temalibero
   
 

 


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titolo: "
Bet è cattiva"
collana
temalibero
autore: Marianna Galotto
ISBN 978-88-32124-53-8
€ 14,00 - © 2024


Nell'entroterra di una non precisata zona rurale dell'Italia del Sud, si sviluppa la narrazione in prima persona di Laila, una ragazzina incuriosita dalla realtà circostante e perennemente alle prese con le dipanature dello scibile di un'umanità spesso incattivita per necessità, noia o disperata sopravvivenza. Una descrizione iperdialogata, satura dei colori e delle tonalità soleggiate tipiche di certi posti testimoni di un retaggio ancora ben ancorato a certe "leggi della natura". Da qui l'incontro con Bet, una gattina che sembra rappresentare il senso selvaggio del luogo.


 
 
 


Brano tratto da "Bet è cattiva"


LISTA DELLE MIE FOBIE:

le api
i calabroni
i vermi
i ragni violino
le cavallette
gli squali
le caccole dei bambini
vedere la cacca.
Allora: si addentrava nel bosco, dove i rami si facevano sempre più fitti e il rumore spariva. Il buio era più buio, i pini giganti e i cipressi sembravano fantasmi dai lunghi cappelli da stregone. Il bosco alle 6 del pomeriggio si poteva confondere con lo stesso a mezzanotte. Solo i rumori cambiavano, quando il sole appena appena tramontava nessun rondone si sentiva, o strisciare di lucertolone, o il gracidare di animali nascosti fra gli alberi, con quel loro modo di urlare continuo senza prender respiro. Ma di notte allora, di notte cambiava tutto, l'abbaiare del cane randagio, il soffiare di un felino selvatico mentre intrappolava un topo, la volpe che saltava per dare un morso a una zampa nera lasciata lì abbandonata e lei velocipede se l'agguantava come trofeo d'un piccolo assaggio e scappar via nell'oscurità. I gufi, le civette, le gazzeladre che non cessavano neanche per un secondo di cantare all'unisono, neanche per cambiar direttore d'orchestra in direzione del vento. La civetta sembrava facesse un imponente sorriso come in posa per lo scatto della fotografia di famiglia, invece non gliene importava niente, era un poco austera e tirava indietro la testa e il grosso becco aguzzo. Sempre con gli occhi sparati a palla. Vicino al suo gufo si sentiva più al sicuro e guai a chi glielo toccava. Nelle ombre ad ombrello lungo tutto il perimetro, fin dove lo sguardo poteva arrivare e ancora più in là. C'era un rumore denso di brucare nel sottosuolo. Come le cavallette giganti, i grilli, che se ne stavano avvinghiati ai tronchi, a gracchiare nel vento caldo, come misteriosi insetti non da tutti visibili. Emettevano dei trilli più accesi per spaventare gli altri maschi nella comunicazione fra insetti col canto raschiato.
Il bosco di Monnalisa era nel sud di quell'Italia ancora aggrappata alle vecchie abitudini, dove l'avanzare dell'era della tecnologia, del consumismo sfrenato, del "compro questa cosa di plastica ora-la rompo-si butta domani", non sembrava aver attecchito. Dove si usava camminar ancora con le stesse vecchie scarpe aggiustate dal calzolaio del paese. I vestiti con gli orli cuciti a mano dalle nonne per i bambini nei vicoli, i padroncini del quartiere; bambini figli di tutti, pieni di polvere, giocavano per strada da mattina a sera, abbandonati in discese ove era raro vedere passare automobili. Gruppi di bulli dai 4 anni fino agli 11 anni mischiati assieme. Mentre quello più grande insegnava a quello di 4 come ci si deve piegare alla legge del più forte. A volte, ma solo a volte, quello più piccolo dimostrava una certa aggressività, propensione verso la ribellione. E si difendeva bene con quello che poteva, a forza di parolacce, mosse volgari, sputi, spinte.
Allora, nel bosco di Monnalisa, nell'imbrunire, si stava addentrando un micino di un mese e mezzo circa, tutto spennacchiato e sporco. Era incuriosito dal rumore delle foglie secche sotto ogni suo passetto. Più scricchiolavano, più a piccole dosi di saltelli si incamminava nel buio. Nel saltellare si perse nel boschetto dei Carpini Bianchi dal tronco chiaro. Resistenti e altissimi alberi centenari, coi rami che si aggrovigliavano come mani di streghe con unghie colorate e annodate fra loro. I tronchi attorcigliati su se stessi gli facevano venire un'irresistibile desiderio di far arrampicate. Però non duravano che poco più di 10 centimetri dal fogliame da terra. Prendeva una rincorsa e come un singhiozzo saltava su e si spiaccicava sulla corteccia con quelle minuscole zampine come fossero ventose di gechi. Niente da fare, cascava giù. Allora per non perdere l'irrequieto orgoglio, si sfregava le unghiette affilate.
Uno scricciolo tigrato grigio scuro dalle orecchie dritte e grandi, con gli occhi blu ancora acquosi del latte materno. I cinque sensi ben visibili sulla stessa lunghezza d'onda, e il sesto senso dei baffi era così in allerta che ci inciampava su per quanto si allungavano.
La piccola palla di pelo non si capiva se fosse maschio o femmina, perché aveva sì e no preso a vivere da poco più un mese a quella parte. Più che altro era un leoncino di dimensioni ridotte, ogni tanto cercava di emettere il suo ruggito, ma non gli usciva voce, come se non avesse abbastanza fiato. Zampettava su foglie secche elettrizzandosi al rumore del CRONC, come noi bambini. La codina secca all'insù era più scura del poco pelo della pancia di 3 cm. Era grigia con strisce che andavano sul color ruggine. Appuntita come chiodo di garofano e drizzata, senza sosta, come fanno i serpenti a sonagli con l'ultimo pennacchio di coda, per captare segnali amici o segnali nemici.
Il gruppetto di bambini lasciati allo sbando, giocava proprio lì nelle vicinanze, urlavano, davano calci ad una palla imbastita con vecchie pezze di stoffa, e se ne davano di santa ragione. Michelino si addentrò un po' di più nel boschetto, cercando di attirare l'attenzione degli altri. Fischiava e si nascondeva. Sparì di colpo nel buio. Quelli più grandi non se ne curavano minimamente, ormai erano le 8 di sera, quasi l'ora di tornare a casa per cenare. Se ne andarono correndo e passandosi la palla di stracci da un marciapiede all'altro, tanto che fra un po' fecero scivolare un signore in bici che passava di lì. Invece i più piccoli, di 6 e 5 anni decisero di cercare il loro amico.
Andarono dritti e sicuri dentro il bosco.

(...)



 

Marianna Galotto
è nata nel 1975 a Firenze, dove ancora vive. Ha frequentato il Liceo Artistico diplomandosi nel ’96. Ha sempre esplorato il modo figurativo esprimendosi in quadri a gessetto o tempera. Nei primi anni 2000 ha lavorato nell’ambito dell’accoglienza presso vari musei, Uffizi, Palazzo Pitti, Duomo, Villa Bardini, Palazzo Strozzi. Nel 2011 sposa un egiziano e per un anno si trasferisce in Mansoura, dove apprenderà molto sulla cultura e tradizione arabo-musulmana, facendosi anche ispirare da quei colori azzurrini delle pareti, dai salotti rosa, dai tappeti, dall’aria che si respirava. Nel 2012 nasce sua figlia Laila.

Non ha mai smesso di creare storie.
Questo è il suo primo libro.