a
25 anni dalla scomparsa
JOHN
BELUSHI. LE ORIGINI ALBANESI, I SUCCESSI HOLLIWOODIANI, LA MORTE
articolo di
Ivan
Carozzi
(da
Il Riformista del 9 giugno 2007)
Cocaina
dappertutto. Nascosta in bagno, sotto la carta igienica, ammonticchiata
dentro al comò. Cocaina nell'aria, soffice, come la neve che
d'inverno si frange sui grattacieli e incrosta il naso dei passanti.
Morì venticinque anni fa, John Belushi, seppellito sotto l'ultima
grande nevicata della sua vita. Allora, tra i fiocchi immacolati della
cocaina, scesero anche i fiocchi melliflui e color cannella dell'eroina.
Belushi morì di overdose, a causa di una sniffata di speedball,
una notte di marzo del 1982, più sazio e appagato che mai, chiuso
in una stanza d'albergo che si affacciava sul Sunset Strip di Los Angeles.
Aveva appena trentatrè anni. Sua moglie, Judith Pisano, sarà
oggi al Biografilm Festival di Bologna, dove presenterà un volume
sul suo coniuge perduto, scritto in coppia con Colby Tanner e appena
pubblicato da Rizzoli. Judith e John non si conobbero sul set di un
film, o a un party di Hollywood. Come due bravi ragazzi americani, come
Richie Cunningham e Lory Beth di 'Happy Days', s'incontrarono al liceo
della loro città, Chicago. Dai tempi della scuola non si erano
mai più separati, fino al giorno della morte di lui.
Quando si accenna a Belushi, la prassi vuole che qualcuno alzi la mano
per rivelare che l'attore dei Blues Brothers, in realtà, era
figlio di albanesi. Come se l'essere una star del cinema e avere sangue
albanese rappresenti una circostanza curiosa, poco verosimile. Eppure,
come negare che eccetto madre Teresa di Calcutta e il dittatore comunista
Enver Hoxha, Belushi, effettivamente, è stato l'unico albanese
a godere di un certo rispetto? Notazione sferzante, per niente corretta,
vero, ma sufficientemente a là Belushi. A Chicago, John aveva
iniziato la sua carriera esibendosi nelle caffetterie universitarie
e nelle camerette con i letti a castello dei campus, identiche a quelle
filmate in 'Animal house', il film di John Landis del '78. Il suo numero
preferito, oltre alle caricature di Truman Capote e del Presidente Nixon,
era l'imitazione di Joe Cocker, che qualche anno più tardi, quando
la sua facies bovina era già finita sulla copertina di Newsweek,
rispolverò per la festa di compleanno di Paul McCartney, intascando
un cachèt di 6000 dollari. Dopo essere entrato nella compagnia
di 'Second City', uno storico show di Chicago, e dopo aver fatto parte
con Chevy Chase di 'Lemmings', altro show teatrale, Belushi approdò
in TV, alla NBC, con il programma 'Saturday night live', tuttora in
rotazione. I capi della NBC volevano uno show che spingesse gli americani
a chiudersi in casa il sabato sera. O, per lo meno, a rientrare prima
di mezzanotte. Nel giro di breve il Saturday Night toccò uno
share di 30 milioni di spettatori. Belushi li aveva accontentati. All'inizio
doveva indossare un costume da ape gigante. Poi s'inventò il
personaggio di un samurai. Le puntate venivano preparate nei locali
adiacenti agli studi. Tutti sniffavano. Tutti parlavano di lui. Belushi,
Belushi, Belushi. Dopo il clamoroso successo in tv, arrivò il
cinema. Lavorò con Landis e Spielberg, a fianco dell'amico Dan
Akroyd, e cominciò a guadagnare una montagna di soldi, che mutò
in una montagna di coca. Nell'esclusiva località di Martha's
Vineyard, comprò una casa appartenuta a Robert McNamara, anche
per vedere, come racconta Bob Woodward nel suo 'Chi tocca muore', se
i giornalisti avrebbero riportato la notizia dell'acquisto, in modo
da accostare, lungo la stessa riga, il nome di Belushi e quello dell'ex
Segretario alla Difesa. L'influenza di Belushi sul cinema americano
è stata così ingravidante da produrre, con l'attore Jack
Black, un caso di emulazione dell'originale che confina con il culto
feticistico e la reincarnazione. Il personaggio di Bluto Blutarsky in
'Animal House' è stato all'origine di una fertile sottocultura
cinematografica, brufolosa, sgangherata, che ha dato il via a pellicole
orripilanti come 'Porky's' e 'La rivincita dei nerd'. Un filone imbevuto
di goliardia nichilista, che in qualche modo giunge ad annoverare i
videoclip di Abu Ghraib, e nel quale si assiste, come rilevato dal filosofo
Slavoj Zizek, ad un'apoteosi della jouissance, ad una forma di ebbrezza
e godimento in cui la Legge cessa di ostacolare il desiderio, per poi
riapparire alle spalle di esso, sotto forma d'imperativo e diventandone
il pistone e il cilindro. Devi godere, devi divertirti, devi sfasciare
tutto.
Dopo aver scrutato la mano di Belushi, il chirologo americano Justine
Pomeroy notò una contraddizione impensabile per un uomo da sempre
considerato, nella prosopopea giornalistica, come esuberante, eccessivo,
fuorilegge, dionisiaco. Una contraddizione rivelata nelle diverse caratteristiche
delle dita e del palmo. Da un lato la morfologia era quella di una cosiddetta
mano di terra, dall'altro di una cosiddetta mano di fuoco. Belushi aveva
grandi dita a salsiccia, corte, tozze, una mano di terra, quindi, che
era indizio non solo di un biotipo da 'bistecca e patate fritte', pratico,
grande lavoratore, ma anche di un uomo molto legato alla famiglia, smanioso
di affetti, in cerca di baricentro e autocontrollo. Il palmo invece,
molto sviluppato, era quello caratteristico di una mano di fuoco. E
quindi: passione, entusiasmo, vitalità, audacia, amore per il
rischio. La linea di Giove di Belushi, molto marcata, faceva pensare
ad una spiccata ambizione, ad una tendenza incoercibile all'affermazione
di sé. Il pollice enorme, che aveva esibito nei suoi lunghi viaggi
in autostop, per andare a trovare Judith, era segno di determinazione
e forza taurina. Al centro della mano, Pomeroy osservò l'intersezione
di diverse linee a tracciare una grande 'M' che testimoniava una predestinazione
al successo. La linea del destino, che cade in senso longitudinale,
sottolineava la decisiva importanza del partner. Judith. Se la mano
di terra indicava la presenza di una sorta di forza di gravità,
che ancorava Belushi al suolo, e lo costringeva all'angosciosa ricerca
di un equilibrio, la mano di fuoco indicava invece l'azione brutale
di una forza che agiva in direzione opposta e centrifuga. Pomeroy scrisse
che: "La psiche di una persona di terra non può reggere
la pressione di forti stimoli esterni, tanto meno quelli del mondo glamour
dello showbiz. Spesso la soluzione, per le persone di terra, è
quella di adottare meccanismi di difesa, come il rifiuto a scendere
a patti con lo stress. Per Belushi l'abuso di droghe fu probabilmente
una strategia inconscia per gestire quello stress che derivava dal conflitto
tra fuoco e terra che si fondava nel suo carattere". Più
droga nuoce alla salute e porta alla pazzia. Come più fama e
più soldi. Ma è un segreto che dev'essere preservato,
per lasciare intatte enormi sovrastrutture. Affinché il pubblico
non distolga lo sguardo dal mondo superno delle celebrities e dell'indotto
correlato. La storia di John è la storia di Dioniso ed è
la storia di Hollywood. Quella raccontata, per esempio, nell'occulto
'Hollywood Babylonia' di Kenneth Anger. Belushi, fin da ragazzo, ebbe
una passione smodata per gli stupefacenti. Marijuana, anfetamine, sedativi
come il Quaalude, e soprattutto cocaina. Telefonava agli amici, per
chiedere aiuto. Telefonava alle quattro e mezzo del mattino. Chi lo
frequentava, come Dan Akroyd, aveva l'impressione che John camminasse
ogni giorno lungo un cornicione. Quando poi qualcuno cercava di dargli
una mano, Belushi rispondeva con frasi idiote, come: "Ho il cuore
di un liceale", "Io non ti chiedo che cosa fai dopo le sei
di sera. Tu non chiederlo a me". Ma il suo motto più celebre,
fu quello più profetico: "Vivi veloce, muori giovane, lascia
un bel cadavere".