i quaderni di Cico
 
 

 

 

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...e di Antonio Menna, acquista e leggi anche Cocaina & Cioccolato, il suo primo, ineffabile, romanzo... (per saperne di più vai alla scheda)

titolo:BACIAMI MOLTO
collana i quaderni di Cico
autore Antonio Menna
ISBN 978-88-95106-77-9
pp. 509 - € 15,00 - in copertina "BESAMECICO",
progetto grafico di Emidio Giovannozzi


Lucia Labruna aveva ventitré anni, i capelli rossi e gli occhi azzurri. Studiava legge, doveva dare l’ultimo esame ma non ha potuto. La sera prima è stata uccisa con un filo di ferro lungo quasi mezzo metro, sottile come una frusta. Strangolata nel cortile di casa al ritorno da una riunione politica. Era consigliere comunale. Chi l’ha uccisa? E perché? “Certi delitti si risolvono in 48 ore o mai più”: dice ai suoi uomini Antonio Ammaturo, vicequestore di Polizia, che preferisce essere chiamato commissario. Comincia un’incessante ricerca dell’assassino, con colpi di scena, cambi di visuale, improvvise accelerazioni. Un’indagine di precisione per un romanzo corale che scava nei sentimenti, si insinua nelle storie personali, disegna caratteri, analizza ogni dettaglio e consegna al lettore un mosaico suggestivo di personaggi, relazioni, alleanze, congiure, tradimenti. Baciami molto è un romanzo avvolgente come una ragnatela, un giallo profumato di quotidiano, che ti porta con sé in un viaggio senza tregua, con tante voci, una sola tensione e un finale struggente.

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LIBRI: CAPO MOBILE NAPOLI UCCISO DA BR IN ROMANZO MENNA
(NOTIZIARIO LIBRI)
ROMA
ANSA) - ROMA, 11 DIC 2009 - BACIAMI MOLTO di ANTONIO MENNA; CICORIVOLTA EDIZIONI; 513 PAG.; 15 EURO). Negli anni Ottanta, a Napoli, il capo della squadra mobile fu ucciso, insieme con un agente, in un agguato dalle Brigate rosse. Un favore ricambiato al potentissimo boss Raffaele Cutolo, che ai terroristi in carcere aveva fatto parecchi "piaceri". Il capo della squadra mobile si chiamava Antonio Ammaturo. Che oggi "risorge", a più di vent'anni di distanza, grazie alle pagine del romanzo giallo di uno scrittore napoletano, Antonio Menna, "Baciami molto". E' lui il protagonista del romanzo, un vicequestore che si fa chiamare commissario. La città dove lavora è Marenza, tanto immaginaria quanto verosimile nel suo somigliare a uno dei tanti difficili paesoni della provincia di Napoli. Uno per tutti, Marano, dove Menna è assessore. E nel romanzo sembra riportato tutto l'armamentario sociale e culturale di quei luoghi (reali): l'intreccio tra favore amichevole e corruzione, la prossimità - quando non l'identificazione - della camorra con la politica. L'Ammaturo del romanzo del poliziotto vero non ha solo il nome ma anche l'abilità e la tenacia. E, forse, il contesto nel quale opera: il gioco di specchi che sovrappone realtà e fantasia, verità e immaginazione. Il romanzo parte da un delitto e da quello, ovviamente, parte l'indagine del poliziotto. A morire è una giovane consigliera comunale che, al termine di una riunione politica viene uccisa mentre rientra a casa. Strangolata con mezzo metro di filo di ferro sottile. Ammaturo, con i suoi uomini, comincia una scrupolosa inchiesta che lo porta a scoprire un complesso ordito fatto di storie inattese, personalità ambigue, congiure, tradimenti. Una storia nell'altra, pagina dopo pagina, il lettore si ritrova in una ragnatela narrativa. Menna è al suo secondo romanzo. (ANSA).
DO/PER S0B QBKL

 

 

«Una cittadina dell’entroterra napoletano, solo apparentemente tranquilla, viene scossa da un delitto “diverso dagli altri”. È l’inizio di un giallo teso e ricco di colpi di scena che inchiodano il lettore. L’indagine è condotta da una figura di investigatore austera e tenera, che per uno scherzo del destino porta lo stesso nome, Antonio Ammaturo, di un poliziotto veramente esistito, eroe civile napoletano, ucciso a Napoli dalle Brigate Rosse negli Anni Ottanta. L’inchiesta, però, è solo un pretesto. Antonio Menna racconta, filtrandoli nella trama avvincente di un giallo investigativo, intrecci relazionali, amicizie vere e fasulle, tormenti, mascheramenti e una complessa, insidiosa lotta politica per il potere. Nel romanzo scorre la vita minima. Il male appare inevitabile. La polizia fa il suo dovere, non è arrogante ma mite. Né eroi né corrotti. Chi ancora crede in qualcosa rimane solo. L’amore è un bisogno e insieme un malanno. Una storia figlia della realtà che è cucita più che mai addosso a ognuno di noi. Un giallo sul potere che diventa un romanzo anche sentimentale, dai tratti tenui, nato da chi, pur dentro una vita che inesorabilmente inciampa, non vuole perdere la voglia di ribellarsi e, quindi, di sognare».

(Mariella Vernazzaro)

 

 
 

Brano tratto da BACIAMI MOLTO

(...)

La paura di Dora si chiamava "serpe nel manicone". Tra i napoletani quando si dice che uno "tiene il serpe nel manicone" vuol dire che ha la coscienza sporca. E la cosa si rivela con comportamenti sospetti. Lei doveva mostrarsi, invece, indifferente. Il serpe nella manica ce l'aveva per davvero ma la collega non lo doveva capire.
"Lo so io che hai", ribadì, avvicinandosi, "hai litigato un'altra volta con Paolo".
Dora tirò un sospiro di sollievo.
"Questa ormai è storia di tutti i giorni", disse.
"Non andate proprio d'accordo?", domandò la collega.
"Abbiamo caratteri molto simili".
"E vi scornate. Un classico. Dovete venirvi incontro".
"Basta una sciocchezza e si torna a litigare. A volte anche per cazzate".
"E ieri che è successo?", domandò la collega.
"Sciocchezze. Io volevo mangiare una cosa, lui un'altra. Siamo finiti a dirci reciprocamente che abbiamo le fisime, i vizi, e poi che siamo egoisti".
"E qui è scattata la lite".
"Esatto, stamattina non mi ha nemmeno salutata. E io ci sto sempre male".
"Ma tu hai capito questo Montana?", cambiò discorso la collega, "tutte ste donne. Ma poi chi sarà questo assassino che gliele uccide tutte? Sai come staranno le altre due? Avranno la paura in corpo".
In quel momento, Dora, avrebbe voluto raccontare all'amica com'è vivere con la paura in corpo. Guardarsi sempre le spalle, temere che da un momento all'altro qualcuno ti salti addosso e ti stringa la gola. Camminare per strada a passo sveltissimo e uscire il meno possibile. Fare mille ipotesi (e se cambia sistema? E se non colpisce più di sera ma di giorno? E se non strangola più, ma spara. O ti pugnala allo stomaco? O ti investe con una macchina?).
"Ma a te piace questo assessore sciupafemmine? Te lo faresti? A me un po' di sangue me lo fa. Non è bello ma c'ha quella faccia maschia che ispira sesso. Dai, che ti farebbe bene pure a te. Da quanto tempo non lo fai?".
"E dai, Rita, mi scoccia parlare di queste cose", rispose Dora.
"E che sarà mai? Ti scoccia parlarne figuriamoci farlo. E come sei. Io quasi quasi vado di sopra e mi propongo a Montana. Gli dico: senti assessore tu devi avere qualche virtù nascosta. Visto che ti si sono liberati due posti, avrei pensato di candidarmi. Che dici?", e sbracò in un'altra risata di gola.
Dora finse un sorriso di rimprovero, con tanto di scuotimento di testa. Si alzò per mettere a posto i fascicoli.
"E poi ci sta pure il brivido. Diventi una sua amante e ti possono uccidere da un momento all'altro. Sai che adrenalina?", continuò la collega.
"Io vado a buttarmi un po' d'acqua in faccia", disse Dora, uscendo dalla stanza e pensando, in quel momento, che si era comportata proprio come non doveva. Nervosa, impaziente, sfuggente. Rita poteva fare tranquillamente due più due e tirare l'inciucio. Decise di rientrare nella stanza e di mostrarsi più disinvolta.
"Comunque, per tua norma e regola, io scopo bene e con regolarità", disse Dora.
"Azzo, ti sei ripresa. Ti sei sciacquata con l'acqua di Lourdes? E mo me la vado a buttare pure io in faccia".
"Meglio in testa", osservò Dora.
"Ah, ma allora ti sei ripresa per davvero".
"Andiamoci a prendere un caffè, che ho lavorato troppo", disse Dora, ridendo insieme a Rita e sentendo, per un attimo, che aveva fatto la cosa giusta anche se il peso lo aveva ancora tutto sullo stomaco.
Sulla porta dell'ufficio impattarono in Galli, il dirigente. Era un uomo silenzioso come un topo. Strisciava nei corridoi, passando da un ufficio all'altro con i fascicoli in mano, lasciandosi dietro solo l'ombra. Dalla scrivania avevi giusto il tempo di alzare gli occhi. Ti rimaneva la sensazione di averlo visto. Era basso e di una magrezza innaturale, aveva uno scavo al centro del ventre e le costole piccole e in rilievo. Come se un batterio, consumati tutti i grassi, avesse cominciato a rosicchiargli le ossa. Aveva un viso di spigoli e angoli con il naso che, per il vuoto intorno, sembrava lungo come un becco. Portava i capelli rasi, a spazzola, brizzolati e vestiva sempre con una giacca scura e una camicia bianca, senza cravatta. Se invece di svicolare, si fermasse, pensò Dora, l'effetto sarebbe quello dell'uomo morto in camera da letto.
"Dove andate?", disse Galli all'indirizzo delle due.
"Al bar", rispose Rita.
"Marcate il permesso, mi raccomando", rispose il dirigente.
"Non mancheremo", replicò Rita, voltando le spalle e tirandosi dietro Dora.
Fosse stato il dirigente del Demografico, quel Giuliano appena assunto, Rita gli avrebbe offerto volentieri un caffè. "Ma quel Galli, mamma mia, ma che è un uomo quello lì?".
Dora sorrise e rispose: "piacerà anche lui a qualcuna".
Il gusto legato alle persone, secondo Dora, era imponderabile. Aveva visto uomini di un'antipatia mostruosa far perdere la testa a donne simpaticissime. Ragazze con la cellulite riuscire a far innamorare il più bello della scuola. Come fai a dire, a tavolino, cosa ti può piacere o non piacere? A lei, per esempio, perché Ennio le faceva girare così la testa? Era il viso maschio di cui parlava Rita o la parlantina sciolta o certi modi timidi e decisi al tempo stesso o una capacità tutta sua di avvolgerti e farti sentire al sicuro o quei tratti antipatici che però si trasformavano all'improvviso e diventavano paciosi e belli o quel senso di disagio che metteva nell'interlocutore o quell'aria supponente di chi la sa sempre lunga o quel carattere ombroso con improvvisi scatti di simpatia? Oppure gli faceva semplicemente sangue, come diceva Rita, e per questa ragione riusciva a far l'amore con lui come non era mai riuscita a farlo con nessuno, nemmeno con Paolo, che pure lei non avrebbe mai lasciato?
Le due colleghe scesero al piano terra, Rita fece tiè al marcatempo e decise che non avrebbe timbrato alcun permesso. "La pausa caffè al bar è prevista nel contratto dei lavoratori comunali", disse ridendo, "una ogni ora, ovviamente". Entrarono al Solleone, un caffè con tavolini all'aperto e un banco pieno di pasticcini, proprio di fronte al Municipio. Dora, all'impatto con l'aria aperta, fu presa da un singhiozzo insistente. Rita scoppiò a ridere. "Ah, la libertà", disse.
Ma Dora sapeva cos'era. La paura la prendeva al respiro e glielo spezzava nei polmoni. Ogni volta che lasciava un luogo chiuso dove si sentiva protetta e affrontava uno spazio aperto cominciava a pensare di poter essere colpita alle spalle dall'assassino che girava per Marenza. Naturalmente non poteva dirlo a Rita, come a Paolo in altre circostanze. Non poteva confessare quella paura senza dover, poi, dire il resto.
Quando le prendeva così, portava una mano al petto e faceva un piccolo esercizio. Lo aveva imparato anni prima, quando diluì dentro una psicoterapia gli attacchi di panico che, periodicamente, le davano l'angoscia della morte e lo stupore della resurrezione in una trentina di secondi. Il medico che la seguì le disse che il segreto era fermare i motori, come le navi quando arrivano nei porti. Fermarsi, chiudere gli occhi, immaginarsi di avere un quadro di accensione o di spegnimento come i veicoli, e girare la chiave. Spegnere idealmente il contatto. Lasciarsi galleggiare. I primi tempi non riusciva a farlo. Le sembrava una cosa artificiale, irreale, stupida. Con il risultato di aggiungere all'angoscia dell'attacco di panico, la rabbia di non riuscire a fare l'esercizio. Poi, una volta, lo sperimentò a freddo, fuori dall'emergenza. Si sedette sul divano, chiuse gli occhi e decise di spegnere il motore. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e molleggiò le gambe, allentò l'addome e la mandibola. Immaginò che all'improvviso le avessero tolto il sistema muscolare e fosse rimasta come uno scheletro con la carne intorno. Si sentì sgonfiare lentamente e sentì svanire tutti i pesi. Anche il pensiero divenne liquido e una lieve contrattura al collo, che le si era formata al risveglio, scivolò via di colpo. L'esperimento le diede talmente tanto benessere che imparò a ripeterlo come esercizio di rilassamento. Riusciva a raggiungere la leggerezza in pochi secondi e quello stratagemma le fu così utile per gli attacchi di panico che, dopo un po', scomparvero.
Adesso, però, era invasa da un altro tipo di angoscia. Una paura costante di perdere tutto. La vita, innanzitutto.

(...)

 

 

Antonio Menna, lucano di nascita, napoletano di fatto, vive un po' a Roma e un po' a Marano di Napoli. Giornalista, è collaboratore del quotidiano Il Mattino e di altri giornali. Si occupa anche di comunicazione istituzionale e uffici stampa. Da circa un anno è assessore alla Cultura del Comune di Marano di Napoli, dove è stato eletto consigliere comunale per la prima volta nel 1996 e poi sempre riconfermato. È stato già assessore dal 2000 al 2005. È al suo secondo romanzo. Nel giugno del 2007 ha pubblicato, sempre per Cicorivolta, “Cocaina & Cioccolato”.
Con i suoi racconti ha vinto numerosi concorsi letterari.
Ha un blog (www.antoniomenna.com) e usa Facebook (www.facebook.com/antoniomenna).