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Brani
tratti da RITRATTO
DI SONNA DISTRATTA
Uno
... Ciao
per anni la tua immagine è arrivata a me attraverso uno
specchio dacqua: rifratta, distorta, ingigantita.
Ora che anche lultima goccia dacqua si è asciugata,
quel piccolo essere rimasto sul fondo si mostra per quello che è:
tanto più minuscolo quanto più si agita per farsi notare
Ciao!
Cè sempre stata lacqua, in ogni nostro incontro.
Lacqua del fiume, ad esempio, nelle nostre passeggiate sul lungosenna.
Parigi allora era davvero bella, con la Tour Eiffel sullo sfondo di ogni
scena, in bianco e nero, tu che mi guardavi controluce, ridendo, quel
tuo sorriso aperto, gli occhi lucidi di gioia in primo piano. O lacqua
della pioggia quando ci riparammo - ricordi? - sotto la tenda di quel
negozio, gocciolanti, a sghignazzare riflessi sulla vetrina. Era sera.
E lacqua che ti rovesciai addosso al primo appuntamento? Avevo scontrato
sbadatamente la bottiglia sul tavolo del Café, bagnandoti tutta.
Più tardi levasti disinvolta la camicia e intravidi i tuoi capezzoli
sfrontati attraverso la seta chiara: sembrava una farsa. O lacqua
che mi tirasti addosso tu allultimo incontro, un bicchiere di acqua
fredda in faccia - mi fece male - non perché era fredda, mi fece
male il bicchiere.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, come si suol dire. Che espressione!
Di tragica banalità. A volte penso come sarebbe bello mettere delle
dighe a certe nostre fasi della vita ma poi penso: un lago, noi?
Naah! - ricordi? - Dicevi proprio così. Non no o ahh,
tu fondevi entrambe le parole in ununica sillaba prolungata
Cè sempre un portatore dacqua in ogni coppia, mentre
laltro corre felice, sapendo che ad ogni sosta cè chi
è pronto a dissetarlo.
Lacqua, sempre lacqua. Quante immagini con lacqua, talmente
condivise da non sembrare più nemmeno nostre. Forse per questo
più sopportabili.
Già.
Come lacqua della pozzanghera che la ruota di quellauto ci
schizzò addosso appena usciti di casa, vestiti di tutto punto,
io con tight e cilindro e tu in abito bianco. Bellissima scena. Lì,
inzaccherati, ci sentimmo veramente ridicoli, uguali identici alle statuine
sulla torta di nozze. Era un trucco. Un formidabile effetto! Noi e le
statuine, sovrapposti. Ma, anziché sopra una montagna di panna,
eravamo giunti alla sommità del baratro, pronti a sprofondare ognuno
da una parte diversa.
Per non vederci mai più.
Per anni ho creduto che questo fosse il motivo della tua fuga: lincomprensione.
Come potevo sapere io che era tutto finito?
Lindomani mi presentai allappuntamento ma non ceri.
Nessuno, cera.
Soltanto alcune bottiglie dacqua sul tavolo, come una scena smantellata
in fretta, ecco fatto, attori svaniti, luci spente.
Un giorno, tanti anni dopo, una mattina rarefatta, una mattina di sole
in cui si scorge sulla linea dellorizzonte il profilo evanescente
di qualche montagna, mi pare di averti incontrata.
Tu, appesa ai tiranti della tua nuova vita, e io altrettanto, sul lato
opposto del marciapiede, talmente aggrappati alle nostre abitudini da
non riuscire nemmeno ad attraversare la strada.
Ti ho vista. Eri tu. Almeno credo. Anche tu, mi è sembrato, mi
hai notato. Ma è stato un attimo. Poi sei sparita, convogliata
dal flusso delle persone nella scalinata buia della metropolitana, come
se la terra ti avesse inghiottita.
Allora, ricordo, ho guardato lorologio al fondo della strada, lorologio
incastonato nella facciata austera della stazione ferroviaria, sulla torre
de la Gare de Lyon, quellorologio enorme, liberty, con le lancette
floreali e i numeri romani, quellorologio rotondo e un po
rétro.
Ricordo che segnava le tre.
Ma era fermo da sempre.
New
York, 1997. Tre persone sedute al tavolo di un ristorante: due uomini,
e una donna. Gli uomini si chiamano Steven e Robert. Sono entrambi giocatori
di dama, o meglio, campioni. Da anni si alternano al vertice della classifica
mondiale. Al loro fianco la donna. Il suo nome è Iris. Fuori piove.
Anzi, diluvia.
Chi riuscirà a conquistare il cuore di Iris?
Il tavolo è una scacchiera immaginaria.
Steven adesso tace.
Mastica lentamente un boccone di cibo. Ha iniziato il suo racconto dalla
fine. Dalle ultime frasi pronunciate da Candrace prima di morire. Una
bella mossa. È così che vuole cominciare la sua partita.
Con questa storia struggente.
Robert lo guarda compiaciuto. Forse si aspettava un tale inizio di partita.
Non forse. Sicuramente. Sanno tutti e due che la gara si disputerà
con pedine inconsuete: le parole. Il racconto migliore
quello scioglierà
il cuore di Iris. Ognuno di loro avrà a disposizione un certo numero
di emozioni. Facciamo dieci? Dieci. Stretta di mano.
Ora Steven è in silenzio. Aspetta. Attende che Iris lo preghi di
continuare. Ha addentato uno stuzzichino. Lo assapora, morbidamente.
Ogni tanto s interrompe e le getta uno sguardo.
Dintanto.
Due
New York, 1997
(mezzora prima)
Piove
incessantemente da tre settimane sopra New York.
Le strade sono intasate e i tombini anche. Lacqua sgorga dai condotti
fognari, dalle tubature rotte, dai monconi dei pluviali divelti dal vento.
Pioggia che cade dal cielo e zampilla dalle strade. Acqua sopra e acqua
sotto. Potrebbe sembrare uno spettacolo seicentesco, una gigantesca Versailles
improvvisata dallamministrazione comunale, se non fosse che siamo
alla fine del Ventesimo secolo e di spettacolare in questo nubifragio
cè ben poco. A tratti manca lenergia elettrica e lacqua
spruzza ovunque senza alcuna sincronia.
Allora il fermento idrico diventa invisibile, se ne sente solo il fragore,
il sibilo, lo scroscio.
Spaventevole.
Il maltempo concede solo alcuni imprevedibili attimi di tregua. Pochi
minuti, tra una burrasca e laltra, sufficienti per attraversare
la strada e trovare riparo dentro un portone o allinterno di un
locale. Robert e Iris ne approfittano per uscire dalla mostra di quadri.
Una corsa e ricomincia a diluviare. Si ficcano dentro un ristorante. Cinese.
Levandosi il soprabito inzuppato, Robert esclama: - Che tempaccio!
- Plego - sorride il cameriere indicando loro un tavolo. Oggi, grazie
al temporale, ha servito almeno venti portate in più.
Prendono posto. Iris estrae dalla borsa un piccolo specchio e si sistema
i capelli.
- Lavresti detto che finiva così?
- Hanno dato pioggia, ma questo è un vero diluvio. Comunque, grazie
per avermi portato alla mostra. Come si chiamava lartista?
Ha già scordato il nome. Fa sempre così. Per lei conta lavvenimento
mondano, qualunque cosa sia. Conserva ancora il depliant nella borsa.
Lo cerca mentre Robert le risponde.
- Candrace. E si pronuncia proprio come si scrive. Aveva origini italiane,
abruzzesi, forse.
- Ah, sì! È vero. Bravo.
Il cameriere porta lacqua e qualche stuzzichino.
Rumore di tuoni e suoni di clacson nella strada.
Robert si serve per primo.
Iris lo rimprovera con lo sguardo.
- Fame?
- Uhm
- risponde ingozzandosi. - Serviti, è buono.
Lei prende qualcosa, mordicchiandolo appena.
Il loro tavolo è di fronte alla vetrina. Fuori sta scoppiando di
nuovo il finimondo. Lacqua batte sui vetri, un rumore sordo e a
tratti fastidioso.
Sotto la tenda del ristorante un uomo trova riparo.
È sulla quarantina. Alto, magro, leggermente stempiato, con il
viso simpatico.
Vedendolo Robert esclama: - Ehi! Ma quello è Steven.
Lultima volta che ha visto Steven è stata a Dublino, nella
finale per il titolo europeo. Ma è trascorso oltre un anno.
- Steven! - urla inutilmente.
Iris lo compatisce con lo sguardo.
Robert allora bussa sul cristallo.
Steven si volta, riconosce lamico. Sorride, sorpreso.
Una pantomima con il vetro in mezzo.
Robert, agitando le mani: - Dai, entra!
Steven, indicando lorologio al polso: - Meglio di no. È tardi.
Robert, lasciando cadere le braccia sui fianchi, con espressione delusa:
- E su, non farti pregare!
Iris ferma, sbigottita a guardare lo spettacolo triste dei due mimi improvvisati,
di cui uno è il suo attuale compagno. Un desiderio irrefrenabile
di scomparire. Dai tavoli vicini alcune toccatine di gomito e qualche
sorriso mal trattenuto.
Alla fine Steven entra. I suoi vestiti sono molto bagnati, le scarpe inzaccherate,
la faccia stanca. Avrebbe fatto volentieri a meno di quellinvito.
Avrebbe preferito correre a casa e farsi un bagno caldo.
Comunque si siede.
Robert lo presenta alla sua compagna.
- Steven, questa è Iris. Iris, lui è Steven.
Stretta di mano.
- Come mai da queste parti? - domanda Robert allamico.
- Sono qui per la maratona.
- La maratona? Tu?
Steven non accoglie con piacere questa ironia gratuita. Perché
mai gli amici si permettono certe confidenze?
- Ho smesso di fumare - risponde infastidito. - Per farlo mi sono messo
a correre. Adesso non riesco più a smettere
di correre, intendo.
Robert sembra soddisfatto della risposta. Poi si rivolge a Iris.
- Ti ho mai parlato di Steven? Sicuramente lo conoscerai. È il
miglior giocatore di dama al mondo
dopo me, ovviamente.
Iris abbozza un sorriso. Sì, li conosce entrambi.
Come non potrebbe? Da anni si alternano ai vertici della classifica mondiale.
O è primo uno o è primo laltro. Da quasi due lustri.
La televisione più volte ha mandato in onda servizi e notizie al
telegiornale. Eppure, nonostante la rivalità, sono amici.
Robert è a New York per una contemporanea dimostrativa. Cinquanta
sfidanti, tutti di età inferiore ai quindici anni, promesse della
dama, campioni in erba. La competizione si svolgerà domani, alla
presenza di Richard Harrison della televisione. Robert ha già concesso
unintervista e le telecamere riprenderanno la gara in diretta. Ma
è per un altro motivo che Robert elogia il suo amico a Iris.
- È lui che mi ha fatto conoscere la storia di Candrace.
Alcuni fulmini squarciano il cielo. La notte è calata allimprovviso.
Robert è a New York da tre settimane e non ha mai smesso di piovere.
Un pensiero fulmineo lo fa riflettere sul fatto che il suo soggiorno coincide
con il temporale. Tre settimane di interminabili piogge. Ma anche la relazione
con Iris ha la stessa durata. Ha incontrato Iris a una cerimonia svoltasi
in suo onore, per il raduno internazionale dei circoli di dama. Iris è
unindustriale. Del ramo giocattoli. Produce giochi di società.
Voleva saperne di più sulla dama, fa parte del suo mestiere informarsi,
dopotutto. Così sono finiti a cena e poi a letto.
Robert si sente soddisfatto del suo comportamento. Durante il primo approccio,
per la verità molto breve, è stato in gamba con lei. Ha
sempre omesso di parlare di sé, come tutti i grandi; ogni tanto,
se glielo chiedevano, firmava autografi. Iris si è lasciata affascinare
da tanta popolarità. Ora stanno insieme. Come una coppia di veri
fidanzati, se fidanzamento si può definire una relazione così.
- Dai, Steven, raccontala anche a Iris la vera storia di Candrace. Così
come lhai raccontata a me.
Steven si fa un po pregare. Guarda Robert.
Gira gli occhi verso Iris. Gli pare curiosa. Ma di fronte a quello sguardo
insistente ha abbassato gli occhi.
Occhi scuri.
- Davvero ti va di ascoltarla? - chiede a un certo punto, rivolto esclusivamente
a lei.
Iris mormora un sì.
In effetti Steven fa un po il prezioso. È consapevole che
il suo sarà un bel racconto.
- Beh, se proprio insistete
Così Steven ha iniziato la sua esposizione, dalla fine. Dallultima
cosa che il grande Candrace ha detto. O che si narra abbia detto. Ha raccontato
la storia dellacqua, o forse, meglio, quella che è diventata
nota come la storia scritta sullacqua a rappresentare
un rapporto instabile, provvisorio, destinato ad affogare.
- Tieni bene a mente - precisa rivolto a Iris - il particolare dellorologio
della stazione. Perché proprio lì Candrace ha incontrato
la donna che ha cambiato la sua vita. Un giorno qualunque del secolo scorso,
allalba del Novecento. Un pomeriggio in cui quellorologio,
che al tempo funzionava ancora, segnava le tre. Ricordatene, ti prego
- sussurra a Iris - è importante.
Poi mastica ancora qualcosa. Attende che Iris gli chieda di continuare.
Non deve aspettare molto. Iris pare supplicarlo con gli occhi.
Steven riprende il suo racconto. Stavolta dal principio.
Robert lo guarda orgoglioso. E soddisfatto.
Sarà una bella gara, sarà.
Tre
- Anche il giorno in cui inizia questa storia pioveva - dice Steven. -
Parigi, al tempo, era romantica come una cartolina illustrata, colori
un po sbiaditi, tinte pastello sullazzurro del cielo e ocra
degli sterrati. Delicati scorci attraversati dalle ruote dei carri e il
bianco degli sbuffi dei vaporetti sulla Senna.
Era il 1900. Né più né meno.
Era il 1900 a Parigi: lalba del Ventesimo secolo, lanno dellEsposizione
Universale.
Provate a immaginare le strade piene di colori, i manifesti pubblicitari,
le vetrine eleganti; e le signore che sfilano lungo i marciapiedi affollati,
avvolte nei loro vestiti raffinati, come su una passerella di moda, sfoggiando
bizzarri cappellini, pronte a girarsi e sorridere al suono dei clacson
dei pochi giovani privilegiati sulle loro automobili; e il profumo dei
dolci che si diffonde nellaria attraverso i comignoli delle pasticcerie;
e ancora, i lavori di abbellimento della capitale che proseguono a ritmo
sfrenato con centinaia di operai, impegnati nellopera di interramento
dei primi cavi elettrici; e, infine, i turisti che giungono in città
da ogni dove, impazzendo alla vista delle scale mobili, dei tram, dello
spettacolo maestoso della Tour Eiffel; provate a immaginare, insomma,
la Belle Époque.
Steven si interrompe. Poi soggiunge, quasi rimuginando tra sé:
- Ma non era così per tutti.
Sempre profondo, Steven! Robert ha la sensazione che nasconda un bagaglio
di riflessioni precostituite da sciorinare al momento opportuno.
Dietro la grande vetrina della città, illuminata a giorno anche
in piena notte, pulsava una vita di povera gente, una vita di vicoli,
di pensioni maleodoranti, di case fatiscenti e di panni stesi ad asciugare.
E proprio qui comincia la nostra storia, in uno di questi vicoli, dove
un gatto affamato e denutrito sta uscendo furtivamente da un bidone dellimmondizia,
lì, a pochi passi dal lungosenna e a poche centinaia di metri dalla
Tour Eiffel.
In un edificio scalcinato, in un viottolo buio, cera un negozietto
modesto, con una sola vetrina e due persone allinterno. Sullinsegna
di legno, rovinata dalle intemperie, una scritta: Gérard-peintre,
ossia Gerardo il pittore.
Mentre i ricchi attendevano in fila per entrare al Moulin Rouge e si perdevano
ad ammirare le donnine che ballavano il can-can, mentre veniva inaugurata
la Gare de Lyon da cui partivano tutti i treni per il sud della Francia,
e ovunque si potevano notare i manifesti dipinti da Toulouse-Lautrec,
la gente comune faticava a mettere insieme il pranzo con la cena. Tra
questi cerano il pittore Gérard Candrace e il suo amico Alain.
Gérard era un ometto magro e asciutto, pizzetto biondiccio e capelli
lunghi riccioluti, debole di costituzione e incline alla malinconia. Viveva
in un bugigattolo collocato sopra la bottega: due sole stanze, camera
e cucina, con il gabinetto nella corte dello stabile.
Fuori
intanto continua a piovere. Il cameriere cinese ha servito le prime portate
e ha acceso le candele nel caso mancasse la luce.
Involontariamente ha creato unatmosfera romantica. Il volto di Iris,
illuminato dalla fiamma della candela, sembra ancora più dolce.
Solo un attimo di incertezza, poi Steven si rischiara la voce e prosegue.
-
Era una giornata di pioggia e Gérard stava attaccato alla porta
con la faccia malinconica e un po dimessa, a pensare che, con un
tempaccio del genere, nessuno avrebbe fatto visita alla sua bottega. Nessun
cliente. Nessuno di quelli con i soldi. Daltronde i ricchi si fermavano
alla superficie della città, alle vie principali, ai viali alberati
e ai battelli sul fiume. Non entravano nei vicoli impregnati di odore
di cavoli e di carne putrida dei macelli improvvisati. Tanto meno in una
giornata di pioggia.
E, a causa della pioggia, lui non poteva uscire. Spesso si recava sul
lungosenna indossando il basco da pittore e la camicia bianca con le maniche
a raglan. Sgabello e cavalletto, teneva al fianco la sua valigetta di
colori e pennelli. Andava a fare lartista, pensava con grande autoironia.
In tali occasioni doveva per forza indossare un costume riconoscibile,
stereotipato, per la gioia di coloro che, passandogli accanto, avrebbero
esclamato: Uh! Guarda! Un pittore! identificando lartista
per il suo abito e non per i suoi quadri.
-
Giornataccia, oggi, non credi? - affermò rivolto ad Alain.
Alain non rispose.
Stava meditando su una possibilità che solo nei momenti peggiori
gli balenava alla mente: recarsi al cimitero. Erano tanti quelli che si
facevano seppellire chiudendo nella bara i loro oggetti più cari,
un orologio, una catena doro, un anello.
Avrebbe potuto provare a disseppellire qualche cadavere. Sarebbero bastati
una vanga, il buio e un po di sudore. Ma sì! Cosaveva
da perdere?
Magari, se Gérard gli avesse fatto da complice
Quando si voltò verso lamico cambiò subito idea.
Gérard lo stava guardando in attesa di una risposta.
- Coshai detto? Scusa, ero soprappensiero.
- Dicevo che oggi è una giornataccia. Mi sa che sarà dura,
per un po.
- In effetti
- rispose Alain.
I
due erano coetanei, trentunenni per lesattezza, anche se labuso
di alcool e di fumo aveva invecchiato a tal punto il viso di Alain da
far apparire una differenza di almeno dieci anni tra loro.
Alain era un commerciante di quadri, o almeno, così lui si definiva.
Moro, con il viso butterato, solcato da una lunga cicatrice sulla guancia
destra, postumo di una rissa di gioventù, indossava un vestito
nero, logoro e consunto sui gomiti e sulle ginocchia. Teneva le mani in
tasca, un po per ripararsi dal freddo e un po per celare la
mancanza del mignolo sinistro, lasciato sotto una vetrata anni prima.
Alain non aveva nessuna remora a ricordare quel giorno. Aveva deciso di
svaligiare un negozio, ma la vetrata, abilmente divelta, gli cadde sulla
mano amputandogli il mignolo. Una perdita che gli valse due anni di prigione
e la sfortuna, ben peggiore, di firmare in maniera indelebile tutti i
suoi colpi successivi.
- Ci sono solo quattro dita nelle impronte - asseriva la Gendarmeria,
- andiamo a cercare Alain.
Anzi, qualcuno, più malandrino di lui, approfittava di questa circostanza.
René, detto lastuto, si legava apposta con del nastro il
mignolo allindice prima di eseguire qualche spaccata. Tra i due
non correva buon sangue da tempo immemorabile, dal giorno in cui, per
la precisione, Alain aveva soffiato un affare a René e questultimo
si era trovato due tizi armati ad attenderlo sotto casa. Così René
non perdeva occasione per vendicarsi e far ricadere su Alain la paternità
dei suoi crimini.
Ed era riuscito a meraviglia nel suo intento. Venuta meno la sua principale
forma di reddito, ossia i furti, e con i gendarmi sempre alle costole,
per via di una vecchia storia di distillerie clandestine, le magre entrate
di Alain si fondavano prevalentemente sui quadri che riusciva a piazzare.
Cioè, Gérard dipingeva e Alain vendeva.
Gérard
prelevò un tozzo di pane secco da un canestro di vimini e un pezzo
di formaggio ormai ridotto alla crosta, avvolto in uno straccio ingiallito.
Stava per offrirne, ma si accorse che lunica cosa che poteva fare
era sfregare quella crosta sul pane raffermo, per dargli un po di
odore.
Alain rifletté sul fatto che la città è come un imbuto,
un grosso recipiente con una strozzatura: quel vicolo nel quale loro erano
costretti a vivere e dove il benessere non riusciva a entrare. I soldi
si fermavano alla fine del viale, dove la città si trasformava
in periferia.
Eppure, unalternativa per raggranellare un po di soldi cera,
ci sarebbe stata. Sicuramente. Si trattava di vendere quel
quadro. Il quadro a cui Alain mentalmente si riferiva rappresentava un
corpo femminile.
Una donna nel momento in cui esce dallacqua: alta, sensuale.
Una donna bellissima.
-
Se esiste qualcosa di oggettivo nella bellezza femminile - si interrompe
Steven, - molti sostengono che consista in questo: nellarmonia.
Armonia delle forme, proporzione degli arti, grazia. Io però non
la penso così.
Si prende una pausa. Fa un grande sospiro.
- Io credo - prosegue - che la bellezza sia un qualcosa che trascende
le forme, va oltre. Una specie di emanazione, sarei propenso a dire. A
volte penso, quando mi riferisco a quel dipinto, che la donna in esso
rappresentata sarebbe stata bella anche qualora mancante di una parte.
Mi allargo troppo se cito la Venere di Milo? Senza braccia, ma splendida.
Ecco, il soggetto rappresentato in quellopera di Candrace, era così.
Talmente sensuale e seducente che il suo fascino oltrepassava le forme.
Non le si vede la mano sinistra, che tiene dietro la nuca, tra i capelli
bagnati. Potrebbe anche non possederla.
Cosa cambierebbe? Sarebbe per questo meno bella?... Scusate la divagazione.
Torniamo alla nostra storia.
La donna dipinta era un capolavoro di avvenenza: magra, lunghe gambe sottili
di cui si intuisce però la stessa dirompente forza degli arti di
una giumenta, capaci di esplodere alle sollecitazioni dei tendini, che
sanno imporre alla caviglia limpulso di uno scatto, con il piede
che si flette sulla punta delle dita, lunghe dita sensuali, e imprime
il movimento lasciando sulla sabbia limpronta di se stesso. Così
perfetta che andresti lì a prelevare quel calco per riprodurlo
in migliaia di esemplari. Uno spettacolo di geometrica grazia, seducente
eppure involontariamente asessuato, come lorma della zampa di un
gatto sulla battigia. E poi il ventre, piatto, al cui interno spicca incastonato
lombelico, quasi che la gemma sia dentro, al rovescio, uno splendido
brillante che un minatore scopre incluso nel quarzo di una roccia, e di
cui vede solo la base, provocante al punto che pare dire al minatore in
estasi - Mi vuoi? Dovrai faticare per avermi! Ma scava, chissà
che
E gli occhi, quello sguardo penetrante e al tempo stesso conciliante
che sembra lingresso di una caverna, quei giochi da baracconi, con
la donnina seminuda in primo piano che sorride e dentro i diavoli e i
fantasmi, che quando sei entrato, poi, voglio vederti a uscirne come prima,
un po ha toccato la tua anima e ne hai paura, ma non riesci a resistere
alla tentazione che quella macchina ti catturi e faccia di te ciò
che vuole. Per non parlare del collo, della pelle liscia sul collo, che
se un giorno Modigliani ha cercato un modello, può solo dolersi
di non averla conosciuta una donna così. È una Venere. Ma
per Gérard il passato è solo una fonte da cui trarre ispirazione.
La donna si passa una mano sui capelli bagnati, mentre laltra, assurdamente,
regge un ombrellino. Una scheggia di presente nel passato, un contrasto
voluto e simbolico. Gérard ha battezzato il suo quadro Venere
con lombrellino, tanto per non mancare allimpegno morale
preso con il suo stile.
Ogni volta, pensando a quel quadro, Alain si irritava ancora di più.
Aveva già trovato un acquirente per quella crosta, ma Gérard
non voleva sentire ragioni.
Mai si sarebbe disfatto del dipinto.
Cera una ragione in ciò. Un segreto motivo.
Si era innamorato del volto ritratto.
Gérard era convinto, senza saperne il perché, che un giorno
avrebbe conosciuto una donna bella come quella del quadro. Avrebbe vissuto
con lei. Per sempre! Per ora si accontentava dellimmagine. Utile:
come ogni surrogato. Indispensabile, a volte.
Soltanto di fronte alloriginale, in carne e ossa, avrebbe potuto
liberarsi
liberarsi, sì
di quellimmagine inventata.
Di quellossessione. Idea fissa. Chiodo. Tormento. Piacevolissimo
tormento. Incantevole!
Come
dicevamo, pioveva e Gérard sentiva dolore alle mani. Guardava ogni
tanto oltre la tenda di raso della vetrina. Lercia.
- Perché non dipingi qualcosa? - gli chiese Alain mentre girava
la mano nella tasca bucata, riflettendo sul fatto che non possedeva più
nemmeno una monetina.
- Ho male alle ossa - rispose Gérard.
Alain estrasse dal taschino interno della giacca una piccola bottiglietta
di liquore e la finì con una sorsata.
Dopo aver bevuto si rese conto della sua maleducazione. Non ne aveva nemmeno
offerto un sorso a Gérard. Ma ormai era tardi per rimediare.
- Come vuoi - concluse. - Io esco. Devo vedermi con un tizio per un affare.
Gérard rimase lì, a guardare la pioggia che cadeva e quel
volto
il volto con i capelli bagnati di una donna che esce dal mare con un assurdo
ombrellino di stoffa gialla.
La
donna di cui era perdutamente innamorato.
Quattro
Steven si alza per farsi dare una nuova forchetta. Quella che stava usando
gli è caduta.
Indossa una felpa rossa e delle assurde scarpe da maratona bianche con
alcune strisce blu sui lati. Fuori dal ristorante continua a diluviare.
Il nuovo mondo contro il vecchio mondo. Pensa a questo mentre si allontana
dal tavolo. Gli piace New York, ma a tratti è convinto che nella
vecchia Europa si troverebbe più a suo agio, magari in una biblioteca
colma di libri o dentro un cinema di quelli di una volta, enorme, con
tante poltrone vuote e la maschera che passa a distribuire pop-corn e
coca cola. Due prodotti del nuovo mondo. È sempre stato incerto
sulla direzione della sua vita.
Anche quella volta a Gibilterra...
La sala era affollata di spettatori.
La semifinale vedeva i due avversari contendersi il passaggio alla finale
del titolo europeo.
Robert non aveva smesso per un attimo di fissare la scacchiera. Invece
lui, Steven, non riusciva a staccare gli occhi di dosso a una ragazza.
Per tutta la partita non era stato in grado di ottenere la dovuta concentrazione.
La ragazza si chiamava Josephine. Era di Chicago. E lindomani sarebbe
partita. Via, dallaltra parte delloceano. E lui? Lui sarebbe
rimasto lì, altri due giorni, per la finale. Non riusciva più
a vedersi in Europa. Voleva seguirla, rincorrerla
Perse lincontro. Volontariamente. Lindomani prese anchegli
laereo per Chicago.
Steven si riprende dal ricordo. Il cameriere gli porge una nuova posata
e lui si sofferma a scambiare qualche parola con i suoi consueti modi
garbati e gentili. A volte smodatamente gentili - pensa Robert - e perciò
irritanti.
Quando torna, passando accanto a Iris, le domanda:
- Davvero ti piace questa storia?
Robert dà unocchiata a Iris.
- È una storia bellissima
- risponde lei che si accorge di
essere scrutata. - È bravo il tuo amico a raccontare - aggiunge
rivolta a Robert.
Steven si sente lusingato. Ha apprezzato anche quel tuo detto con distacco.
Guarda Iris negli occhi. Robert invece ha gli occhi affogati nel piatto.
- Hai sentito, Iris?- chiede masticando. - Hai sentito che storia? - e
insiste affinché Steven riprenda il racconto.
- Vai avanti, ti prego, Steven. Faccio portare dellaltro riso alla
cantonese?
- Per me no - risponde Iris.
Steven annuisce con lo sguardo.
- Cameriere? Cameriere? - urla Robert. - Forse è meglio se mi alzo
e vado in cucina. Cè così tanta gente stasera
Si allontana. Iris non sa dove guardare. Mastica piccolissimi bocconi,
imbarazzata. Ha paura di affrontare gli occhi di Steven. Cè
qualcosa di magnetico in quello sguardo.
Vuole versarsi dellacqua minerale. Allunga il braccio. Steven fa
altrettanto. Le loro mani si sfiorano sul vetro della bottiglia, nel pieno
rispetto delle regole del corteggiamento, banali quanto consolidate. Iris
ritrae la mano. Ora tutto il resto lo faranno il tempo, il destino e quel
pizzico di complicità che non guasta.
Robert ritorna. Felice.
- Ho ordinato il pollo. Con tante mandorle. Adoro le mandorle.
Un tuono scuote la vetrata. Alcune donne sobbalzano sulla sedia. Allimprovviso
mezza città rimane al buio. Si vede in lontananza la sottile linea
grigia dellinquinamento nel cielo illuminato dai fulmini. Si sente
la sirena dei pompieri. Una metropoli senza luce è come uno squalo
senza denti: terribile e ridicolo allo stesso tempo.
Ma lì lenergia elettrica cè ancora. Almeno per
il momento. E, comunque, ci sono le candele accese.
Steven rammenta la scena di un romanzo. Tanti uomini dentro uno scomparto
ferroviario e una sola donna. Il treno entra in galleria. Manca la luce.
Qualcuno bacia la donna. Chi di loro? Si domanda a chi penserebbe Iris
se andasse via la luce e ricevesse un bacio. Se allazzardo del pretendente
o allaffetto di Robert. Un pensiero fulmineo.
Sono le venti e venti. La cena proseguirà sino alle undici, undici
e mezza, forse. Poi? Poi dovranno uscire. Potranno temporeggiare ancora
una mezzora in attesa che spiova. Oppure chiamare un taxi. Ce ne
sarà qualcuno libero? Boh! Qualsiasi cosa faranno, per ora sembra
ancora lontana.
Iris riceve una telefonata. Di lavoro.
- Sì, sì, domani andremo in produzione, cinquemila scatole
è un gioco bellissimo
ma certo che per Natale andrà
a ruba! Questa è solo una prova. Se vende adesso, per le festività
la produzione sarà massiccia. È passato lo spot in tivù?
Daccordo. Bene. A domani.
È donna daffari. Ma il fatturato della sua azienda questanno
è diminuito. Con i giochi provenienti dalla Cina i costi di produzione
sono insostenibili. La lotta si è fatta impietosa. Ci vorrebbe
qualcosa, unidea per battere la concorrenza. Per un attimo la sua
mente è altrove. Se non accade un miracolo, più di trecento
suoi dipendenti dovranno essere licenziati. Non è certo una bella
prospettiva sotto Natale.
Lespressione del suo viso si contorce in una ruga di disappunto.
- Qualcosa non va? - domanda Robert.
- No, nulla. Le solite questioni. Scusate
dove eravamo rimasti?
Steven riprende il suo racconto.
(...)
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