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LIBRI:
CAPO MOBILE NAPOLI UCCISO DA BR IN ROMANZO MENNA
(NOTIZIARIO LIBRI)
ROMA
ANSA) - ROMA, 11 DIC 2009 - BACIAMI MOLTO di ANTONIO MENNA; CICORIVOLTA
EDIZIONI; 513 PAG.; 15 EURO). Negli anni Ottanta, a Napoli, il capo della
squadra mobile fu ucciso, insieme con un agente, in un agguato dalle Brigate
rosse. Un favore ricambiato al potentissimo boss Raffaele Cutolo, che
ai terroristi in carcere aveva fatto parecchi "piaceri". Il
capo della squadra mobile si chiamava Antonio Ammaturo. Che oggi "risorge",
a più di vent'anni di distanza, grazie alle pagine del romanzo
giallo di uno scrittore napoletano, Antonio Menna, "Baciami molto".
E' lui il protagonista del romanzo, un vicequestore che si fa chiamare
commissario. La città dove lavora è Marenza, tanto immaginaria
quanto verosimile nel suo somigliare a uno dei tanti difficili paesoni
della provincia di Napoli. Uno per tutti, Marano, dove Menna è
assessore. E nel romanzo sembra riportato tutto l'armamentario sociale
e culturale di quei luoghi (reali): l'intreccio tra favore amichevole
e corruzione, la prossimità - quando non l'identificazione - della
camorra con la politica. L'Ammaturo del romanzo del poliziotto vero non
ha solo il nome ma anche l'abilità e la tenacia. E, forse, il contesto
nel quale opera: il gioco di specchi che sovrappone realtà e fantasia,
verità e immaginazione. Il romanzo parte da un delitto e da quello,
ovviamente, parte l'indagine del poliziotto. A morire è una giovane
consigliera comunale che, al termine di una riunione politica viene uccisa
mentre rientra a casa. Strangolata con mezzo metro di filo di ferro sottile.
Ammaturo, con i suoi uomini, comincia una scrupolosa inchiesta che lo
porta a scoprire un complesso ordito fatto di storie inattese, personalità
ambigue, congiure, tradimenti. Una storia nell'altra, pagina dopo pagina,
il lettore si ritrova in una ragnatela narrativa. Menna è al suo
secondo romanzo. (ANSA).
DO/PER S0B QBKL
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«Una
cittadina dell’entroterra napoletano, solo apparentemente tranquilla,
viene scossa da un delitto “diverso dagli altri”. È l’inizio
di un giallo teso e ricco di colpi di scena che inchiodano il lettore.
L’indagine è condotta da una figura di investigatore austera
e tenera, che per uno scherzo del destino porta lo stesso nome, Antonio
Ammaturo, di un poliziotto veramente esistito, eroe civile napoletano,
ucciso a Napoli dalle Brigate Rosse negli Anni Ottanta. L’inchiesta,
però, è solo un pretesto. Antonio Menna racconta, filtrandoli
nella trama avvincente di un giallo investigativo, intrecci relazionali,
amicizie vere e fasulle, tormenti, mascheramenti e una complessa, insidiosa
lotta politica per il potere. Nel romanzo scorre la vita minima. Il male
appare inevitabile. La polizia fa il suo dovere, non è arrogante
ma mite. Né eroi né corrotti. Chi ancora crede in qualcosa
rimane solo. L’amore è un bisogno e insieme un malanno. Una
storia figlia della realtà che è cucita più che mai
addosso a ognuno di noi. Un giallo sul potere che diventa un romanzo anche
sentimentale, dai tratti tenui, nato da chi, pur dentro una vita che inesorabilmente
inciampa, non vuole perdere la voglia di ribellarsi e, quindi, di sognare».
(Mariella
Vernazzaro)
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Brano
tratto da BACIAMI MOLTO
(...)
La
paura di Dora si chiamava "serpe nel manicone". Tra i napoletani
quando si dice che uno "tiene il serpe nel manicone" vuol dire
che ha la coscienza sporca. E la cosa si rivela con comportamenti sospetti.
Lei doveva mostrarsi, invece, indifferente. Il serpe nella manica ce l'aveva
per davvero ma la collega non lo doveva capire.
"Lo so io che hai", ribadì, avvicinandosi, "hai
litigato un'altra volta con Paolo".
Dora tirò un sospiro di sollievo.
"Questa ormai è storia di tutti i giorni", disse.
"Non andate proprio d'accordo?", domandò la collega.
"Abbiamo caratteri molto simili".
"E vi scornate. Un classico. Dovete venirvi incontro".
"Basta una sciocchezza e si torna a litigare. A volte anche per cazzate".
"E ieri che è successo?", domandò la collega.
"Sciocchezze. Io volevo mangiare una cosa, lui un'altra. Siamo finiti
a dirci reciprocamente che abbiamo le fisime, i vizi, e poi che siamo
egoisti".
"E qui è scattata la lite".
"Esatto, stamattina non mi ha nemmeno salutata. E io ci sto sempre
male".
"Ma tu hai capito questo Montana?", cambiò discorso la
collega, "tutte ste donne. Ma poi chi sarà questo assassino
che gliele uccide tutte? Sai come staranno le altre due? Avranno la paura
in corpo".
In quel momento, Dora, avrebbe voluto raccontare all'amica com'è
vivere con la paura in corpo. Guardarsi sempre le spalle, temere che da
un momento all'altro qualcuno ti salti addosso e ti stringa la gola. Camminare
per strada a passo sveltissimo e uscire il meno possibile. Fare mille
ipotesi (e se cambia sistema? E se non colpisce più di sera ma
di giorno? E se non strangola più, ma spara. O ti pugnala allo
stomaco? O ti investe con una macchina?).
"Ma a te piace questo assessore sciupafemmine? Te lo faresti? A me
un po' di sangue me lo fa. Non è bello ma c'ha quella faccia maschia
che ispira sesso. Dai, che ti farebbe bene pure a te. Da quanto tempo
non lo fai?".
"E dai, Rita, mi scoccia parlare di queste cose", rispose Dora.
"E che sarà mai? Ti scoccia parlarne figuriamoci farlo. E
come sei. Io quasi quasi vado di sopra e mi propongo a Montana. Gli dico:
senti assessore tu devi avere qualche virtù nascosta. Visto che
ti si sono liberati due posti, avrei pensato di candidarmi. Che dici?",
e sbracò in un'altra risata di gola.
Dora finse un sorriso di rimprovero, con tanto di scuotimento di testa.
Si alzò per mettere a posto i fascicoli.
"E poi ci sta pure il brivido. Diventi una sua amante e ti possono
uccidere da un momento all'altro. Sai che adrenalina?", continuò
la collega.
"Io vado a buttarmi un po' d'acqua in faccia", disse Dora, uscendo
dalla stanza e pensando, in quel momento, che si era comportata proprio
come non doveva. Nervosa, impaziente, sfuggente. Rita poteva fare tranquillamente
due più due e tirare l'inciucio. Decise di rientrare nella stanza
e di mostrarsi più disinvolta.
"Comunque, per tua norma e regola, io scopo bene e con regolarità",
disse Dora.
"Azzo, ti sei ripresa. Ti sei sciacquata con l'acqua di Lourdes?
E mo me la vado a buttare pure io in faccia".
"Meglio in testa", osservò Dora.
"Ah, ma allora ti sei ripresa per davvero".
"Andiamoci a prendere un caffè, che ho lavorato troppo",
disse Dora, ridendo insieme a Rita e sentendo, per un attimo, che aveva
fatto la cosa giusta anche se il peso lo aveva ancora tutto sullo stomaco.
Sulla porta dell'ufficio impattarono in Galli, il dirigente. Era un uomo
silenzioso come un topo. Strisciava nei corridoi, passando da un ufficio
all'altro con i fascicoli in mano, lasciandosi dietro solo l'ombra. Dalla
scrivania avevi giusto il tempo di alzare gli occhi. Ti rimaneva la sensazione
di averlo visto. Era basso e di una magrezza innaturale, aveva uno scavo
al centro del ventre e le costole piccole e in rilievo. Come se un batterio,
consumati tutti i grassi, avesse cominciato a rosicchiargli le ossa. Aveva
un viso di spigoli e angoli con il naso che, per il vuoto intorno, sembrava
lungo come un becco. Portava i capelli rasi, a spazzola, brizzolati e
vestiva sempre con una giacca scura e una camicia bianca, senza cravatta.
Se invece di svicolare, si fermasse, pensò Dora, l'effetto sarebbe
quello dell'uomo morto in camera da letto.
"Dove andate?", disse Galli all'indirizzo delle due.
"Al bar", rispose Rita.
"Marcate il permesso, mi raccomando", rispose il dirigente.
"Non mancheremo", replicò Rita, voltando le spalle e
tirandosi dietro Dora.
Fosse stato il dirigente del Demografico, quel Giuliano appena assunto,
Rita gli avrebbe offerto volentieri un caffè. "Ma quel Galli,
mamma mia, ma che è un uomo quello lì?".
Dora sorrise e rispose: "piacerà anche lui a qualcuna".
Il gusto legato alle persone, secondo Dora, era imponderabile. Aveva visto
uomini di un'antipatia mostruosa far perdere la testa a donne simpaticissime.
Ragazze con la cellulite riuscire a far innamorare il più bello
della scuola. Come fai a dire, a tavolino, cosa ti può piacere
o non piacere? A lei, per esempio, perché Ennio le faceva girare
così la testa? Era il viso maschio di cui parlava Rita o la parlantina
sciolta o certi modi timidi e decisi al tempo stesso o una capacità
tutta sua di avvolgerti e farti sentire al sicuro o quei tratti antipatici
che però si trasformavano all'improvviso e diventavano paciosi
e belli o quel senso di disagio che metteva nell'interlocutore o quell'aria
supponente di chi la sa sempre lunga o quel carattere ombroso con improvvisi
scatti di simpatia? Oppure gli faceva semplicemente sangue, come diceva
Rita, e per questa ragione riusciva a far l'amore con lui come non era
mai riuscita a farlo con nessuno, nemmeno con Paolo, che pure lei non
avrebbe mai lasciato?
Le due colleghe scesero al piano terra, Rita fece tiè al marcatempo
e decise che non avrebbe timbrato alcun permesso. "La pausa caffè
al bar è prevista nel contratto dei lavoratori comunali",
disse ridendo, "una ogni ora, ovviamente". Entrarono al Solleone,
un caffè con tavolini all'aperto e un banco pieno di pasticcini,
proprio di fronte al Municipio. Dora, all'impatto con l'aria aperta, fu
presa da un singhiozzo insistente. Rita scoppiò a ridere. "Ah,
la libertà", disse.
Ma Dora sapeva cos'era. La paura la prendeva al respiro e glielo spezzava
nei polmoni. Ogni volta che lasciava un luogo chiuso dove si sentiva protetta
e affrontava uno spazio aperto cominciava a pensare di poter essere colpita
alle spalle dall'assassino che girava per Marenza. Naturalmente non poteva
dirlo a Rita, come a Paolo in altre circostanze. Non poteva confessare
quella paura senza dover, poi, dire il resto.
Quando le prendeva così, portava una mano al petto e faceva un
piccolo esercizio. Lo aveva imparato anni prima, quando diluì dentro
una psicoterapia gli attacchi di panico che, periodicamente, le davano
l'angoscia della morte e lo stupore della resurrezione in una trentina
di secondi. Il medico che la seguì le disse che il segreto era
fermare i motori, come le navi quando arrivano nei porti. Fermarsi, chiudere
gli occhi, immaginarsi di avere un quadro di accensione o di spegnimento
come i veicoli, e girare la chiave. Spegnere idealmente il contatto. Lasciarsi
galleggiare. I primi tempi non riusciva a farlo. Le sembrava una cosa
artificiale, irreale, stupida. Con il risultato di aggiungere all'angoscia
dell'attacco di panico, la rabbia di non riuscire a fare l'esercizio.
Poi, una volta, lo sperimentò a freddo, fuori dall'emergenza. Si
sedette sul divano, chiuse gli occhi e decise di spegnere il motore. Lasciò
cadere le braccia lungo i fianchi e molleggiò le gambe, allentò
l'addome e la mandibola. Immaginò che all'improvviso le avessero
tolto il sistema muscolare e fosse rimasta come uno scheletro con la carne
intorno. Si sentì sgonfiare lentamente e sentì svanire tutti
i pesi. Anche il pensiero divenne liquido e una lieve contrattura al collo,
che le si era formata al risveglio, scivolò via di colpo. L'esperimento
le diede talmente tanto benessere che imparò a ripeterlo come esercizio
di rilassamento. Riusciva a raggiungere la leggerezza in pochi secondi
e quello stratagemma le fu così utile per gli attacchi di panico
che, dopo un po', scomparvero.
Adesso, però, era invasa da un altro tipo di angoscia. Una paura
costante di perdere tutto. La vita, innanzitutto.
(...)
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