriso al buio anonimo dell’appartamento. In cui solo la sigaretta è una degna compagna, e il fumo che dalla sua punta vola via, quella è la sua voce, il suo canto caldo, avvolgente e io, il suo unico ascoltatore.
Oppure…
… non può essere che questa sigaretta è la mia vita, no? Sarei matto a pensarlo. Solo se fossi un matto penserei che la mia vita si può benissimo paragonare a questa fottuta sigaretta industriale, con miliardi di fratelli e sorelle, tutti uguali, tutti ugualmente condannati a bruciare, lentamente, succhiati e spremuti fino all’osso, e a morire.
Solo cenere.
A volte, neanche quello.
Esatto: la solita folata di vento che ti prende e ti porta via e se ne frega se dici no o anche se dici sì. Ti prende e basta. E ti porta via.
Eppure, è proprio lì che capisci che sei morto. Che lo sei sempre stato. A quel punto ti rendi conto che la tua vita l’hai scaricata giù per il cesso, che delle migliaia di possibilità che avevi per far diventare la tua vita qualcosa, qualunque cosa, invece, non ne hai fatto niente. Niente di niente.
E sai che è così, mica puoi voltare le spalle e fare finta di niente.
Lo sai, lo devi ammettere e devi essere pronto a tutto. Perché questo è il momento… questo è il momento in cui tutto quel cazzo di nulla che ha riempito le tue giornate da vivo, tutto quell’affaccendarsi da mattina a sera, quell’urlare, quel rincorrersi di pensieri, emozioni e persone, tutto questo ti dovrà servire per scegliere; per decidere, una buona volta, dove cazzo devi andare.
Se vorrai essere vomitato in una pozza di merda, prego, eccoti servito: quella è la tua strada.
Ma se invece lo senti, e già pregusti in bocca il gusto delle squisitezze, il profumo di virtù, dell’alto dei cieli, la via è quella lì, vai pure…
Attanagliato dal terrore, immobile come un cristo sul crocifisso, non oserai neanche aprire bocca.
Nemmeno un sibilo.
Sarà così.
Non riuscirai a fare niente, perché avrai capito che non c’è verso di fare la scelta giusta, che non c’è modo di salvare baracca e burattini e che, meerda, tutto quel divertimento, quell’orrore, quella fatica e quell’amore che erano il centro del tuo universo come individuo non sono più niente, sono solo ricordi mangiati dalla memoria, distorti da altre esperienze, inghiottiti in quel mare placido che è ormai il tuo corpo senza vita, che già si stava preparando, che già sapeva di dover affrontare un giorno questo vuoto, questa morte senza dignità, questa merda.
Allora, non avrai più tempo di pensare.
Non avrai più tempo di pregare.
Non avrai più tempo di chiedere perdono, di elemosinarlo, il perdono; non potrai più ridere, non potrai incazzarti, scopare, annoiarti, drogarti e spezzarti la schiena per che cosa, alla fine?
Dovrai solo star lì fermo, buono e zitto, e fare il morto.
Sarà come una vacanza.
Quante volte, d’altronde, hai cercato di farti una vacanza da questa vita? Quante volte hai pagato, hai poi fumato e inalato, quante volte ti sei siringato, solo per prenderti una vacanza, una vacanza di qualche istante, da questa vita, da questi pensieri, da questa merda che fagocita indistintamente re e giullari?
Quante volte l’hai desiderato?
Ti potrai considerare accontentato, ora.
Potrei dire ce l’ho fatta, alla fine: ciò che dispettosamente solleticavi ad ogni buco, quello che non avevi le palle di chiamare ad alta voce.
Eccolo qui. È arrivato, e quasi neanche te ne accorgevi, tant’è stato lesto e inaspettato.
Arriva in un momento qualunque, un momento uguale a tutti quanti gli altri momenti che finora hai mediocremente vissuto.
Arriva e puff, tutto smette.
Con questa prospettiva, che senso ha fare qualunque cosa?
Con questa prospettiva, tanto vale finirla subito.
Nulla importa più, no? Nulla ha più un valore e tutto è indefinito.
E se già questa situazione ti tormentava in vita, da morto lo farà ancor di più.
Sempre ammesso che potrai sentire qualcosa.
Quindi, fa niente se Abdul e Alì scostano delicatamente la porta e si aggirano quatti per l’appartamento. Fa niente se, magari, decidono di fregarsi il tuo televisore. Fa niente se, sempre molto delicatamente, ti frugano nelle tasche e ti scuotono fino all’ultimo centesimo.
Tutto questo non avrà importanza perché tu starai esalando il tuo ultimo respiro del cazzo.
Il battito del cuore starà decelerando e le prime ombre di quell’anticamera della morte che è il coma si staranno profilando di fronte ai tuoi occhi e tu non potrai dire un cazzo di niente, ah ah ah, perché lo sai com’è no? ‘sta roba non guarda in faccia nessuno, e tantomeno te che sei l’ultimo degli stronzi.
Il tempo per sorridere, quello sì.
Il tempo per prendere le misure del nulla con cui ti dovrai confrontare per mm… l’eternità, quello sì; ma non ti preoccupare, voglio dire: non starci troppo a pensare, è un problema minore.
Ora rilassati e lascia che il respiro si smorzi, che il cuore cessi di pompare e la stanza di vorticare.
Rilassati e non pensare.
Rilassati, alla fine, cosa vuoi che sia morire?
Quando arriverà non te ne accorgerai nemmeno, perciò concentrati su un pensiero e fallo tuo, non mollarlo mai e tienilo fino a quando non te lo strapperanno via… ma già sai che sarà impossibile… già sai che questo sforzo non vale la pena, che è inutile focalizzarne uno perché la tua mente sarà un turbinio, un grande muro bianco su cui schizzeranno le macchie, i frammenti, le immagini della tua vita e non avrai più nulla di tutto questo, non avrai più neppure il tempo di sentirti felice o triste, vedendole, non avrai neanche più la forza per mantenerlo, quel tuo sorriso forzato e implorerai che il primo che ti trovi, il primo che scoverà il tuo cadavere, non inorridisca vedendo quella tua stronzissima smorfia sputata sulla tua stronzissima bocca e non la consideri ridicola, per l’amor di dio, che non la trovi ridicola, che il primo sentimento che possa vomitare dalla pancia non sia il riflesso ridicolo di quel viso morto, perché quel ridicolo, quel sorriso ridicolo, sarà la tua ultima immagine per i vivi, il tuo lascito involontario anche se, in fin dei conti, capisci che come lascito è il più giusto, il più adatto, quello che veramente dice qualcosa di te e della vita che hai deciso di bruciarti fra le mani e che, finito anche questo gioco, va davvero bene così e forse è ora di riderci su.

(...)

 

 

Rùmi non studia, non lavora, non guarda la tivù, non va al cinema, non fa sport.
è figlio di padre poverissimo e madre ricchissima e quindi bipolare, difatti Io sto bene è per metà allegro e per metà triste. Essendo figlio di madre ricchissima, Rùmi è molto snob. Essendo figlio di padre poverissimo, è anche un arrivista. Bivacca ai margini del vivere civile e dorme poeticamente “nello scheletro del tempo che passa e mentre passa muore”: per questo motivo Rùmi ha sempre giurato a se stesso che in realtà lui non esiste. O meglio, che forse esisterà solo fin che avrà parole da scrivere, da urlare, da piangere e con cui soffocare. E tuttavia, nessuno provi a dirgli che è soltanto un povero utopista,
potrebbe montarsi la testa.

Io sto bene è il suo primo libro. Prima di essere pubblicato, aveva riscosso un enorme successo come fermacarte, poggiapiedi da salotto e, in forma tritata, come lettiera per gatti. Inoltre, nessuno dei due lettori dell’opera si era mai accorto che essa è un palese plagio dal fumetto Zora la Vampira, dal Manuale di Sopravvivenza Urbana e da diversi titoli della serie di Emmanuelle.