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titolo: "ONIRICO NAIF "
collana blocknotes
autore Amedeo Molinari
ISBN 978-88- 95106-45-8
€ 12,00 - pp.189 - © 2011


“Le immagini del mondo e i suoni prodotti dalla natura accompagnano il cammino del sapere umano. Nei processi vitali della nostra esistenza siamo protagonisti inconsci e imperscrutabili.

Le costanti dell'Universo, quando saranno alla portata di ognuno, rappresenteranno la chiave di volta per unire le forze che dominano i nostri desideri.
La realtà sarà poi il compimento e il riscatto dalle sofferenze subite attraverso barbarie e crudeltà prodotte dall'ignoranza.

Contro tutte le intolleranze, attraverso i sogni, appaghiamo l'esistenza.
L'Illuminazione ci attraversa la mente con i suoi simboli chimerici.
La fantasia onirica, interpretata e portata in superficie dalla coscienza, è pregna dei significati più straordinari. Uno su tutti: la libertà di essere noi stessi”.

(A. Molinari)


 

Brano tratto da "ONIRICO NAIF "

Uno

Seduto a fissare la fiamma che arde e crepita nel camino tra gli alari, quasi somigliasse a una supernova esplosa, mi sento ad un tratto afferrare da dietro le spalle e trascinare in una spirale, come in un buco nero da dove la luce non esce, al bordo dell’orizzonte degli eventi. Sono uno che vive nel pianeta terra, all’interno della galassia della Via Lattea. Guardo nel profondo del cielo, nel passato di altri miliardi di galassie.
Quale è stata quella forza che mi ha trasportato in un’era che non è la mia? Queste voci che sento e che mi hanno spinto in questo periodo mi fanno capire che sono io la persona designata a questa missione. Una missione per il recupero di misteriose chiavi. Subito il feeling con queste entità svanisce all’arrivo di un raggio luminoso, ho una visione: da un punto non ben definito inizia a manifestarsi, come in un caleidoscopio in una molteplicità di immagini, come un fuoco d’artificio che ha la sua caducità, un essere di sembianze umane. Il pensiero di definirlo e il sentirsi afferrare in un abbraccio colmo di speranza è un tutt’uno. Con parole di un segreto arcano che quest’essere cerca di dirmi e con il passar delle parole in quella frazione di secondo, come è comparso se ne va scomparendo, avendomi messo un’ansia e una responsabilità grandissima, affinché quelle parole che ho recepito io possa portarle a compimento.
Catapultato con i miei jeans e scarpe da tennis, nei dintorni di un castello, mi sento osservato, sento di essere un pesce fuor d’acqua e la prima cosa che… Una bastonata e i sensi vengono meno. Al mio risveglio mi trovo incatenato, in un luogo da me non definito, con la testa pesante che guarda il pavimento di falesia. Un millepiedi fa capolino da una crepa e guardandomi incuriosito sembra dirmi:
«Benvenuto nelle segrete!».
Ho dolori lancinanti ai polsi e alle caviglie. Le catene a cui sono legato fanno fuoriuscire incessantemente rivoli di sangue dalle carni arrossate dalla stretta del ferro. Mi trovo in una posizione obbligata, sospeso come un ragno che mi scivola a ridosso del viso, e zamppettando sul suo filo sembra mimarmi che sarebbe facile anche per lui sorreggersi alle catene, che mi legano con la schiena, madida di sudore, nella dura roccia di una costruzione ormai arcaica.
Un rumore di chiavi, il giro all’interno di una toppa e si apre la porta. Viene scaraventata a terra un’esile figura e odo parole:
«Che siate maledetti!» con un filo di voce di donna.
A rispondere sopra quella figura gettata a terra, due energumeni bofonchiando tra loro:
«Sarà arsa al rogo anche lei, come gli oltre duecento già arsi vivi per il loro credo» quasi non ascoltando le parole della figura in penombra, continuano:
«Tra un po’ arriverà la sua ora, quando verrà interrogata da Sua Eminenza!».
Presa per le mani, la figura viene incatenata al muro, nella stessa posizione nella quale io mi ritrovo legato. Ho un solo pensiero per la testa riuscire ad uscirne al più presto e a tutti i costi. Sento sbattere la porta della secreta angusta, che si richiude con un rumore assordante. Domando alla donna esausta: «Potrei sapere di grazia dove mi trovo? E tu chi sei? Perché ti hanno usato lo stesso trattamento che hanno usato con me?».
Dalla penombra mi arriva la risposta:
«Sono una veggente e tu sei rinchiuso nel castello di Montsaltur, dove ormai di vivo dei suoi villani ce n’è ben poco!».
Ecco la risposta alla mia constatazione. La situazione mi rimanda ad un eremo della bassa Francia, dove per eresia si fecero ardere al rogo duecentocinque persone.
La Veggente prova a chiedermi:
«E tu chi sei? Da dove vieni? Quali sono i tuoi costumi?».
Ora mi rimane un po’ difficile risponderle, trovandomi in una realtà che non è la mia. Forse le ore passate in questa posizione mi hanno debilitato. Provo a darle una risposta riuscendo a pronunciare solo il mio nome con un filo esile di voce:
«Mi chiamo Riccardo!», ma perdo nuovamente i sensi.


Due

Che risveglio brusco! Sferzato da un secchio di acqua ghiacciata, mi ritrovo sveglio tra urla e bestemmie. Ci sono almeno cinque persone che maltrattano a male parole e in maniera poco ortodossa la Veggente che si divincola dalle frustate infertele da una di quelle figure, che quasi riempiono quel luogo tetro. Ad un gesto della mano del loro capo, che indossa una tunica con una grossa cintura, alla quale tiene legate grandi chiavi, tutti si fanno da parte e dalla porta appare una figura opulenta, lasciva e viscida nei modi, con gli occhi che sembrano roteargli all’interno delle orbite, mossi da qualche cosa che non ha nulla di umano.
«Le pergamene, maledetta dove le nascondete? Parla o per te l’inizio deve ancora arrivare!».
Così esordisce quell’individuo senza eguali appena entrato nel tugurio. E subito un pugno sferrato allo stomaco della sventurata, da uno degli aguzzini, fa vomitare la povera donna in un misto di sangue ed un verde come se avesse rigettato la bile. Nemmeno il tempo di riprendersi e un pugno sul viso la fa trasecolare.
«Cosa state facendo maledetti?». Mi sono uscite farfugliate le parole, sicuramente piene di paura. «Per quale ragione mi avete condotto in questo posto angusto? Il motivo di questo incatenamento? Chi siete?».
«Sono io che faccio le domande! Mi chiamo Sua Eminenza Bapoleon e solo a sentire il mio nome dovresti tremare. Presiedo il tribunale d’Inquisizione della Religione!». Questa la risposta del lardone. Poi, continuando la sua presentazione:
«Noi combattiamo l’eresia! Questa oltre che filosofica può essere anche di costume. Tu non indossi una tunica! Devi essere processato, quindi, per eresia!».
Rivolgendosi alla donna, rimasta nuda all’altezza delle sue prosperità, uno degli aguzzini le da due scudisciate e spellandole la pelle dei seni la fa infine svenire. Non mosso a pietà Sua Eminenza, quasi con rabbiosa angheria, sputa sul pavimento dando ordine a quella marmaglia di uscire dalla cella e rimandare le sevizie al giorno dopo, avendo come programma nella serata un processo per eresia dal sapore particolare.
Quasi a ricordarmi di trovare una soluzione per uscire da quella strana e drammatica situazione, dove paradossale, tutto diventa più riottoso da digerire in quella anomalia spazio temporale. Ritornano le parole dette come in un alito ormai senza forza, di essere l’antesignano per uno strano gioco del destino, dove la casistica si intreccia alla necessità di una spinta che porti alla soluzione di questo rompicapo, dove non ho avuto un freno inibitore a fare si che io potessi prendere subito la situazione in mano.
Miliardi di miliardi di stelle sembrano inserirsi nei meandri del mio cervello. Sulla corteccia celebrale gli assoni interagiscono coi dendriti quasi a scoppiare i minuscoli capillari, dove la rossa linfa vitale scorre incessantemente, facendo domandare alla materia grigia, il perché di ciò?


Tre

Rientrano, in un tempo non definito, in quel luogo senza avvenire, angusta topaia, che sa di dolore e puzzo misto a sangue e sudore, i torturatori che iniziano a tormentarmi con pugni di ferro, colpendomi ripetutamente sul viso, senza tregua, facendomi più volte mancare i sensi, ma loro senza pietà.
Con un ghigno Sua Eminenza afferma:
«Tu sei un adepto degli eretici?». Pone la stessa domanda, più volte e più volte, come nella sua vita ripete il suo credo fatto soltanto di ipocrisia. I suoi occhi intanto si illuminano di una luce sinistra. Continuando:
«Voglio dirti che, ieri quando siamo usciti dall’interno di questa cella, abbiamo svolto l’ennesimo processo per eresia. Prima di raggiungere questo obbiettivo, come avrai potuto notare, non siamo andati troppo per il sottile. Vogliamo da te la confessione che tu sia un eretico! Comunque la tua fine è certa. Il rogo e la tortura o soltanto il rogo?».
Pieno di rabbia gli rispondo:
«Ho la certezza che voi facciate finta di agitarvi, ma il mio destino già lo avete deciso!».
Come un turbinio che avvolge se stesso, gli occhi di Bapoleon fanno mulinello, dal lato sinistro della sua bocca, fuoriesce una schifosa salivazione e aggiunge:
«Hai a che fare con le pergamene?».
«Io non so di cosa stai blaterando!» gli dico.
Per tutta risposta, un calcio nel basso ventre, datomi da uno dei sorveglianti, mi toglie tutte le residue forze. Rimanendo in uno stato semicosciente, mi risuonano nella mente le parole pronunciate dalla Veggente, dopo la tortura sistematica ricevuta.
Durante la notte trascorsa in delirio per la febbre avuta a causa delle varie ferite profonde che rischiavano di infettarsi in quello stato sporco e senza igiene, Agnese questo il nome della Veggente, ha ripetuto parole sconclusionate: il Perfetto, il fine, il mondo che va in malora, la speranza è ultima a morire!
La sventurata quando finalmente riapre gli occhi mi dice che dobbiamo trovare il modo di uscire da quella situazione infernale e andarcene da quell’eremo portando via il Perfetto Fulco con le pergamene, che racchiudono l’inizio della ricerca delle chiavi della Conoscenza, nascoste in luoghi segreti.
Nei miei stati di semi incoscienza maturo un piano, come se un fulmine mi avesse dato la carica, dico ad Agnese:
«Nella mattinata quando giungerà l’aguzzino capo a rifocillarci, prima del processo, dovrai fare finta di lasciarti andare. Quando lui penserà finalmente di averti in pugno, farai in modo di sfilargli le chiavi e trovare il sistema di darmele. È la nostra sola possibilità di fuga da questo posto maligno!».
Finito di argomentare, un giro di chiavi stridulo e la porta della cella si apre. Il sorvegliante, porta due catinelle di acqua e un tozzo di pane secco, ed afferma:
«Vi darò l’opportunità di mangiare e lavarvi. Per questa operazione vi libererò una mano e con la sola provvederete a far ciò, in modo che nella giornata possiate presentarvi decorosamente davanti al tribunale dell’Inquisizione!».
Il secondino poggia a terra le catinelle con il tozzo di pane, che a contatto con il pavimento suona come un sasso. Liberatami una mano dalle catene, l’aguzzino mi porge una delle due catinelle colme d’acqua ed una parte del tozzo di pane spezzato con non poca difficoltà. Subito dopo si rivolge ad Agnese. Il tormentatore le scioglie una mano e lei prontamente, con fare morbido e voluttuoso, lo avvolge al gioco più vecchio del mondo, sussurrandogli parole lussuriose. Mentre questo è un tutt’uno con le mani la donna gli bisbiglia nell’orecchio:
«Se mi togli il resto delle catene non ti pentirai!».
Accecato dalla bramosia il carceriere prima di togliere definitivamente le catene intima alla sventurata:
«Stai attenta donna a non giocare brutti scherzi, altrimenti la tortura che hai subito fino ad ora è stata solo zucchero!».
Agnese furba, ancora più provocante, avendo già la mano libera, tira a sé il carceriere che recependo le intenzioni della ragazza la libera completamente. La Veggente, con fare scaltro, mi avvicina il torturatore, intento nell’opera di lussuria, riuscendo a sfilargli il mazzo delle chiavi dalla cintura e a tendermele. Il persecutore travolto dal turbine dei sensi, non si accorge che io sono libero. Con rapidità colpisco quell’essere immondo, utilizzando il grande lucchetto delle catene, lasciandolo così interdetto. Il capo delle guardie si accuccia con le mani sulla testa a mo’ di adulare una divinità a lui sconosciuta.
La mia compagna di sventura, con velocità felina, ha il tempo di colpirlo con una delle bacinelle più volte. Aggredisco quell’esecutore di ordini, con rabbia e foga dai maltrattamenti subiti, sperando di sopraffarlo immediatamente. Lo colpisco violentemente con le catene stesse ma l’effetto sortito non è quello sperato. Riavutosi dalla sua falsa divinità, il torturatore mi afferra per la gola e mi attacca a ridosso della parete di pietre ruvide, lasciandomi quasi senza respiro. Agnese che non è rimasta inattiva nel frattempo azzanna l’energumeno alla base del collo, lasciandogli i segni degli incisivi, stringendosi poi alle sue spalle, ma l’uomo da una forza inaudita, con uno scarto della mano fa volare la donna quasi fuori dalla porta. Il padrone di quella cella mi allenta la stretta al collo per lo sforzo profuso, riesco a dargli una testata all’altezza occhi setto nasale e questa volta sortisce l’effetto sperato. Per esser sicuri che l’uomo abbia perso i sensi gli assesto ulteriormente l’enorme lucchetto sulla testa a scanso di equivoci.
Agnese, riavutasi, mi da subito una mano a togliere il vestito al carceriere o quello che è tale di questo periodo a me sconosciuto. Concordo con la ragazza il piano successivo per la nostra fuga dal castello. Io assumerò le sembianze del capo carceriere.
Essendo mattino presto, con la guarnigione ancora dormiente e la sorveglianza al minimo, la Veggente mi conduce accanto la nostra prigione e vedo un uomo all’interno di una cella più mal ridotto di noi. Utilizziamo il fascio di chiavi sottratte al custode della prigione per poter aprire la cella dove è rinchiuso il Perfetto Fulco. Quest’ultimo, finalmente libero, con fare prostrato dalle torture subite, rivolgendosi a me e alla Veggente ci indica come si possa fuggire da quella situazione assurda. Il Perfetto conosce alla perfezione il castello. Dalla stanza dove precedentemente eravamo reclusi, la facciata di destra é preceduta da un portico sopraelevato, risolto con un arco principale in corrispondenza dell’entrata. Questo è affiancato da due archi minori dove sopra vi è una guardia di ostacolo alla nostra libertà che sorveglia con fare minaccioso. La Veggente, con un’occhiata d’intesa con il Perfetto, avrebbe distratto la guardia e lui l’avrebbe messa fuori gioco colpendolo con un mazzuolo preso nella stanza del custode, che abbiamo messo a dormire con modi poco convenzionali. A quel punto la via di fuga sarebbe stata libera. Giunti all’altezza dell’arco principale pensavo avremmo imboccato l’uscita ma, con mio enorme stupore, ci siamo calati attraverso una piccola feritoia, in un pozzo, scomparendo in questo modo dalla vista dei nostri ormai dichiarati nemici.
Il pozzo solidamente costruito per il rifornimento d’acqua, per fronteggiare eventuali assedi di lunghi periodi di nemici, ha perso la sua funzione, a causa del tradimento di un adepto eretico che ha fatto crollare tutte le misure di sicurezza.
Ad un tratto il Perfetto, con il lavoro di una lama di un pugnale, sottratto anch’esso al vessatore della prigione, toglie una piccola pietra sull’orlo del pozzo e infila l’elsa nell’incavo della pietra mancante. Subito viene azionato un lavoro di leve idrauliche che abbassano il livello dell’acqua. Simultaneamente si apre un corridoio a salire per un lungo tratto, pieno di ragnatele che bruciano al nostro passaggio, a causa delle torce da noi accese, predisposte per illuminare una eventuale fuga che ora noi stiamo portando a compimento. Arrivati alla fine del corridoio, chiuso da un muro ciclopico, subito il mio pensiero va al modo di aprire quella porta murata. Il Perfetto, senza proferire parola, ancora una volta, con la lama del pugnale si china e toglie una pietra dal pavimento, mette l’elsa e il gioco è fatto. Stavolta con mia meraviglia oltre ad aprirsi quel muro mastodontico, dal soffitto, attraverso un meccanismo di contrappeso, si deposita sul pavimento uno scrigno di pietra, come se fosse stato messo lì da una mano invisibile.
Il Perfetto, aprendo lo scrigno, si rivolge a me:
«il contenuto di questo forziere non deve cadere nelle mani di Bapoleon, per dare almeno una speranza alle generazioni future. Tu sei il Predestinato! Il significato di ciò ti sarà reso noto a tempo debito, per adesso dobbiamo mettere al sicuro l’involucro».
A questo punto credo di essere uscito da quella situazione di pericolo, senza senso, ma tutti e tre dobbiamo fare i conti con Bapoleon.

(...)



 

Questo romanzo fantasy è nato tra il verde lussureggiante del parco dei Monti Lucretili. Mi chiamo Amedeo Molinari e il mio paese è all'interno di quell'oasi particolare. Incastonato tra le montagne, Monteflavio è il luogo in cui sono nato il 22 aprile del 1954 e dove tuttora vivo con mia moglie e i miei due figli. Pubblicando questa storia ho realizzato l'essenza stessa del mio libro: il Sogno. E dunque, se dovessi riaddormentarmi, perché non continuare a sognare…