i quaderni di Cico
 
 

 

 

ordinalo senza spese di spedizione

 

titolo: "L'ultimo segreto di Nietzsche (Il ritorno del filosofo a Torino)".
collana
i quaderni di Cico
autore Beppe Iannozzi
ISBN 978-88- 97424-77-2
€13,00 - pp.181 - © 2013 - in copertina,“Ecce homo”, by Sebastiano Bongi Tomà - il ramingo - (www.sbtphotographer.eu)


Nell’Augusta Taurinorum, fra passato e presente, alieni e filosofi, dèmoni e prostitute, il padre della moderna filosofia, Friedrich Willem Nietzsche.
Il filosofo, ormai sulla via di un’eterna pazzia, dopo aver partecipato a una seduta spiritica, s’imbatte in Absu Imaily Swandy. A una prima occhiata l’uomo, che dice di provenire da un altro mondo, sembra innocuo, niente più che uno svitato. Nietzsche lo ignora e lo dimentica. Non può immaginare che Absu lo ha voluto incontrare per rubargli l’anima e portarla a spasso con sé lungo tutto il XX° secolo e oltre.

...

... e di Beppe
(o Giuseppe?)
Iannozzi
leggi anche
Angeli caduti e La cattiva strada

 

 


Intanto, e forse in dipendenza da ciò, ai giorni nostri,
un giovane filosofo concentrato sul razionalismo, e che par essere la reincarnazione di Nietzsche, vede accanto a sé il suo doppio, un simulacro che gli parla e lo istruisce.
Un giorno anche lui incontra Absu e come Nietzsche gli tributa poca o nulla importanza. Tuttavia dovrà ricredersi, perché Absu pare abbia un piano per rubare la Sacra Sindone, poiché dice che gli appartiene.

Il tragico epilogo della vicenda si avrà in cima alla Mole Antonelliana,
dove verrà messo a nudo l'ultimo segreto di Nietzsche.

Un segreto tanto terribile che se rivelato all'umanità…

 

 
L'Alchimista incontra Giuseppe "Beppe" Iannozzi
su Radio Centro Fiuggi 101.8
 
 
 
 


... e poi

Intervista a tutto campo.Da Bukowski a Nietzsche e oltre... nuova intervista di Giovanni Agnoloni a Beppe Iannozzi

L’ultimo segreto di Nietzsche - Giovanni Agnoloni intervista Beppe Iannozzi

L’ultimo segreto di Nietzsche - Iannozzi Giuseppe intervista se stesso

L’ultimo segreto di Nietzsche - leggi la recensione di Fabio Fracas su Macademia - http://www.macademia.it/

L’ultimo segreto di Nietzsche - leggi la recensione di Gordiano Lupi.

L’ultimo segreto di Nietzsche - "Metaromanzo che sfiora il capolavoro", leggi la recensione di Dario Bentivoglio.

 

 

 

Brano tratto da "L'ultimo segreto di Nietzsche".

(...)

Fu durante gli anni Ottanta, ovvero nel periodo che trascorsi alla Massari – durante le medie inferiori per intenderci –, che la mia indole filosofica si manifestò appieno procurandomi poi in futuro non pochi guai: la scuola, tanto per cambiare, era prefabbricato, per di più dichiarato più volte a rischio, tant’è che l’anno precedente al mio ingresso alla Massari la struttura architettonica fu rinforzata con uno scheletro interno di ferro pittato d’un rosso acceso. Giuseppe Massari fu politico e scrittore, e sostenitore delle idee liberali a Napoli. E fu suo malgrado costretto a scegliere l’esilio parigino; entrò in contatto con Gioberti e diresse a Torino il Mondo Illustrato; ma volle tornare a Napoli e gli riuscì di farsi eleggere deputato al parlamento, incarico che gli durò assai poco perché dovette nuovamente riparare nell’Augusta Taurinorum dove strinse amicizia con Cavour e rinnovò quella con Gioberti. A lui era intitolata la scuola che io frequentai per tre anni; e non un docente che mi disse che Giuseppe Massari nacque a Taranto nel 1821 e che morì a Roma nel 1884; non uno che accennò alle sue idee politiche; non uno che ci fece mai leggere uno stralcio dei suoi tanti scritti sul Risorgimento italiano. Che teste di cazzo ‘sti insegnanti che sudano bibbie di colpevolezza da ogni poro!

Durante i tre anni trascorsi alla Massari il mio temperamento subì non pochi scossoni, quelli che accusano tutti i filosofi che poi, inevitabilmente, vengono tacciati dalla società come imbranati. Tuttavia la cosa non poteva più darmi fastidio: divenni avvezzo a sentirmi apostrofare nei corridoi con epiteti d’ogni sorta e poco ci badavo. Dei molti epiteti vomitati addosso alla mia persona, ne ricordo alcuni, “Chiel-lì a l’ha na testa baravantan-a”, “A l’é ‘n cerighèt aut na branca e a chërd d’esse n’om”; osservazioni di questo genere a iosa, tutti i maledetti giorni.
Poi, un giorno ebbi la sventura d’incappare in una certa Maddalena che manco stava nella mia classe; era una peperina che subito si buttò a capofitto nell’affaire ‘filosofo’ per darmi contro. Cominciò con l’apostrofarmi in vari modi, e alla fine decise che io per lei ero Andreotti, forse a causa delle mie orecchie a sventola. Insomma, più che una peperina era una puttanella, una di quelle che se la fanno con chi c’ha il Potere, qualsiasi forma di Potere purché diabolico.
Si era nel corridoio a fare merenda, quando questa Maddalena decise di portare il suo passo dove io e Gianni parlavamo faccia a faccia del più e del meno facendoci i cazzi nostri.
“Ambelessì as fa sempre baleuria!”, esordì con tono mellifluo mentre sulle labbra le si disegnava velenoso cachinno. Io e Gianni tenemmo il silenzio, io sperando che Maddalena si squagliasse quanto prima.
Noi non le si dava filo. E lei se ne risentì e allora poco ci mancò che mi sputasse in faccia.
“Andreotti, Andreotti, Andreotti!”, gridò. E scoppiò a ridere. “Andreotti, badò!”
“Cola fija a l’é mach na bërnufia”, mi suggerì Gianni in un orecchio, con un tono che non era di certo un sussurro, affinché potesse sentire anche la Maddalena.
E lei piccata: “Ti it disi mach ëd betise.”
E Gianni: “Piantla lì ëd gandiné la gent, përché ‘n dì o l’àutr it troveras queicadun che at buterà a pòst.”
E lei: “Le toe mnasse am fan gnaca ël gatij.”
Poi, rivolgendosi a me con tono ironico, cattivo, da stridine: “A l’è bela la vita dël gargagnan: sold, done e divertiment sensa fé gnente d’àutr che ël fagnan!” Niente di più falso… io figlio di proletari, solo studio e lavoro. Il sangue m’inebriò di cieca rabbia il cervello.
“Ant la vita a venta travone tanti bocon amèr: ëd vòlte am piaserìa avèj na facia ëd tòla come la toa, sòma!”, ribattei stringendo i pugni, tanto che le nocche delle mani mi diventarono subito bianche.
“Date nen tanta sagna, che it ses ‘n pòr diav come mi!”, ribatté lei e se ne andò via tutta allegra continuando a berciare ‘Andreotti, badò’ lungo il corridoio affinché tutti potessero sentire. Da quel giorno, alla Massari per tutti io fui ‘Andreotti’ e basta.

Ne sono passati di anni da quella discussione, che non fu comunque l’unica portata nei corridoi scolastici con vivo astio.
Alla Massari non avevo più nulla da fare: dovevo risolvermi a scegliere il mio indirizzo di studi futuri… un travaglio che è meglio tralasciare: studi irregolari, amicizie spiantate, anni persi e recuperati… lavoretti giusto per tirar su qualche Lira e sempre volgarmente pagati, sicché, alla fine, sempre mi chiedevo se ero io che pagavo per lavorare. In ogni caso furono le mie delle disavventure che devono accadere a chiunque sia stato vomitato in questo Crepuscolo degli Dèi, disavventure che un po’ somigliano all’acqua che scorre e fugge via per recessi persi in un nessun dove.

 

Capitolo II

Maddalena la incontrai alcuni anni dopo, in via Barbaroux, più simile a una strega che non a una ragazza. A stento si trascinava lungo le strade di Torino, cangiate nella sua mente malata in un dedalo infinito senza uscita.
Mi si fece dappresso vestita di stracci, o meglio di quelli che a me parvero essere degli stracci: il volto smunto, i capelli secchi ed elettrizzati, gli occhi iniettati di sangue – due capocchie a spillo –, le labbra bruciate (prese da chissà quale herpes), e il volto devastato da strani piccoli foruncoli. Il suo corpo pareva un cadavere ambulante: ogni passo era una tremenda agonia che la mortificava, che bruciava le ultime energie cerebrali.
Io me ne stavo con il mio pacco di libri a osservarla: di primo acchito non la riconobbi, e, forse, se non avesse attaccato bottone, dubito che l’avrei riconosciuta.
Maddalena era adesso il classico spettro, una tossica persa. Io però pensai a lei come a una strega, punto e basta, perché, almeno per me, nel periodo scolastico, lei era stata soltanto questo e non altro.
Una delle prime streghe che ricordo è Ecate: nella tradizione greca le sue serve più devote erano le streghe della Tessaglia (una sperduta regione della Grecia settentrionale); erano esse creature in grado di mutare la loro natura in uccelli e in animali d’ogni sorta, ma anche capaci di gonfiarsi le budella di potenti erbe magiche oltreché di esseri umani. E poi la Diana dei Romani, Artemide per i Greci, Erodiade per i Giudei: secondo la Chiesa, Diana comandava i Cavalieri della notte; Holda, l’alter ego germanico di Diana, non era meno crudele rispetto alla sue compagne: lei cavalcava spesso i venti seguita dai suoi accoliti… qualcuno dice che fosse bellissima e maestosa, e mostruosa nei momenti di rabbia perché tutta la sua carne si deformava per assumere le sembianze d’un’orripilante vecchia viziosa. Maddalena era, nel mio subconscio ferito, tutte queste streghe del passato.
Fu intorno al 589 d.C. che il termine strega fu adottato nei confronti di alcune contadine sospettate di eresia; il sospetto che cadde su di loro fu quello di praticare di nascosto, col favore delle tenebre, culti pagani proibiti.
Quante le vittime dei roghi?
Migliaia.
Henri Boguet, demonologo, già nel 1602 scrisse che “sono a migliaia, ovunque, si moltiplicano sulla terra come vermi in un giardino.”
“Allora non dici niente!”, biascicò Maddalena sputando un pezzo d’anima in un fiato appestato che mi prese in pieno volto.
E io a brutto grugno: “Che dovrei dire… addio.” E feci per tagliare la corda come si suol dire, ma non perché nutrissi paura: di simili umani troppo umani ne avevo già visti a iosa e non uno che fosse riuscito a sfuggire al mostro dell’Aids.
Lei, la Maddalena, la mia strega di sempre, non pareva essere della mia stessa opinione: “Allora non mi riconosci proprio!”
Quasi piangeva.
E io ero lì, davanti a lei, tale e quale a una lacrima scolpita nella pietra e nell’Infinito leopardiano scagliata.
“Non vuoi riconoscermi… hai capito dunque.”
Giusto un segno di assenso col capo: “Ne è passata di acqua sotto i ponti! E anche di merda!”
“Sotto quello del Diavolo.” E un sorriso spento si accese fra quelle labbra un tempo turgide, uguali a petali di rosa svegliati al mattino dalla guazza.
‘Adesso caccerà fuori la solita siringa che mi dirà infetta’, pensai.
Ebbe come una vertigine: la voce le si ridusse a un rantolo dentro la carcassa dei polmoni. Cercò invano di parlare, ma le sue labbra si schiusero per subito morire nell’afonia. Cadde in ginocchio: il muto plorare stava scavando le sue già tanto provate emaciate gote, un tempo floride come la mela del peccato adamitico. Io non feci nulla: qualunque mia azione sarebbe stata interpretata al pari d’un’offesa, questo lo sapevo bene. Pensai che era forse il caso d’andarmene, di lasciare lì quella creatura consapevole della Morte ormai diventata unica sua fedele amante. Lasciarla lì… mi avrebbe dimenticato come uno spettro o un sogno o una visione.
Pensai che giusto era che la lasciassi morire nel suo stronzo pianto, nella sua solitudine, quella che tutti ci portiamo dentro, malati e sani, ricchi e poveri: era l’unica delicatezza che potessi usare nei suoi confronti.
Però così non fu.
Cacciò fuori la siringa e me la puntò contro; e io sempre lì, uguale a una lacrima scolpita nella pietra, scagliata nell’infinito leopardiano e subito persa negli spazi siderali: “Cosa vuoi?”
Silenzio.
Stavo per darle le spalle; forza non ne aveva per aggredirmi e poi non l’avrebbe fatto, o forse sì… In ogni caso avrei avuto tutto il tempo per difendermi, senza correre il rischio di rimanere bruciato su quell’autodafé che lei aveva approntato anche per me.
“Andreotti, badò”, gridò facendo appello a quelle che dovevano essere ormai le sue ultime stremate energie.
Via Barbaroux si rifletteva tutta nei suoi occhi a spillo.
“Sì”, risposi con gelida freddezza pregna di cazzuta cattiveria, una cattiveria antica che stava tornando a scorrermi nelle vene.
“Quanto mi dai?”, biascicò.
La cosa non mi colpiva.
“Niente”, le risposi con freddezza d’animo: “La tua passerina è marcia e non fregherà mai il mio cazzo.”
“I soldi ce li hai”, sbottò lei, mentre un fiume amaro di lacrime scivolò con tutto l’impeto della sua morta vita lungo il suo volto.
“Sì, ce li ho. E con questo?”
Lei, avida, mi fissò giusto per un attimo.
“Potrei farti un lavoretto se mi dai qualcosa.” E il suo volto divenne tutto radioso, prigioniero di speranza: “Mi sembra uno scambio equo.”
“No, non lo è”, ribattei secco.
“È perché ho questo cazzo di Aids, vero?”
“No. È perché sei tu, perché sei stata tu un tempo, perché sei il ricordo, sei…”. Mio malgrado un amaro ridere mi scoppiò nella strozza.
Mi fissò stranita: in lei la rabbia del diritto alla sopravvivenza stava radunando le sue residue forze per scagliarsi addosso a me.
“Scusa, è solo che è buffo come accadono certe cose.”
Cacciai fuori il mio portafogli e le diedi non so neppure io quanto, comunque assai poco perché avevo consumato il più per acquistare i libri che tenevo stretti fra le mani come uno scolaro di altri tempi. Lei ricevette i soldi in mano e non ribatté.
Stavo per andarmene, quando la medesima voce m’invitò a voltarmi verso di lei: “La vuoi sentire una storia?”
Scossi il capo. Conoscevo la sua storia e nel caso non la conoscessi già nei dettagli, potevo immaginarla. L’immaginazione tinge la verità intuita o con il miele o con il sale sulla ferita ancora aperta: era un rischio che avrei corso, dolore per troppo miele, dolore per tropposale. Sempre.
“Non è quello che pensi.”
Sputò un grumo di catarro sull’asfalto nero.
Si schiarì la voce. “Non è la mia storia, è quella d’una strega”, puntualizzò posando forte il tono stridulo della voce sulla parola ‘strega’.
Per un attimo ebbi l’impressione che quella voce fosse tornata viva, non più malata. “Non ti farò del male… Non ti scoperò se è questo che vuoi!”
“Questo lo so.”
Ero indeciso.
“Che fai? Tanto questi mica mi bastano per una dose… una storia… è l’unica medicina… aiutami.”
Lei stava seduta per terra, in una posizione scomposta di stanchezza: il corpo ridotto a uno scheletro vestito di pelle, e dei miei ricordi di ieri. All’improvviso prese la siringa e la scagliò lontano, con rabbia: “Adesso non hai più niente da temere.”
Non ci credevo che non avessi più nulla da temere: per quanto ne sapevo io poteva benissimo nasconderne un’altra chissà dove. Però acconsentii a sedermi sul marciapiede, insieme a lei per ascoltare la storia che così tanto le premeva di raccontarmi.
Ogni tanto qualche passante ci si faceva dappresso, ma subito fuggiva pieno di ribrezzo e paura.
Nel giro di due ore buone mi raccontò la storia di Antonia De Alberto e Francesca Viglone, presunte streghe bruciate vive il 7 novembre 1474, tra Levone e Barbania, in quella lingua di terra che va sotto il nome di Guado Cerrone. L’Inquisizione aveva catturato queste due poverette insieme a Bonaveria Viglone, forse una parente di Francesca e Margarota Braya. La Bonaveria rimase probabilmente incarcerata a vita, fino a quando, in un modo o nell’altro, perse la vita, per mano dell’Inquisitore (giudice), o di Dio. Sempre di giudici del cazzo si parla. La Margarota riuscì invece a fuggire dal castello di Rivara presso il quale erano state rinchiuse in attesa che la sentenza venisse emessa.
“Conosci il Malleus maleficarum?”
“Solo per averlo sentito nominare.”
“È la Bibbia vergata da due domenicani figli di puttana, Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer.”
Scaracchiò per terra, e gli occhi quasi le schizzarono fuori da quel teschio che era ormai il suo volto.
“Appoggiati pure a me. China il capo sulla mia spalla e racconta se ne hai voglia.”
Non potevo davvero fare di più.
Lei mi fissò con quei suoi occhi ormai incapaci di lasciar trapelare amore, occhi destinati alla rabbia e all’odio.
Lentamente lasciò che il fragile suo capo si adagiasse sulla mia spalla mentre insieme si stava seduti sull’asfalto.
Si rimase per un po’ in silenzio.
Il crepuscolo stava calando nel nostro angolo di mondo, simile a un sudario, mentre lontano il fischio del vento s’accompagnava al bronzeo suono d’una remota campana… o forse fu solo l’impressione fottutamente romantica di due solitari.
La vicenda si consumò nel Canadese, come candela accesa solo per poter essere spenta, ridotta a consumata cera.
Il processo, per ordine dell’Inquisizione di Torino, venne accolto all’interno della giurisdizione feudale di certi signori di Valperga Rivara, nel Marchesato del Monferrato. Il processo di Levone metteva addosso alle due poverette cinquantacinque capi d’accusa meticolosamente raccolti dall’inquisitore Francesco Chiabaudi. Il castello di Rivara ospitò le streghe nelle prigioni, e il tribunale dell’Inquisizione: “… questa è un’inquisizione o titolo inquisizionale per cui il venerabile professor di canoni in leggi Francesco Chiabaudi, Commissario e delegato speciale del reverendissimo Padre in Cristo il Vescovo di Torino e del venerabil uomo Michele De Valenti, Priore dell’ordine San Domenico della stessa Città di Torino, Inquisitore dell’eretica gravità, procede ed intende procedere per proprio ufficio e per l’autorità impartitagli contro Antonia moglie d’Antonio De Alberto seniore, Francesca moglie di Giacomo Viglone, Bonaveria moglie d’Antonio Viglone e Margarota moglie del fu Antonio Braya, tutte di Levone, convinte e confesse ree degli infrascritti malefizi, incantesimi, stregherei, eresie, venefizii, omicidi e prevaricazioni della fede nostra e del Salvator Nostro Gesù Cristo…”.
Il crepuscolo andava tingendosi di sangue, e gli occhi di Maddalena erano chiusi, morti sulla mia spalla, mentre ascoltavo la sua voce piena di dolore che narrava d’un qualcosa che, allegoricamente, doveva aver a che fare con lei.
Maddalena si ostinava a raccontare nonostante ogni parola cacciata a forza dalla strozza fosse un chiodo piantato nella sua anima sanguinante di rimpianti, di giorni andati (e che mai più sarebbero tornati), di gioie perdute per sempre, di dolori che non si sarebbero rinnovati la prossima primavera e che presto si sarebbero estinti insieme al suo corpo, per essere infine inumati in un giardino di crisantemi.
Il suo capo tremò scosso dalla tosse, poi si alzò per fissarmi negli occhi, ma subito ricadde e poco ci mancò che baciasse la durezza dell’asfalto se non l’avessi raccolta fra le mie braccia… Quant’era leggera! Una foglia che se lasciata sarebbe volata via col vento.
“Che c’è?”
“Niente… è normale… ora va meglio.”
Nonostante la malattia mi regalò un sorriso, un sorriso privo di fascino, perché oramai non ne aveva più.
Ma fu comunque un sorriso. Un sorriso. Un sorriso. O forse un piccolo miracolo che soltanto chi sa di dover presto morire sa operare.
“Sai che le streghe baciavano il culo di Satana? Era la loro iniziazione.”
Un altro sorriso: leggerci dentro malizia o lascivia o amore o odio era impossibile.
“Era una cosa normale… per una strega.”
“Per una strega”, le feci eco non sapendo cos’altro dire.
Troppo imbarazzo: che cosa stava cercando di farmi intendere?
Io o lei: chi di noi due si doveva capire?
O a capirci dovevamo essere entrambi, l’un l’altro?
Il crepuscolo: una precoce notte che non intendeva spiegarsi nel pallore della Luna, nelle migliaia di stelle perse a farsi costellazioni, mondi alieni, spazi inesplorati. Nell’intanto Torino, la piccola Parigi, si fondeva nelle luci accese in ogni dove: il bombo delle auto lo si poteva sentire provenire da ogni angolo come una prece cantata con gotica voce lenta-lenta-lenta, veloce-veloce-veloce…
Sudata l’anima si reggeva su timide stampelle.
“Perché mi racconti queste cose?”
“Così.”
Sospirò.
Silenzio fra me e lei. Ma l’intorno era tutto un fremito.
“Perché è successo?”
Il vento soffiava sui cernecchi elettrici di Maddalena, lasciando che la domanda riposasse sulle ali del vento con il trasparente intento di disperderla fra i tanti misteri di Torino.
“E tu… che fai?”
“Niente. Solitamente non faccio niente.”
Mentivo.
“Niente. Ironico… così si campa a lungo? Non si brucia all’inferno?”
Un colpo di tosse.
“Si campa con le stampelle, si affronta il Niente che è in Noi a brutto grugno… si vive da animali… un modus vivendi assolutamente antropologico. Nulla affatto bello, te lo posso assicurare.”
La notte. Il freddo.
Senza rendercene conto avevamo preso a camminare senza fretta ed eravamo usciti allo scoperto: due vecchi partigiani riesumati da chissà quali confusi tempi e che, finalmente, rivedevano la propria Patria libera dai fantasmi delle Inquisizioni.
Si era lungo Via Garibaldi: tanta la gente, tanta la nossa, e nessuno si prendeva il disturbo di guardare noi.
Meglio così: l’indifferenza, questo tristo razzismo peggio assai d’una manganellata presa dritta sulle gengive, sfidava le nostre anime. O almeno una, perché io non ho mai creduto nell’immortalità dell’anima.
Un gabinotto, maledetto da un assai poco elegante orbace, ci buttò addosso sguardo di ferocia uguale a Fiera che mostri propria mostruosità a suo consimile. Quel suo sguardo trafisse le nostre tenere carni. E non ancora contento sputò per terra in segno di disprezzo. La rabbia mi tradusse lo sguardo in un fantasma omicida. Le tempie mi pulsarono, e il sangue prese in sé vertigine di rabbia; una debole stretta mi trattenne però dal mettergli le mani addosso. La mano di Maddalena si strinse intorno alla mia vita abbozzando qualcosa di simile a un sorriso. Fu così che lasciai che la mia rabbia scivolasse via. C’è un tempo per combattere i razzismi e ce n’è uno per amare il bello e il brutto della vita. Soltanto questo significava quella stretta.
Via Roma: passammo rapidi in mezzo alla gente parlando senza paura, senza preoccupazioni.
“L’Inferno dev’essere caldo…”.
“Non più di tanto. Almeno così credo.”
Silenzio fra noi.
“In Piazza Castello… se ne raccontano di storie… non è vero…? Vorrei essere sepolta come una creatura d’un altro mondo venuta da chissà quali oscuri recessi.”
Un colpo di tosse, violento. Un tremore diffuso lungo tutto il povero corpo di Maddalena che in un niente s’insinuò anche nel mio: due corpi, una sola anima.
“Sono alla fine… una pera!”
Tacqui.
“Per favore!”
Tenni vivo il silenzio, un silenzio forse valido più di mille inutili parole.
“Anche se… non saprei davvero procurartela. Non ne ho idea…”.
“Tu aiutami… accompagnami dietro Porta Nuova… a San Salvario, a quest’ora uno spacciatore lo trovi di sicuro.”
Mi limitai a tenerle compagnia e a cacciarle in mano qualche altro spicciolo che lei raccolse senza nulla dire.
Un altro silenzio, un vero silenzio questa volta, un silenzio che non significa nulla, un silenzio che sarebbe stato un Vuoto Infinito se la tensione non fosse stata ben presente ed elettrica.
“Non ti sto chiedendo di aiutarmi a farmi fuori… ti chiedo solo di aiutarmi a vivere, per l’ultima volta. Per questa sera.”
Non replicai.
In meno d’un niente Porta Nuova ce la trovammo davanti a noi, maestosa come la più puttana delle regine.
Chissà perché pensai alla tragica fine del povero Cesare Pavese, che si diede la morte per poter così continuare a vivere. Pensai alla morte che si diede coi sonniferi. E ora la droga per vivere. Per Maddalena.
Con tutta calma raggiungemmo largo Saluzzo. Lei si guardava intorno, senza riuscire a trovare la vita in una dose.
La vidi trascinarsi lenta lenta tastando le mura dei caseggiati con mani spettrali. In un rondò tanti gli extracomunitari a farsi i cazzi loro. Maddalena non ce la faceva più a tenersi in piedi. Senza pensarci su due volte mi feci in due per raggiungerla fallendo. Grazie al cielo, un’ombra nera la raccolse prima di me. L’ombra nera mi raccomandò non so bene cosa. E si dissolse in fretta lasciandomi fra le braccia la mia amica, la mia povera strega!
Nonostante il buio, ci spingemmo fino a raggiungere via Berthollet: nessuna illuminazione, nemmeno l’ombra d’un lampione acceso.
Quando finalmente uscimmo da quella diavolo di via, un soffio di drogata vita era tornato nell’anima della mia amica, della mia nemica pronta a darsi in pasto alla morte.
O alla felicità eterna. Alla dannazione. O, più semplicemente, al Niente.
“Andiamo a mangiare in qualche posto…”, le proposi.
“Scegli tu. Il buio è nostro complice.”
Lei sorrise: un sorriso diverso, triste, per la prima volta del tutto divorato da un tristezza ben più che balorda.
“A me mica mi fanno entrare in un ristorante… sembra che ce l’abbia scritto in faccia che ho giaciuto con fra Dolcino e con mille altri a lui uguali… Mi condanni pure tu per questo?”
Scossi il capo. Dentro di me però la condannavo perché lei mi aveva detto ‘Andreotti’ quando si era a scuola... io ero un casino scemo con le donne: me la sarei dovuta sbattere, come tutti, prima che si beccasse l’Aids. Me la sarei dovuta fottere se solo fossi stato un po’ più furbo. Fatto sta che con le donne non sono mai stato granché capace. Mai ho capito cosa volessero.
“Fra Dolcino era un eretico, non uno stregone… e poi di cose su questo Dolcino ce ne sarebbero da dire…”, le spiegai con voce quasi atona, giusto per mettere le cose in chiaro, cioè che corre una bella differenza fra l’essere una strega e una presunta eretica come Margherita, compagna edestino di fra’ Dolcino.
“Tu non sei né una eretica né una strega”, aggiunsi. ’Forse una cosa indefinita’, pensai.
Lei rimase serrata in un silenzio perforante come la Durlindana dentro la gola d’una vergine puttana.
“Se non ricordo male fu discepolo d’un certo Gherardo Segarelli da Parma: la sua idea era quella d’un rinnovamento della Chiesa, molto semplice se vogliamo. Si parlava d’un ritorno a una vita comunitaria, come quella di Cristo con gli Apostoli. Predicava soprattutto ai contadini; inoltre c’è da dire che era non poco invasato, dedito a dissolutezze di tutti i generi non mancava di darsi ai bagordi e…”.
Per un attimo mi mancò la voce: ero imbarazzato.
“E…?”
“Dèh, di tresche non se n’è risparmiata una, almeno così si dice.”
Rimasi in silenzio, turbato nel profondo, ma anche divertito dal bisticcio di sentimenti a covare nella mia carne mortale. Maddalena non disse nulla. Quanta confusione facevo con fra’ Dolcino e Maddalena! Parlavo giusto per parlare, per paura che la mia voce venisse rapita dalla paura, dall’incomunicabilità.
Cosa aspettava a farmi la concione?
“A ogni qual modo le milizie di Clemente V, una crociata della Chiesa in piena regola, lo fecero prigioniero e non ci pensarono su due volte a metterlo al rogo insieme a Margherita e ai suoi seguaci. Così è andata. Qualche contadino della Valsesia ancor oggi è sicuro che fra’ Dolcino fosse l’incarnazione del Diavolo.”
Silenzio.
“Se predicava un ritorno a una vita comunitaria cristiana sul modello di Cristo, perché fu messo al rogo? Quale la sua colpa?”, si decise finalmente a ribattere. Era questa domanda prodromo d’una tempesta, l’avvertivo in maniera netta.
“Perché predicava l’eresia…”.
“L’eresia?!”, ribatté lei nulla affatto convinta.
“L’eresia”, ripeté. “E che cazzo sarebbe l’eresia?”
Rabbioso silenzio.
Poi l’esplosione temuta e aspettata: “Il buoncostume o il malcostume… spiegamelo un po’ tu, perché io mica ci arrivo, sai… ? Dove vuoi andare a parare?”
“Non voglio andare a parere da nessuna parte.”
Silenzio.
“L’eresia è la negazione di parte o di tutta una parte della dottrina comunemente accettata dalla Chiesa cattolica. Le eresie coinvolgono soprattutto le persone che compongono la Trinità e quindi la loro natura, cioè la divinità di Cristo. Con il concilio Vaticano II del 1962-65 la Chiesa ha, per così dire, permesso certe forme di eresia, o forse è più giusto dire che ha adottato un diverso metro nel giudicare. Per farla breve è diventata più tollerante, a patto però che uno sia cristiano.”
Non sapevo davvero come tirarmi fuori dall’impaccio.
E la concione mi tempestò: “Già! Qualunquismo, ecco la definizione esatta e senza tante spiegazioni. Oggi tu ti dici cristiano e non sei più un eretico, non sei più per il rogo, non sei più anormale… Tanto di cristiani ce ne sono tanti e ogni cristiano è un cristiano che professa per comodo, e la Chiesa accetta le sue devianze per allargarsi sempre di più… e li chiama tutti figli di Dio. Ma io, io non sono né cristiana né qualunquista. Io ho l’Aids e per questo non merito perdono. Se non si desse troppo scandalo, a quelli come me, agli anormali, li metterebbero al rogo… al rogo…! E lo stai facendo anche tu in questo momento.
Ti difendi, ti difendi… da chi? Da me o da te stesso? Che cosa cerchi nei libri, nelle nozioni che ti spari in vena alla stessa maniera d’un qualsiasi drogato?”
Prese a tossire vivacemente. Caracollò, ma subito si riprese sostentata dalla forza della rabbia: “Mi stai forse elemosinando la tua pietà?”
Non sapevo che dire. Forse aveva ragione lei.
“Non sei da meno d’un vile inquisitore. Avrai almeno la decenza di mettermi al rogo, di gettare un po’ di scandalo?”
Qualcuno s’era voltato: volti scuri, nascosti dalla notte, cercavano di carpire il senso di quel nostro discorso così ricco di contraddizioni, di errori, di rabbia sparata a bruciapelo; in ogni caso non ci potevano comprendere né i marocchini né gli arabi né gli ebrei.
Mi limitai a squadernare un sorriso idiota. E lei mi rispose con una smorfia di tristezza.
“Che cazzo d’inquisitore sei, ipocrita più degli altri?”
E fece per andarsene.
Aveva ragione lei. Questa volta aveva ragione lei.
La rincorsi spingendola con gentile forza a venire con me.
Comprammo alcune cose e le divorammo in strada, camminando i marciapiedi di nero asfalto.
Un vecchio sdentato, scavato nella vetustà, con bocca sdentata prese a cantare. Un che di triste ci attanagliò. Fu come se dell’ellera si strinse torno a torno ai nostri corpi satolli di quel mangiare consumato in fretta. E però ancor più sazi eravamo di quel cielo sparato al di sopra delle nostre nude teste. Mille stelle piangevano luce e subito la dimenticavano nell’Infinito Niente.

Il vecio se ne stava lì, in un angolo, senza nulla temere, a cantare, a cantare, a cantare…

Al lung di cul rivum j’è d’üna sula fia.
A i passa Lücifer, à l’à portà-la via.
I parent prego ‘l Signor, la Vergine Maria,
ch’a i féisso ‘n po’ vedè na volta la sua fia.
Cul gran Dio dël ciel, padrun d’ la providensa,
a i la fazia vedè s’ la rama de l’üliva.
Le fiame de l’infern la brüzo bel e viva.
“Përché che ti t’è lì, o fia dla mia fia?”
“L’è për ün sul pecà ch’i m’ n’a sun pa pentia.
Le fiame de l’infern mi brüzo bel e viva.”
“Faruma dì dël ben, ancura de le mësse,
ch’i t’ vade an paradis a gode tante blësse.”
“Maman dla mia maman, mi vëdró pi ste blësse.
Stè pa a fè di dël ben e gnianca de le mësse.
Cum’ pi che pregherei, cum’ pi na sun pünia.
Le fiame de l’infern mi brüzo bel e viva.”


“A me non servirà nessuna preghiera…”.
Silenzio.
“Sai come va a finire la storia delle streghe di Levone?”
Scossi il capo. E allora la sua voce querula riprese a narrare dal punto in cui il racconto lo aveva interrotto: “Visto le molteplici e spesso ripetute conferme, e tenuto presente quanto risulta dal processo, perché dalle confes-sioni da esse fatte spontaneamente, risulta essere che sono streghe, eretiche, che hanno rinnegato Iddio, conculcata la croce, prestata fedeltà al demonio in segno della quale offrivano tributo, e che per arte diabolica e di proposito deliberato hanno perpetrato e commesso molti altri malefizi…”. La voce le tremò. Ripeté molti altri malefizi una due tre volte porgendo sempre gli occhi alla stazione di Porta Nuova come se la sua Anima avesse desiderio di prendere un treno d’addio per fuggir lontano: “Alla fine le bruciarono. Io non sarò bruciata. Nemmeno questo.”
La strinsi a me.
“Francesca diceva di vedere ‘Gabriele’, demonio infernale che venne a trovarla in cella per dissuaderla dal confessare, altrimenti non sarebbe più stato in grado di aiutarla.”
Silenzio.
“Non avrebbe dovuto confessare… e quel vecchio non avrebbe dovuto cantare quella fottuta canzone.”
Le lacrime le rigavano il volto scavato.
Ci ritrovammo nuovamente in zona Centro Ovest, in via Barbaroux, e non una luce; e ancora si discuteva di masche. Chi può dire cosa ne avrebbe pensato il giurista, ministro guardasigilli di Re Carlo Alberto, fondatore della Frusta Letteraria, di tutta questa storia di streghe e inquisizioni.
Maddalena mi abbandonò. Per sempre.
Come un fantasma scomparve nella via alla ricerca d’un anelito di vita.
Ero disfatto.

Lentamente, stravolto dai ricordi, mi trascinai dalla parte opposta della stazione fino in Piazza Castello. Presi a frugare con sguardo velato di commozione la piazza, il Palazzo Reale, la Reggia Sabauda, e palazzo Madama che dà il nome alla piazza, e la chiesa di San Lorenzo, la prefettura e il teatro Regio. Gli occhi si posarono sull’Alfiere dell’Esercito Sardo, opera di Vincenzo Vela, risalente al 1859, un dono dei milanesi perché l’unità d’Italia fosse un cammino comune; e poi il monumento di Pietro Canonico dedicato al Cavaliere d’Italia inaugurato nel 1923. E lo sguardo lo buttai anche su Emanuele Filiberto duca d’Aosta, opera di Eugenio Baroni, opera del 1937. Spostai lo sguardo su Palazzo Madama, sul basamento di granito, dove, in un bronzo consunto, stanno il duca e alcuni combattenti della Prima Guerra Mondiale. Che tristezza! Un affresco di memorie littorie… quel duca con l’elmo, il pesante cappotto militare, buffamente ritto e autoritario.
Mi confortai posando lo sguardo sul teatro Regio: iniziato intorno al 1738, venne inaugurato il 26 dicembre 1740; l’Arsace, la prima opera rappresentata al Regio, con la musica di Francesco Feo, libretto di Pietro Metastasio… e alcune deboli note d’un passato lontano m’avvilupparono.
E poi le fiamme davanti ai miei occhi allucinati di lacrime segate a metà: il 1936, l’incendio nel Regio. Ebbi come l’impressione di riconoscere la povera Francesca del processo di Pignone; e la sua immagine fu subito soppressa da quella di Maddalena, da una Maddalena sul rogo, a bocca spalancata e senza un fiato dentro.

Quasi mattino. Da una bruma pesante di gas di scarico mi parve d’intravedere il costernato principe di Piemonte Umberto: un’immagine fugace che subito si estinse. E la mia mente si trovò presto catapultata nel 1937: Aldo Morbelli e Ribaldo Morozzo della Rocca, questi due architetti avrebbero dovuto ricostruire il Regio, ma i venti di guerra fecero prima loro a distruggere che gli architetti a darsi da fare per dar nuova vita al teatro. Bombe impietose caddero là dove sorgeva il Regio e l’Accademia Militare venne ridotta a un cumulo di macerie. La guerra finì, come per incanto… poi il vuoto… poi Carlo Molino e l’ingegner Marcello Zavelani Rossi daranno vita a un nuovo progetto per rimettere in piedi il Regio: i lavori iniziarono nel 1967, e il 10 aprile del 1973, con i Vespri siciliani di Verdi, ecco l’inaugurazione del nuovo Regio; io ero in mezzo al pubblico, e nel dietro le quinte anche, insieme a Aligi Sassu (costumista), Maria Callas e Di Stefano… insieme ai registi dei Vespri siciliani.

Il mio corpo stracco finì con l’accasciarsi meccanicamente su un bus di linea; gli occhi chiusi e in meno d’un niente il Diavolo tentatore nei miei sogni, cullato dal moto dell’automezzo. Una anziana signora, tanto simile a una strega, dandomi un leggero buffetto su una guancia mi avvertì che noi si era arrivati al capolinea. Fra me e me pensai che ormai era tutto finito e che con Maddalena era morta una parte della mia giovinezza.

Di nuovo a camminare: ero al capolinea. Assiso su una panchina ad aspettare neanch’io so bene cosa, ricordai quel tempo in cui mi si diceva che ero giovane e che avevo tutta la vita davanti a me; mi rividi a tirare qualche raro calcio al pallone insieme a dei compagni sempre ignorati perché troppi diversi da me, e Sole e Luna nel mio cuore di poeta, di filosofo, si fecero faccia d’un’uguale medaglia.
Traendo fuori di tasca un taccuino mi accinsi a vergare una poesia con una matita rossa, d’un rosso uguale al sangue delle vene di noi tutti che ci diciamo umani.
Passò così una mezz’ora.
Lentamente presi la strada per far ritorno a casa, a piedi.
Non m’importava un fico secco della stanchezza né dello sconforto; ormai avevo riversato il mio spleen nella poesiaccia che avevo avuto l’ardire di mettere nero su bianco.
Presi a respirare a pieni polmoni: un parco, un giardino, dei bambini accompagnati e seguiti a vista dalle loro madri, mentre io giusto e soltanto un vagabondo. Cercai invano di comprendere dove potesse mai essere quel DOVE che stavo attraversando: avevo perso ogni senso dell’orientamento e la mente si era come mummificata nella mia scatola cranica.

Neanch’io so in che modo alla fine riuscii ad arrivare a casa, nel quartiere S. Rita.
Quando mi svegliai era già notte.
Quanto dormii, davvero non saprei dirlo.

(...)

 

 

 
 

Giuseppe Iannozzi, classe 1972, torinese di adozione, giornalista e critico letterario, nell'ormai lontano 2000 d.C. è stato il fondatore di uno dei primi lit-blog culturali su piattaforma Splinder, King Lear Officina Avanguardie, che nel 2007 è diventato Jujol Cultura e Spettacolo a cura di Iannozzi Giuseppe (jujoliannozzigiuseppe.wordpress.com).
Oggi tiene viva una pagina personale all'indirizzo iannozzigiuseppe.wordpress.com,
oltre a un blog di sola critica letteraria iannozzigiuseppe.blogspot.com.
Dal 2010 scrive, insieme a RomanticaVany, poesie d'amore, tutte raccolte nel blog Biogiannozzi [& RomanticaVany] (biogiannozzi.splinder.com).

Nel 1994 ha pubblicato il romanzo “Amanti nel buio di una stanza” (Editrice Nuovi Autori). Inoltre, con il servizio di autopubblicazione Lulu.com, ha reso disponibili al pubblico alcuni dei suoi lavori: “Premio Strega”, “Morte all'alba”, “Racconti di Nani e Giganti”, le raccolte poetiche “Nere. Gli anni delle innocenze”, “d'Amore” e “d'Amore 2” (insieme a RomanticaVany), più due instant book, “Cesare Battisti. Il fascista rosso” e “Il caso Marrazzo. Molte ombre e poca luce”.

Da Cicorivolta, ha pubblicato anche la raccolta di racconti Angeli Caduti (2012) e il romanzo thriller/di formazione "La cattiva strada" (2014).