|
Brano tratto da "Bet è cattiva"
LISTA DELLE MIE FOBIE:
le api
i calabroni
i vermi
i ragni violino
le cavallette
gli squali
le caccole dei bambini
vedere la cacca.
Allora: si addentrava nel bosco, dove i rami si facevano sempre più
fitti e il rumore spariva. Il buio era più buio, i pini giganti
e i cipressi sembravano fantasmi dai lunghi cappelli da stregone. Il bosco
alle 6 del pomeriggio si poteva confondere con lo stesso a mezzanotte.
Solo i rumori cambiavano, quando il sole appena appena tramontava nessun
rondone si sentiva, o strisciare di lucertolone, o il gracidare di animali
nascosti fra gli alberi, con quel loro modo di urlare continuo senza prender
respiro. Ma di notte allora, di notte cambiava tutto, l'abbaiare del cane
randagio, il soffiare di un felino selvatico mentre intrappolava un topo,
la volpe che saltava per dare un morso a una zampa nera lasciata lì
abbandonata e lei velocipede se l'agguantava come trofeo d'un piccolo
assaggio e scappar via nell'oscurità. I gufi, le civette, le gazzeladre
che non cessavano neanche per un secondo di cantare all'unisono, neanche
per cambiar direttore d'orchestra in direzione del vento. La civetta sembrava
facesse un imponente sorriso come in posa per lo scatto della fotografia
di famiglia, invece non gliene importava niente, era un poco austera e
tirava indietro la testa e il grosso becco aguzzo. Sempre con gli occhi
sparati a palla. Vicino al suo gufo si sentiva più al sicuro e
guai a chi glielo toccava. Nelle ombre ad ombrello lungo tutto il perimetro,
fin dove lo sguardo poteva arrivare e ancora più in là.
C'era un rumore denso di brucare nel sottosuolo. Come le cavallette giganti,
i grilli, che se ne stavano avvinghiati ai tronchi, a gracchiare nel vento
caldo, come misteriosi insetti non da tutti visibili. Emettevano dei trilli
più accesi per spaventare gli altri maschi nella comunicazione
fra insetti col canto raschiato.
Il bosco di Monnalisa era nel sud di quell'Italia ancora aggrappata alle
vecchie abitudini, dove l'avanzare dell'era della tecnologia, del consumismo
sfrenato, del "compro questa cosa di plastica ora-la rompo-si butta
domani", non sembrava aver attecchito. Dove si usava camminar ancora
con le stesse vecchie scarpe aggiustate dal calzolaio del paese. I vestiti
con gli orli cuciti a mano dalle nonne per i bambini nei vicoli, i padroncini
del quartiere; bambini figli di tutti, pieni di polvere, giocavano per
strada da mattina a sera, abbandonati in discese ove era raro vedere passare
automobili. Gruppi di bulli dai 4 anni fino agli 11 anni mischiati assieme.
Mentre quello più grande insegnava a quello di 4 come ci si deve
piegare alla legge del più forte. A volte, ma solo a volte, quello
più piccolo dimostrava una certa aggressività, propensione
verso la ribellione. E si difendeva bene con quello che poteva, a forza
di parolacce, mosse volgari, sputi, spinte.
Allora, nel bosco di Monnalisa, nell'imbrunire, si stava addentrando un
micino di un mese e mezzo circa, tutto spennacchiato e sporco. Era incuriosito
dal rumore delle foglie secche sotto ogni suo passetto. Più scricchiolavano,
più a piccole dosi di saltelli si incamminava nel buio. Nel saltellare
si perse nel boschetto dei Carpini Bianchi dal tronco chiaro. Resistenti
e altissimi alberi centenari, coi rami che si aggrovigliavano come mani
di streghe con unghie colorate e annodate fra loro. I tronchi attorcigliati
su se stessi gli facevano venire un'irresistibile desiderio di far arrampicate.
Però non duravano che poco più di 10 centimetri dal fogliame
da terra. Prendeva una rincorsa e come un singhiozzo saltava su e si spiaccicava
sulla corteccia con quelle minuscole zampine come fossero ventose di gechi.
Niente da fare, cascava giù. Allora per non perdere l'irrequieto
orgoglio, si sfregava le unghiette affilate.
Uno scricciolo tigrato grigio scuro dalle orecchie dritte e grandi, con
gli occhi blu ancora acquosi del latte materno. I cinque sensi ben visibili
sulla stessa lunghezza d'onda, e il sesto senso dei baffi era così
in allerta che ci inciampava su per quanto si allungavano.
La piccola palla di pelo non si capiva se fosse maschio o femmina, perché
aveva sì e no preso a vivere da poco più un mese a quella
parte. Più che altro era un leoncino di dimensioni ridotte, ogni
tanto cercava di emettere il suo ruggito, ma non gli usciva voce, come
se non avesse abbastanza fiato. Zampettava su foglie secche elettrizzandosi
al rumore del CRONC, come noi bambini. La codina secca all'insù
era più scura del poco pelo della pancia di 3 cm. Era grigia con
strisce che andavano sul color ruggine. Appuntita come chiodo di garofano
e drizzata, senza sosta, come fanno i serpenti a sonagli con l'ultimo
pennacchio di coda, per captare segnali amici o segnali nemici.
Il gruppetto di bambini lasciati allo sbando, giocava proprio lì
nelle vicinanze, urlavano, davano calci ad una palla imbastita con vecchie
pezze di stoffa, e se ne davano di santa ragione. Michelino si addentrò
un po' di più nel boschetto, cercando di attirare l'attenzione
degli altri. Fischiava e si nascondeva. Sparì di colpo nel buio.
Quelli più grandi non se ne curavano minimamente, ormai erano le
8 di sera, quasi l'ora di tornare a casa per cenare. Se ne andarono correndo
e passandosi la palla di stracci da un marciapiede all'altro, tanto che
fra un po' fecero scivolare un signore in bici che passava di lì.
Invece i più piccoli, di 6 e 5 anni decisero di cercare il loro
amico.
Andarono dritti e sicuri dentro il bosco.
(...)
|
|